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Se si confronta con l’inglese, non sono tante le parole della lingua spagnola utilizzate senza traduzione in italiano. Parole con una caratteristica comune, che difficilmente hanno valenze positive, anzi: golpe, desesperado, pistolero, desaparecido, narcos. A queste parole ormai acquisite non solo dall’italiano si sta per aggiungere una nuova: retornados e cioè gli emigrati sudamericani negli Usa e in Europa ritornati negli ultimi anni ai loro paesi. Un fenomeno che si vorrebbe collegare quasi esclusivamente alla crisi che ha lasciato per strada in Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Italia anzitutto gli immigrati, l’anello più debole della catena dell’occupazione. Il fenomeno dei retornados è invece più complesso e ciparla invece delle dinamiche migratorie, sempre in evoluzione e mai statiche. Da alcunipaesi come la Spagna e il Portogallo, si tratta di vera e propria fuga verso il Perù, la Bolivia e l’Ecuador, il Brasile. Per legami storici, i flussi migratori tra i paesi iberici e il mondo andino sono stati in passato molto forti, ma il ritorno di oltre 400.000 sudamericani dalla sola Spagna va interpretato anche alla luce delle ottime performance economiche di questi paesi che non solo hanno schivato la crisi, ma agganciandosi all’economia dell’area del Pacifico, registrano tutti alti livelli di crescita economica e quindi di opportunità lavorative. Paesi tutti che hanno varato in questi anni leggi apposite per favorire il rientro dei loro emigrati, mentre i paesi europei hanno agevolato  l’uscita, anche con l’utilizzo di fondi europei a copertura dei costi. E’ così che oggi l’Europa si sta impoverendo del punto di vista della manodopera che con tanta fatica e investimento aveva formato negli ultimi decenni, mentre per la prima volta nella storia, i paesi del Sudamerica si arricchiscono con l’esperienza e la professionalità accumulata dai loro cittadini di ritorno. Emigrati di ritorno che per lunghi anni avevano sostenuto l‘economia locale attraverso le rimesse che ogni mese trasferivano alle loro famiglie.  Anche per questo, i retornados esigono dai loro paesi di origine, ora che sono loro ad avere bisogno, facilitazioni e sostegno. Gli incentivi finora offerti per tornare sono molto variegati e in molti casi solo promesse, l’unico paese che fa una seria politica per il ritorno è il piccolo Uruguay che arriva fino a farsi carico del costo di  due anni di affitto dell’abitazione della famiglia rientrata. Nel caso del Perù, per ora le facilitazioni sono sulla carta, ma il miglior incentivo è una crescita economica media annua del 6,5% da ormai 10 anni e previsione rosee per almeno altri 5 anni. Le statistiche del paese andino riferiscono che in media, un lavoro si trova entro 4 mesi. Un miraggio per chi dopo anni di lavoro in Spagna è rimasto disoccupato e può godere di soli 6 o 12 mesi di sussidio di disoccupazione prima della nulla.

Gli aeroporti sudamericani in questi anni di crisi offrono uno spaccato di un mondo incostante movimento. Retornadoscon al seguito  figli con i tasca un passaporto europeo e che non conoscono il paese dei genitori, mescolati  con una figura che ritorna, gli emigrati, cioè gli europei  dei paesi del Mediterraneo che tornano a calcare le rotte degli antenati alla ricerca di lavoro: portoghesi, spagnoli, greci, italiani che provano fortuna in Brasile, Argentina, Perù o Cile. Come nel film Pane e Cioccolata con Nino Manfredi, nel quale si raccontava l’emigrazione paragonandola a una ruota sulla quale si è su e giù senza soluzione di continuità, gli scambi di persone tra paesi delle periferie del mondo, siano esse americane o europee, ci parlano di una storia comune, spesso più solida e culturalmente più salda di quelle che uniscono molti stati più vicini dal punto di vista geografico.  Per questi motivi, la xenofobia in Europa, patria di paesi che per secoli e secoli hanno scaricato le proprie miserie altrove, se non fosse drammatica, sarebbe da ridere.

 

Alfredo Somoza

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La crisi finanziaria, che qualcuno frettolosamente aveva liquidato come superata prima ancora che se ne fosse compresa la reale portata, si sta abbattendo implacabile sull’Europa. Ci sono diverse letture possibili, con il risultato di creare una grande “bolla informativa” che alla fine genera più confusione che chiarezza. Quali sono state le cause e quali i colpevoli della crisi?

A scelta, l’elevato tasso di indebitamento dei Paesi dell’Europa mediterranea, il crescente deficit dei conti pubblici, il differenziale tra euro e dollaro che in questi anni ha intaccato l’export europeo, il costo del lavoro che toglierebbe competitività. Sono tutte concause più o meni reali, ma sarebbe davvero riduttivo dare una lettura in termini esclusivamente monetari o di bilancio a una crisi che, in Europa, sta mutando i rapporti di forza tra gli Stati e nella società.

Il welfare, fiore all’occhiello di Eurolandia, pensato in una situazione economica e demografica radicalmente diversa rispetto a quella odierna, è ormai oggetto di un bombardamento quotidiano. La cecità, oppure l’impossibilità politica di aggiornare per tempo questo sistema, porta ora in Europa, in tempi di emergenza, ai primi piani di aggiustamento strutturale di netto stampo liberista. Piani che discriminano in base al reddito: chi avrà risorse per pagarsi i servizi che verranno tagliati continuerà a vivere normalmente, mentre chi non potrà affrontare i costi dovrà adattarsi a una situazione nuova e non certo positiva.

Con le riforme che già si annunciano, il sistema economico europeo, basato sui livelli di omogeneità sociale più alti del mondo, subirà un trasferimento di risorse dalla base della piramide sociale verso l’alto, cioè verso quei settori più direttamente responsabili della crisi finanziaria. Nelle passate settimane sono riecheggiate per la prima volta in Europa le voci di economisti, molti dei quali statunitensi, che hanno riproposto il solito credo con il quale in passato si è tentato, fallendo, di soccorrere Paesi in difficoltà: tagli alla spesa pubblica e al reddito dei settori socialmente più deboli.

Niente di nuovo allora, anche se questa sarebbe l’opportunità migliore per fare almeno quattro cose imprescindibili per il dopo-crisi.
Innazitutto chiudere una volta per tutte il dibattito sulla Tobin Tax e introdurla davvero, per raffreddare la speculazione finanziaria. Gli 800 miliardi che verranno accantonati per il salvataggio dell’euro potrebbero essere garantiti proprio da questa tassa, almeno in parte.
La seconda idea finora lasciata cadere è quella di incentivare la nascita di un’agenzia di rating europea. La sudditanza dei Paesi dell’euro nei confronti delle agenzie d’oltreoceano, coinvolte direttamente in operazione speculative e comunque appartenenti all’area del dollaro, è ormai inspiegabile.

La terza questione riguarda il ripensamento del welfare. Come renderlo più snello alla luce dei nuovi equilibri sociali e demografici, combattendo sprechi e garantendo allo stesso tempo l’assistenza di base e l’educazione comune. Efficienza e solidarietà, giustizia fiscale e sussidiarietà: tutti elementi che vanno di nuovo coniugati affinché il welfare abbia un futuro.

La quarta e ultima questione in sospeso riguarda i piani di uscita dalla crisi. Quelli annunciati sono un mix tra tagli alle spese correnti e infrastrutturali, un po’ di macelleria sociale e quadrature di bilancio forzate. Nulla invece sullo sviluppo, sul gettito fiscale produttivo, sul lavoro, sui settori economici strategici. Così ci si infila dritti dritti nel tunnel della recessione.

Se non vengono ora affrontate le cause strutturali di questa crisi, in futuro sarà sempre più difficile immaginare salvataggi e si registrerà probabilmente la fine dell’euro. Per alcuni significherà avviarsi verso il default, per altri addirittura vedere intaccata la propria integrità nazionale; soprattutto sarà la morte di un sogno, quello di un gruppo di Paesi che ebbero la forza di chiudere con un passato di diffidenze, conflitti e drammi, ma che non hanno poi trovato il coraggio di guardare insieme al futuro.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)