In Centro America, a dividere e insieme unire il Nord e il Sud del continente c’è un piccolo Stato-cerniera con una storia che sembra il copione di una fiction. Un Paese il cui nome si può tradurre in due modi: in lingua indigena Panamá significa infatti sia “abbondanza di pesci e di farfalle” sia “aldilà”. Forse anche gli indios panamensi si raffiguravano l’aldilà come un luogo di assoluta bellezza e ricco di ogni bene. Ma si può provare a dare anche un’altra interpretazione: e cioè che il destino di Panamá sia scritto nel suo nome perché “abbondanza” e “aldilà” sono le due parole chiave con le quali si può definire il concetto di globalizzazione. L’abbondanza di materie prime, di terre, di minerali, che diventano però ricchezza al di là delle terre in cui si trovano, in Paesi o addirittura in continenti lontani.
Da quando la terra è stata scippata agli indigeni Chibcha, Panamá si trova al centro di movimenti internazionali di beni e capitali non sempre – anzi raramente – leciti. Qui si depositava il tesoro d’oro e argento strappato agli Incas in Perú prima di imbarcarlo sulla “Flota de Indias”, la flotta che annualmente portava in Europa il frutto del saccheggio americano. Una volta nel Vecchio Continente, qualcosa rimaneva in Spagna, ma la maggior parte delle ricchezze finiva a Londra, Rotterdam e Amburgo, e anche a Siena e Genova, per ripagare le banche che, con i loro prestiti, stavano finanziando la conquista. Si creò così la capitalizzazione che, due secoli dopo, avrebbe finanziato la Rivoluzione Industriale.
Tornando a Panamá: il tesoro rubato e provvisoriamente depositato lì risvegliava gli appetiti di altri predatori. Panamá eresse mura e fortezze per resistere agli attacchi dei pirati britannici, francesi e olandesi, ma con poco successo. Più volte i suoi porti furono messi a ferro e fuoco a vantaggio dei governi europei nemici della Spagna, quelli che fornivano bandiera e protezione alle imprese dei corsari. Tra i gentiluomini che ebbero fortuna nell’assalto a Panamá si contano i baronetti di Sua Maestà Sir Francis Drake e Sir Henry Morgan, due esempi di come non è sempre vero che “il crimine non paga”.
Panamá, “colpevole” di trovarsi nella parte più sottile del continente, una striscia di terra fra due oceani, continuò a rivestire un ruolo importante nella globalizzazione dopo aver ottenuto l’“indipendenza” dalla Colombia, nel 1903: Bogotá aveva rifiutato una proposta “che non si poteva rifiutare” da parte del presidente statunitense Theodore Roosevelt, il quale voleva costruire un canale tra gli oceani gestendolo direttamente da Washington. La soluzione fu rendere autonoma dalla Colombia la zona in cui si voleva creare il canale.
Iniziò quindi la storia della Repubblica del Panamá, che ebbe il suo primo presidente nominato dagli Stati Uniti. Questi, come primo atto di governo, autorizzò gli USA a costruire e gestire un canale tra gli oceani Atlantico e Pacifico, oltre a firmare un patto di reciproca assistenza militare e adottare il dollaro quale moneta nazionale. Il Canale, aperto nel 1914, diventò un grande volano per le comunicazioni marittime mondiali, insieme a quello di Suez, permettendo di accorciare i tempi e i costi del trasporto di merci: una forte spinta per il processo di globalizzazione e un ruolo centrale nei traffici mondiali.
Panamá aveva ancora molte carte da giocare per rimanere sulla cresta dell’onda. È infatti qui che è nata l’economia offshore. Uno spazio virtuale, ma saldamente ancorato ai confini nazionali dello Stato ospitante, nel quale registrare imprese e persone fisiche che vogliono evadere le tasse nei rispettivi Paesi o spostare capitali di dubbia provenienza. Anche la marina mercantile è stata rivoluzionata dalla possibilità di registrare le navi sotto bandiera panamense, soluzione che ha permesso agli armatori di sottrarsi alle imposte dei Paesi di origine. Non a caso, da oltre mezzo secolo, questo è uno degli Stati al mondo con più navi battenti bandiera nazionale, tutte (o quasi) di comodo.
Il modello Panamá è stato riprodotto velocemente nelle piccole isole caraibiche di fronte alle sue coste, già colonie degli stessi Paesi che un tempo proteggevano i pirati: Regno Unito, Francia, Paesi Bassi.
La possibilità di mettere al riparo soldi guadagnati in modo illecito non ha lasciato indifferenti le maggiori organizzazioni criminali latinoamericane (dopo i militari, ovviamente), e cioè i cartelli della droga colombiani. Negli anni ’80 del secolo scorso il quartiere degli affari di Panamá City è diventato “narcocity”: a Panamá entravano i soldi sporchi della droga che subito dopo uscivano ripuliti, bianchissimi, pronti per essere investiti nell’acquisto di terre, nell’edilizia, nei servizi. Panamá è rimasta a lungo la più importante succursale del sistema bancario della Florida, Stato USA, altra piazza utilizzata dai narcos per il riciclaggio.
La politica panamense non poteva che risentire pesantemente della ricchezza facile e delle condizioni di sovranità limitata: ne è derivato un Paese basato sulla corruzione, una corruzione condotta su scala globale. Il governo nazionalista del comandante Omar Torrijos (1968-81), che era riuscito a strappare a James Carter l’impegno alla restituzione del canale ai panamensi, è stato una parentesi. Torrijos è morto in uno dei tanti incidenti aerei, odoranti di CIA, ai danni di leader progressisti. Negli anni Ottanta il suo successore, il comandante Manuel Noriega, detto “faccia d’ananas”, è diventato un personaggio chiave negli intrighi di un’America centrale dilaniata dai conflitti armati.
Noriega, a libro paga della CIA, è stato al centro dell’affaire “Iran-contras-gate”, cioè dell’operazione illegale montata dallo spionaggio e da settori dell’esercito statunitense per procurarsi soldi e acquistare armi da fornire ai contras (che combattevano contro il governo sandinista nicaraguense) e a parte dell’opposizione iraniana. La fonte dei soldi? Un traffico di cocaina che si lasciava entrare negli USA in società con i cartelli colombiani. La cerniera dell’operazione? Panamá. Nel 1989 il momento magico del dittatore è finito. Pieno di segreti, è stato prelevato durante l’invasione del Paese da parte dei marines e condotto in prigione in Florida, per scontare una condanna all’ergastolo… per narcotraffico.
Ora che il canale è passato davvero sotto il controllo panamense le cose non sono cambiate di molto. Si parla già di un secondo canale costruito e gestito dai cinesi, i nuovi signori della globalizzazione. Panamá resiste: rimane luogo di grandi ambiguità e di “opacità”, come si usa dire. La differenza rispetto al passato è che oggi il Paese centroamericano ha molti concorrenti perché il “modello Panamá” si è rivelato vincente, e ancora nessuno ha provato seriamente a smontarlo.
Ecco perché questo Paese illustra perfettamente le contraddizioni, le connivenze pericolose, i doppi giochi e le doppie morali che, dal XV secolo in poi, hanno caratterizzato la globalizzazione dell’economia. Panamá è dunque un caso di studio, un punto di partenza per conoscere quei meccanismi che hanno impedito che la globalizzazione fosse un’opportunità per tutti, e anche per riflettere su come costruire un futuro diverso. Per cambiare modello, per voltare pagina, non bisogna dimenticare Panamá: la storia di questo piccolo Stato è lo specchio della nostra storia, almeno di quella degli ultimi quattro secoli. Uno specchio del mondo che ne riflette la parte meno bella, quella da cancellare.
Alfredo Luis Somoza per Esteri (Radio Popolare)
