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Spesso il dibattito politico si incaglia sui massimi sistemi perché viene influenzato dagli slogan anziché dai fatti. Nel 1994 Norberto Bobbio pubblicava il saggio Destra e sinistra: per il filosofo torinese, la differenza tra le due storiche categorie della politica passava dal concetto di uguaglianza, e cioè di quanto una forza politica tenda ad agire o no per ridurre le diseguaglianze. Da questo punto di vista, un’analisi anche solo per sommi capi della proposta di bilancio federale 2021 che Donald Trump ha girato al Parlamento di Washington inchioda il 45° presidente dell’Unione.

La manovra, che ha una consistenza di 4800 miliardi di dollari, è ricca sia di tagli sia di aumenti di spesa. I capitoli ridimensionati riguardano, tra l’altro, il sostegno ai giovani che chiedono prestiti per l’università: si tratta di un meccanismo che ormai vede la gioventù istruita statunitense gravata di un debito di 1500 miliardi di dollari, a carico soprattutto di minoranze etniche e donne. Inoltre si riducono del 15% i fondi per l’edilizia popolare, in un Paese che sta vivendo la moltiplicazione delle baraccopoli, come quelle sui marciapiedi di Los Angeles, dove sono accampate in tende oltre 80.000 persone che non possono fare fronte all’alto costo degli affitti. Vengono ridotti anche i buoni pasto e le prestazioni del Medicaid, il sistema sanitario per gli anziani poveri, e calano del 6% i fondi per l’istituto nazionale per la sanità. Sull’ambiente il taglio è ancora più deciso: -26% di fondi per l’EPA, l’agenzia statunitense per la protezione ambientale. Dopotutto, il cambiamento climatico non esiste.

In Finanziaria vengono invece aumentate le spese per prorogare fino al 2025 il taglio delle tasse per i più ricchi. Vengono premiati i veterani delle guerre con l’aumento dei pacchetti assistenziali. Aumenta del 3% il budget per la sicurezza interna, mentre quello per la sicurezza nazionale complessivamente balza in avanti del 19%. Poi ci sono fondi per costruire centri di detenzione per immigrati clandestini, e si torna alla carica con il famigerato muro che divide gli USA dal Messico stanziando 2 miliardi di dollari. Inoltre si aumenta dello 0,3% la spesa per le armi, che ormai raggiunge ben 740 miliardi di dollari all’anno, più del PIL della Svizzera. Parallelamente si riducono del 21% gli aiuti in cooperazione internazionale.

Probabilmente durante il dibattito parlamentare qualcosa di questa Finanziaria cambierà, ma l’impianto è chiaro e ci restituisce uno spaccato del moderno populismo. Trump è andato al governo con il sostegno massiccio dei ceti bianchi impoveriti dalla desertificazione economica seguita alla delocalizzazione dell’industria. Finora non ha prodotto nulla a vantaggio di questo elettorato, ma si è concentrato sulla riduzione delle tasse ai più ricchi, cioè a se stesso, e alle corporation, che già pagano poche tasse grazie a raffinati meccanismi di ottimizzazione fiscale. Altro sforzo costante di Trump è quello finalizzato all’aumento della spesa per la sicurezza e per lo sviluppo di armi. È evidente che tale impianto porta all’aumento delle diseguaglianze e alla crescita di una fascia di marginalità che avvicina alcune zone degli Stati Uniti a quello che una volta si chiamava Terzo Mondo.

Al di là dei discorsi, la politica va misurata sui fatti: e per questo possiamo affermare, utilizzando le categorie di Norberto Bobbio, che Donald Trump, presidente populista e abbastanza popolare, si colloca senza dubbio a destra. Non perché rivendichi ideologicamente il suo essere di destra, ma perché lo ha scritto a caratteri cubitali nella sua Finanziaria.

 

Quale sia il punto di rottura di una società e quale sbocchi possano avere le rivolte spontanee non è chiaro. Nel senso che non è mai il detonatore della protesta, di solito una misura antipopolare, ciò che spiega la marea sotterranea che all’improvviso esce in superficie travolgendo la politica come sta succedendo in Libano, Ecuador o Cile. Situazioni diverse, ma con punti in comune che riguardano il rifiuto della corruzione, il rifiuto delle ricette belle e pronte degli organismi finanziari internazionali, il disconoscimento di classi politiche asservite agli interessi di pochi. Le odierne rivolte, per quanto spesso ad alta intensità di violenza, sono una disperata richiesta di democrazia. Non soltanto formale, anche perché si verificano in paesi dove si vota regolarmente, ma sostanziale. Se la liturgia democratica blocca piuttosto che spinge le riforme necessarie perché le maggioranze possano godere dei diritti economici, dei benefici della crescita economica, allora si scende in piazza per riappropriarsi del diritto a decidere.

Dopo la falsa illusione della fine della storia, anche la teoria delle società liquide è in crisi. Sempre più gente in diversi punti del pianeta torna a rischiare la propria pelle per dire basta, ma non è la classica rivolta dei dannati della terra dei tempi della decolonizzazione, è la protesta disperata dei precarizzati, degli impoveriti, di coloro che trovano sbarrato il loro futuro. Un mondo nel quale uno doveva valere uno, tutti uguali nel grande pentolone della globalizzazione, e che si scopre ora più classista e razzista di prima. Non convincono ormai più le pubblicità seducenti che raffigurano un mondo di cittadini uguali davanti alla tecnologia e al futuro. Quel futuro è segnato se non si ritorna a immaginarlo diversamente e ad agire di conseguenza. Ogni protesta ha matrici diverse e sbocchi diversi, prendono più forza dove dietro c’è un’organizzazione sociale in grado di negoziare e di rappresentarla. È più caotica dove non vi sono istanze pronte a guidare e incanalarla. Ma questo alla fine non è un limite, come si sta vedendo, perché la stessa forza dirompente dei cittadini parla a un potere che annaspa. Nel copione del XXI secolo non c’era la stagione che si sta aprendo. Che sicuramente sarà fucina di nuove formazioni politiche e di ribaltoni futuri. Nemmeno i grandi dell’economia mondiale sanno bene cosa dire, esaurito il repertorio della comprensione, a parole, delle cause che portano la gente in piazza. Il tempo delle parole che e delle buone intenzioni si sta esaurendo velocemente. Sia quando si parla di ambiente sia quando si parla di diseguaglianza. Ormai suonano totalmente stonati i grandi proclami sulla sostenibilità e la lotta alla povertà. Oggi si sta svegliando un mondo che non ha più tempo per le parole, vuole fatti concreti. E se la politica tradizionale non li produce allora si torna a fare politica dal basso, anche scontando violenza e caos. Si torna a rischiare in proprio, si spengono gli schermi del mondo virtuale e si torna a lottare per cambiare quello reale. Non sarà una passeggiata, ma nemmeno un passaggio effimero. Questa protesta anti-sistema, che però non si pone come obiettivo abbatterlo ma riformarlo profondamente, ha le gambe lunghe. E quando i Piñera, i Moreno, gli Hariri, i fondo-monetaristi riconoscono di avere sbagliato, chiedono scusa, hanno già perso.

 

La crisi economica iniziata nel 2008 sta confermando alcuni concetti fondamentali che già era possibile intuire molto tempo fa. Un mondo deregolamentato è facile preda di interessi economici che si fanno man mano più forti, perché è lo stesso potere economico a fornire l’impalcatura sulla quale si articolano i cambiamenti che investono le società. La cosiddetta rivoluzione smart ha modificato abitudini consolidate e posto problemi dei quali è difficile intravedere le soluzioni. Alla liberalizzazione del lavoro, con le società spaccate tra gli over 40, in buona parte ancora tutelati dalle vecchie regole, e i giovani senza orizzonti lavorativi, farà seguito il calo del fabbisogno di manodopera per via della robotizzazione.

Intanto sono state autorizzate le cosiddette ottimizzazioni fiscali, che hanno diviso il mondo del commercio e della produzione tra chi è sottoposto alla giurisdizione dei sistemi fiscali nazionali e chi, invece, riesce a evadere l’obbligo contributivo. Un tempo l’evasione fiscale era identificata con il piccolo commerciante o artigiano, oggi viene praticata su scala mondiale dai grandi gruppi multinazionali che operano e vendono ovunque, ma non pagano le tasse da nessuna parte. Le cifre che circolano sulle imposte non versate da uno solo dei giganti del web o dell’e-commerce sono di gran lunga superiori a quello che potrebbero evadere tutti gli idraulici del mondo.

Anche il consumatore sta cambiando, con innovazioni che tendono a isolarlo rendendo più difficile la socializzazione: dalle casse automatiche nei supermercati ai fattorini che consegnano qualsiasi cosa a domicilio 24 ore al giorno. Uomini e donne sono sempre più soli e sempre più impauriti, perché il richiudersi nella propria bolla, tra persone che la pensano tutte nello stesso modo, come accade nei social network, senza più frequentare nemmeno la pizzeria aumenta le distanze. Distanze dal confronto, dall’ascolto dell’altra campana, da tutte quelle persone che non sono esattamente come te.

Questa situazione che si sta consolidando in Occidente (e non solo) anticipa il mondo che verrà, e che alla fine non sarà così diverso da molti scenari prefigurati dalla letteratura fantascientifica: società suddivise in “isole” di persone, accomunate dallo stesso potere d’acquisto e dagli stessi gusti, per scelta o per necessità. Le bolle che si stanno creando riguardano la società tutta. Alla cultura dei ricchi si contrappone la cultura dei poveri. Se i media parlano di viaggi in luoghi esotici, se le proposte di alberghi partono da 500 euro a notte, se quando si parla di automobili si pensa come minimo al fuoristrada, se si pubblicizzano orologi da 2000 euro in su… è un costante suggerire alla maggioranza, a chi di fatto non potrà mai accedere a simili consumi, che esiste un altro mondo possibile, capovolgendo il celebre slogan di Porto Alegre. Un mondo da sogno il cui biglietto d’ingresso si vince alla nascita, oppure lo si può staccare se si ha una grande dose di fortuna. Ma, siccome i fortunati sono meno dello 0,1% della popolazione mondiale, i sogni sono destinati a infrangersi mentre le diseguaglianze continueranno a crescere.

In questi anni mediocri, la politica non ha saputo proporre nulla di efficace e attraente per tamponare la frammentazione sociale. Si è accontentata del mantenimento dello status quo, senza disturbare più di tanto il manovratore. La stagione delle riforme progressive, cioè intese a promuovere il progresso e l’inclusione, per ora sono archiviate. Invece si attuano riforme regressive, cioè quelle che tolgono diritti acquisiti o che li negano a categorie crescenti di persone. Una situazione prerivoluzionaria, si potrebbe dire. Ma all’orizzonte non si vedono grandi sconvolgimenti. Mancano due condizioni essenziali: il ritrovarsi in un progetto di cambiamento insieme a chi vive i tuoi stessi problemi e l’individuazione dell’antagonista. È vero che siamo tutti sulla stessa barca, come insistentemente ci suggeriscono gli spot, ma uno solo è il proprietario. Tutti gli altri sono ciurma.

 

 

 

 

Le diseguaglianze sono tornate di moda. Non perché fossero scomparse, ovviamente, ma perché sono ritornate a essere materia di studio. Parte del merito va all’economista francese Thomas Piketty, che con la sua monumentale opera Il capitale nel XXI secolo, diventata incredibilmente un best seller mondiale, ha fotografato i rapporti tra quelle che una volta si chiamavano classi all’interno delle società. Un tema complesso quello delle diseguaglianze, che secondo la scuola liberale non dovrebbero nemmeno esistere come categoria, in quanto deriverebbero soltanto dall’impossibilità di concorrere liberamente in un mercato svincolato da ogni controllo pubblico. Opposta è la visione delle socialdemocrazie, che credono in un mercato regolato dallo Stato e considerano le diseguaglianze come “anomalie” da combattere attraverso il welfare e la tassazione progressiva sui redditi. Cioè ridistribuendo la ricchezza.

Il dibattito è ormai secolare, eppure rimane attualissimo davanti alla constatazione che la crescita economica globale degli ultimi due decenni, pur ridimensionata dalla crisi che ha colpito l’Occidente dal 2008, ha sì strappato dalla povertà centinaia di milioni di persone soprattutto in Oriente, ma ha anche aumentato le distanze sociali in Occidente, consolidando una fascia di esclusi che tende ad aumentare.

Il punto, però, è che questi problemi non riguardano solo la ridistribuzione del reddito. Siamo alle soglie di una rivoluzione industriale senza paragoni, quella dell’intelligenza artificiale applicata alla robotica, potenzialmente destinata a eliminare una quantità enorme di lavoro. Questa volta, a differenza di quanto accadde ai tempi dell’industrializzazione ottocentesca, nessun altro settore economico sarà in grado di assorbire i disoccupati. Il cocchiere che perdeva il lavoro a inizio ’900 poteva diventare autista, ma oggi nessun operaio specializzato, lasciato a casa per via dell’automazione intelligente, potrebbe trovare un’occupazione simile. Lo stesso vale per l’esercito dei cassieri, custodi, contabili, bancari, infermieri, medici, ingegneri.

Ed è a partire da questa realtà che il mondo va ripensato. Il primo a lanciare il sasso è stato Bill Gates, affermando che i robot che svolgono lavoro umano dovrebbero essere tassati. Il suo ragionamento non fa una piega: in questo modo il welfare non subirebbe una perdita netta e anzi, se la persona rimpiazzata dal robot dovesse trovare un’altra occupazione, ci sarebbe addirittura un aumento della raccolta fiscale. Ma quanto peserà questa rivoluzione in termini occupazionali? Secondo l’istituto di ricerche globali sull’economia McKinsey, il 45% dei posti di lavoro oggi remunerati potrebbe essere sostituito in tempi brevi da tecnologie già attualmente in sperimentazione. La posta in gioco è dunque altissima: circa metà del mondo del lavoro umano. Numeri che dovrebbero spaventare, ma che restano ignoti ai più.

La proposta di Gates, cioè pensare a una tassazione del lavoro sostitutivo non umano, è da prendere in considerazione fin da subito. Ma non basta. Bisogna immaginare una riconversione più ampia di società nelle quali i livelli di disoccupazione saranno fisiologicamente tre volte superiori a quelli attuali. Una società che riesca a discutere del tempo liberato dal lavoro e a redistribuire ciò che la tecnologia produrrà. Si pone anche un gigantesco problema di governo del cambiamento. Se prevarranno quelle forze di mercato che vedono nella robotica intelligente solo un gigantesco risparmio dei costi di produzione (e di problemi sindacali), nel mondo del futuro potrebbero avverarsi scenari da fantascienza, dove una casta governa con la forza masse enormi di esclusi. Abbiamo tempo, ma non tanto. La rivoluzione è dietro la porta e non aspetta.