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Le campagne iniziate due anni fa per denunciare i disastri ambientali provocati dal dilagare delle piantagioni di palma da olio, soprattutto in Asia, hanno dato ottimi risultati. O almeno così sembra. Il rapporto 2020 dell’Unione italiana per l’olio di palma sostenibile conferma che il 92% dell’olio di palma usato dall’industria italiana è certificato RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), il migliore standard di certificazione internazionale. Con questo olio si rifornisce ad esempio la Ferrero, principale acquirente italiano, che non ha voluto rinunciare all’olio di palma per il suo prodotto di punta, la Nutella. Altri colossi italiani come Barilla, Galbusera o Balocco hanno invece sostituito questo prodotto con altri oli vegetali, che ormai coprono il 60% del fabbisogno totale. E qui si arriva al punto, perché l’industria dolciaria che rinuncia all’olio di palma ora usa soia, colza e girasole, senza preoccuparsi della provenienza. Infatti l’olio di girasole certificato come sostenibile è solo il 4,5% del totale, la soia sostenibile l’1,3%, mentre il resto è OGM proveniente dal Nord o dal Sud America.

Il problema non finisce qui. La palma da olio ha una capacità di produzione cinque volte superiore rispetto alle altre principali fonti di olio vegetale. Significa che, a parità di richiesta di mercato, per un ettaro di palma che si abbandona servono cinque ettari delle altre piante per produrre la stessa quantità di olio. Anche i suoli soffrono meno con la palma che, in quanto albero da frutto, resta sul terreno almeno 20 anni, mentre gli altri oli si estraggono da piante annuali, con la conseguente erosione del terreno e l’eliminazione di qualsiasi altra specie vegetale o animale viva nella piantagione. Le certificazioni meritano poi un’ulteriore riflessione, perché riguardano solo i processi in corso e non lo storico. Cioè non si va a considerare l’abbattimento delle foreste necessario per allestire la piantagione, ma si guarda soltanto come la si gestisce attualmente. Ci danno quindi una fotografia molto parziale della situazione.

A livello mondiale, bisogna constatare che la sensibilità sui temi ambientali ha ancora un basso appeal. Nonostante le pressanti campagne, soltanto il 19% dell’olio di palma globalmente prodotto è certificato, mentre per le altre coltivazioni, quasi tutte OGM, si tace. Il punto è che la quantità di materie prime consumate dall’industria di trasformazione è superiore a quanto la terra può produrre in modo sostenibile. Se tutta la coltivazione mondiale di cereali, piante da frutto, alberi da olio, tuberi, per non parlare degli allevamenti e della pesca, fosse ricondotta a criteri di sostenibilità, non ci sarebbe la materia prima necessaria per mantenere invariato il nostro livello (e modello) di consumo. Il senso profondo del tanto deriso concetto di decrescita felice è proprio questo: non significa essere più poveri bensì più essenziali. Il non volerlo comprendere porta all’illusione, che ha soltanto il merito di mettere qualche anima in pace, che si possa agire su un determinato prodotto senza ricadute sulla produzione di altri, altrettanto o più insostenibili. Il problema è quindi il modello agricolo che deve rispondere a un mercato senza limiti. L’andamento attuale iniziò nell’800 quando, abbagliati dai progressi della scienza e della tecnica, nemmeno si pensava alla possibilità di un esaurimento delle risorse, né all’ambiente. Oggi la situazione non è cambiata di molto: anzi, siamo molti di più e consumiamo più di prima. Ma almeno possiamo metterci il cuore in pace comprando la merendina palm oil free e credere che abbiamo fatto una buona azione. Peccato che il marketing verde, da solo, non salverà affatto il pianeta.

 

A livello internazionale si sta ormai consolidando una prassi: tassare ciò che non può essere corretto. In pratica si utilizza la leva fiscale per “compensare” l’assenza della volontà politica di incidere sui cambiamenti climatici, sulla finanza senza scrupoli etici, sulla distruzione ambientale o sullo sfruttamento selvaggio del lavoro. Nelle intenzioni dei promotori, una maggiore tassazione nei confronti di operazioni e pratiche discutibili renderebbe queste ultime meno profittevoli e quindi sconsigliabili. Tutto da dimostrarsi, ovviamente.

L’ultima puntata di questa saga fiscale è la tassa “anti-Nutella” applicata dalla Francia alla specialità di punta della Ferrero. Una tassa dovuta al fatto che il colosso dolciario utilizza olio di palma proveniente dall’Estremo Oriente, prodotto deforestando gli ultimi polmoni verdi di quelle latitudini.

Sul lato finanziario questo approccio ai problemi prende la forma della Tobin Tax, misura che, dopo anni di lotte, sta per entrare in vigore in diversi Paesi europei. Si tratta di un piccolo prelievo che tocca ogni operazione di tipo speculativo, e che dovrebbe quindi far calare l’uso di strumenti finanziari a brevissimo termine. In Italia, apripista di questi meccanismi era stata la tassa sui sacchetti di plastica introdotta dal ministro dell’ambiente Giorgio Ruffolo nel lontano 1988. La grande contraddizione di queste operazioni è che non funzionano: nel migliore dei casi, si chiede che i proventi della tassazione vengano investiti per sostenere politiche di welfare o ambientali.

Anche se dalla Tobin Tax dovesse arrivare il flusso di miliardi che molti si attendono, questi fondi non andrebbero a compensare il danno provocato dalla speculazione borsistica, bensì a calmierarne le conseguenze attraverso il welfare o il sostegno alle banche.

In fondo è la vecchia polemica tra “utopisti” e “concreti”. I primi, quando si parla di diritti dell’ambiente o delle persone, respingono qualsiasi sistema che riduca il danno, in attesa di una rivoluzione globale; i secondi finiscono per accettare le toppe che man mano vengono cucite sul logoro vestito della globalizzazione. Dalla denuncia si passa all’accettazione  Il passo successivo è breve: per paradosso, una volta a regime questi flussi fiscali porterebbero alla difesa del meccanismo che li genera, e cioè dello sfruttamento “discutibile” dell’ambiente o del dumping sul costo del lavoro. Uno spiraglio fiscale che allunga soltanto i tempi di una deriva priva di un punto finale.

Se la politica continua a fare melina e a rimandare le soluzioni, non c’è tassa che possa fermare questi processi. La leva fiscale può essere efficace solo in una fase transitoria, mentre si procede politicamente verso un regime più stringente sulle modalità del lavoro e della finanza. Da sola, serve a creare illusioni e falsi miti, foraggiando contemporaneamente gli apparati di Stati incapaci di tutelare correttamente i loro cittadini. La protesta scombussolata che in diversi Paesi sta prendendo piede anche a livello elettorale fa spesso il gioco di chi non vuole cambiare nulla. Delegittimando la politica in quanto tale, si delegittima l’ambito nel quale dovrebbero maturare quelle riforme necessarie per cambiare rotta, a livello locale e internazionale.

Ecco perché, finché il filo spinato continuerà a separare le piazze dai palazzi, sulle immense praterie della globalizzazione continueranno a scorrazzare i veri poteri forti, la vera casta: quella che determina cosa mangeremo, come ci vestiremo, quale gadget elettronico dovremo comprare.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)