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A livello internazionale si sta ormai consolidando una prassi: tassare ciò che non può essere corretto. In pratica si utilizza la leva fiscale per “compensare” l’assenza della volontà politica di incidere sui cambiamenti climatici, sulla finanza senza scrupoli etici, sulla distruzione ambientale o sullo sfruttamento selvaggio del lavoro. Nelle intenzioni dei promotori, una maggiore tassazione nei confronti di operazioni e pratiche discutibili renderebbe queste ultime meno profittevoli e quindi sconsigliabili. Tutto da dimostrarsi, ovviamente.

L’ultima puntata di questa saga fiscale è la tassa “anti-Nutella” applicata dalla Francia alla specialità di punta della Ferrero. Una tassa dovuta al fatto che il colosso dolciario utilizza olio di palma proveniente dall’Estremo Oriente, prodotto deforestando gli ultimi polmoni verdi di quelle latitudini.

Sul lato finanziario questo approccio ai problemi prende la forma della Tobin Tax, misura che, dopo anni di lotte, sta per entrare in vigore in diversi Paesi europei. Si tratta di un piccolo prelievo che tocca ogni operazione di tipo speculativo, e che dovrebbe quindi far calare l’uso di strumenti finanziari a brevissimo termine. In Italia, apripista di questi meccanismi era stata la tassa sui sacchetti di plastica introdotta dal ministro dell’ambiente Giorgio Ruffolo nel lontano 1988. La grande contraddizione di queste operazioni è che non funzionano: nel migliore dei casi, si chiede che i proventi della tassazione vengano investiti per sostenere politiche di welfare o ambientali.

Anche se dalla Tobin Tax dovesse arrivare il flusso di miliardi che molti si attendono, questi fondi non andrebbero a compensare il danno provocato dalla speculazione borsistica, bensì a calmierarne le conseguenze attraverso il welfare o il sostegno alle banche.

In fondo è la vecchia polemica tra “utopisti” e “concreti”. I primi, quando si parla di diritti dell’ambiente o delle persone, respingono qualsiasi sistema che riduca il danno, in attesa di una rivoluzione globale; i secondi finiscono per accettare le toppe che man mano vengono cucite sul logoro vestito della globalizzazione. Dalla denuncia si passa all’accettazione  Il passo successivo è breve: per paradosso, una volta a regime questi flussi fiscali porterebbero alla difesa del meccanismo che li genera, e cioè dello sfruttamento “discutibile” dell’ambiente o del dumping sul costo del lavoro. Uno spiraglio fiscale che allunga soltanto i tempi di una deriva priva di un punto finale.

Se la politica continua a fare melina e a rimandare le soluzioni, non c’è tassa che possa fermare questi processi. La leva fiscale può essere efficace solo in una fase transitoria, mentre si procede politicamente verso un regime più stringente sulle modalità del lavoro e della finanza. Da sola, serve a creare illusioni e falsi miti, foraggiando contemporaneamente gli apparati di Stati incapaci di tutelare correttamente i loro cittadini. La protesta scombussolata che in diversi Paesi sta prendendo piede anche a livello elettorale fa spesso il gioco di chi non vuole cambiare nulla. Delegittimando la politica in quanto tale, si delegittima l’ambito nel quale dovrebbero maturare quelle riforme necessarie per cambiare rotta, a livello locale e internazionale.

Ecco perché, finché il filo spinato continuerà a separare le piazze dai palazzi, sulle immense praterie della globalizzazione continueranno a scorrazzare i veri poteri forti, la vera casta: quella che determina cosa mangeremo, come ci vestiremo, quale gadget elettronico dovremo comprare.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

La crisi finanziaria, che qualcuno frettolosamente aveva liquidato come superata prima ancora che se ne fosse compresa la reale portata, si sta abbattendo implacabile sull’Europa. Ci sono diverse letture possibili, con il risultato di creare una grande “bolla informativa” che alla fine genera più confusione che chiarezza. Quali sono state le cause e quali i colpevoli della crisi?

A scelta, l’elevato tasso di indebitamento dei Paesi dell’Europa mediterranea, il crescente deficit dei conti pubblici, il differenziale tra euro e dollaro che in questi anni ha intaccato l’export europeo, il costo del lavoro che toglierebbe competitività. Sono tutte concause più o meni reali, ma sarebbe davvero riduttivo dare una lettura in termini esclusivamente monetari o di bilancio a una crisi che, in Europa, sta mutando i rapporti di forza tra gli Stati e nella società.

Il welfare, fiore all’occhiello di Eurolandia, pensato in una situazione economica e demografica radicalmente diversa rispetto a quella odierna, è ormai oggetto di un bombardamento quotidiano. La cecità, oppure l’impossibilità politica di aggiornare per tempo questo sistema, porta ora in Europa, in tempi di emergenza, ai primi piani di aggiustamento strutturale di netto stampo liberista. Piani che discriminano in base al reddito: chi avrà risorse per pagarsi i servizi che verranno tagliati continuerà a vivere normalmente, mentre chi non potrà affrontare i costi dovrà adattarsi a una situazione nuova e non certo positiva.

Con le riforme che già si annunciano, il sistema economico europeo, basato sui livelli di omogeneità sociale più alti del mondo, subirà un trasferimento di risorse dalla base della piramide sociale verso l’alto, cioè verso quei settori più direttamente responsabili della crisi finanziaria. Nelle passate settimane sono riecheggiate per la prima volta in Europa le voci di economisti, molti dei quali statunitensi, che hanno riproposto il solito credo con il quale in passato si è tentato, fallendo, di soccorrere Paesi in difficoltà: tagli alla spesa pubblica e al reddito dei settori socialmente più deboli.

Niente di nuovo allora, anche se questa sarebbe l’opportunità migliore per fare almeno quattro cose imprescindibili per il dopo-crisi.
Innazitutto chiudere una volta per tutte il dibattito sulla Tobin Tax e introdurla davvero, per raffreddare la speculazione finanziaria. Gli 800 miliardi che verranno accantonati per il salvataggio dell’euro potrebbero essere garantiti proprio da questa tassa, almeno in parte.
La seconda idea finora lasciata cadere è quella di incentivare la nascita di un’agenzia di rating europea. La sudditanza dei Paesi dell’euro nei confronti delle agenzie d’oltreoceano, coinvolte direttamente in operazione speculative e comunque appartenenti all’area del dollaro, è ormai inspiegabile.

La terza questione riguarda il ripensamento del welfare. Come renderlo più snello alla luce dei nuovi equilibri sociali e demografici, combattendo sprechi e garantendo allo stesso tempo l’assistenza di base e l’educazione comune. Efficienza e solidarietà, giustizia fiscale e sussidiarietà: tutti elementi che vanno di nuovo coniugati affinché il welfare abbia un futuro.

La quarta e ultima questione in sospeso riguarda i piani di uscita dalla crisi. Quelli annunciati sono un mix tra tagli alle spese correnti e infrastrutturali, un po’ di macelleria sociale e quadrature di bilancio forzate. Nulla invece sullo sviluppo, sul gettito fiscale produttivo, sul lavoro, sui settori economici strategici. Così ci si infila dritti dritti nel tunnel della recessione.

Se non vengono ora affrontate le cause strutturali di questa crisi, in futuro sarà sempre più difficile immaginare salvataggi e si registrerà probabilmente la fine dell’euro. Per alcuni significherà avviarsi verso il default, per altri addirittura vedere intaccata la propria integrità nazionale; soprattutto sarà la morte di un sogno, quello di un gruppo di Paesi che ebbero la forza di chiudere con un passato di diffidenze, conflitti e drammi, ma che non hanno poi trovato il coraggio di guardare insieme al futuro.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

In questi ultimi anni abbiamo imparato che le materie prime alimentari, energetiche e minerarie non servono solo per mangiare, viaggiare, scaldarsi, produrre oggetti, ma anche per fare soldi. Tanti soldi. Perché quelle risorse essenziali che la gente comune chiama grano e soia, nichel e petrolio, cacao e caffè, carne di manzo o di maiale, per gli agenti di borsa hanno un altro nome. Le chiamano commodities e le quotano sui mercati: non quelli di quartiere, ma quelli finanziari, che hanno un orizzonte internazionale.

Oggi i  prezzi e la disponibilità di queste materie prime sono controllati da 12 giganti. Tra essi, cinque sono svizzeri e quattro statunitensi: insieme fatturano circa mille miliardi di dollari USA all’anno. Sono le cosiddette trading houses, misteriosi manovratori dei prezzi della benzina e del pane, che dispongono di ingenti capitali per speculare, acquistare, stoccare e vendere beni di questo tipo. E che decidono gli investimenti sulla base di approfondite ricerche di economia e geopolitica anziché dopo aver studiato le stagioni agricole e i cambiamenti climatici. Possono permettersi di immagazzinare enormi quantità di materie prime se il momento non è quello giusto per vendere, e sono in grado di determinare che cosa semineranno gli agricoltori di mezzo mondo in base ai prezzi promessi.

Le trading houses incidono pesantemente sulle quotazioni delle materie prime sui mercati e sul prezzo dei futures, cioè dei titoli che scommettono sul prezzo che una certa risorsa raggiungerà in un determinato momento. In poche parole non producono nulla ma, speculando, decidono che cosa produrranno gli altri e stabiliscono il valore della loro produzione. L’agricoltura globale è oggi nelle mani di queste realtà che controllano infatti tra il 70 e l’85% del mercato dei cereali, e che determinano anche i prezzi dei metalli: nelle loro mani ci sono il 60% del mercato dello zinco e il 40% di quello del rame. E commercializzano più petrolio dell’Arabia Saudita.

In questo mondo di poteri fortissimi che preferiscono non farsi notare è in atto un processo di ulteriore concentrazione, con l’annunciata fusione tra le svizzere Glencore e Xtrata. Nascerebbe un colosso da 90 miliardi di dollari all’anno, ma è solo una stima, perché questi gruppi non amano quotarsi in Borsa. La statunitense Cargill, per esempio, fattura 108 miliardi di dollari con il trading di materie prime e non ha bisogno di Wall Street. In borsa poi ci sono regole sulla trasparenza e sui movimenti delle aziende quotate che non si addicono esattamente al modus operandi delle trading house. Com’è immaginabile, questo business attira il più grande divoratore di materie prime emergente: la Cina, che sta già entrando nel club attraverso la Noble con sede a Hong Kong.

Se appena si solleva il velo di segretezza che caratterizza questo settore dedito alla grande speculazione e a operazioni al limite della legalità, si intravede la fragilità dell’odierno mondo globalizzato, nel quale un numero sempre più ridotto di soggetti riesce a imporre a miliardi di persone i consumi, i prezzi, perfino i modelli di sviluppo. Soggetti che si schermano dietro società offshore non quotate in borsa, con capacità di sviluppare business in decine di Paesi.

Anche la Tobin Tax oggi in discussione, che dovrebbe tassare i profitti della speculazione finanziaria, sarebbe uno strumento insufficiente per intervenire su queste logiche. Ci vorrebbe il coraggio di separare nettamente la produzione di beni essenziali dalla speculazione, vietando strumenti finanziari come i futures e restringendo il campo d’azione delle trading houses.

Ma di questi tempi, chi ha il potere di ridimensionare gli speculatori?

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)