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Le diseguaglianze sono tornate di moda. Non perché fossero scomparse, ovviamente, ma perché sono ritornate a essere materia di studio. Parte del merito va all’economista francese Thomas Piketty, che con la sua monumentale opera Il capitale nel XXI secolo, diventata incredibilmente un best seller mondiale, ha fotografato i rapporti tra quelle che una volta si chiamavano classi all’interno delle società. Un tema complesso quello delle diseguaglianze, che secondo la scuola liberale non dovrebbero nemmeno esistere come categoria, in quanto deriverebbero soltanto dall’impossibilità di concorrere liberamente in un mercato svincolato da ogni controllo pubblico. Opposta è la visione delle socialdemocrazie, che credono in un mercato regolato dallo Stato e considerano le diseguaglianze come “anomalie” da combattere attraverso il welfare e la tassazione progressiva sui redditi. Cioè ridistribuendo la ricchezza.

Il dibattito è ormai secolare, eppure rimane attualissimo davanti alla constatazione che la crescita economica globale degli ultimi due decenni, pur ridimensionata dalla crisi che ha colpito l’Occidente dal 2008, ha sì strappato dalla povertà centinaia di milioni di persone soprattutto in Oriente, ma ha anche aumentato le distanze sociali in Occidente, consolidando una fascia di esclusi che tende ad aumentare.

Il punto, però, è che questi problemi non riguardano solo la ridistribuzione del reddito. Siamo alle soglie di una rivoluzione industriale senza paragoni, quella dell’intelligenza artificiale applicata alla robotica, potenzialmente destinata a eliminare una quantità enorme di lavoro. Questa volta, a differenza di quanto accadde ai tempi dell’industrializzazione ottocentesca, nessun altro settore economico sarà in grado di assorbire i disoccupati. Il cocchiere che perdeva il lavoro a inizio ’900 poteva diventare autista, ma oggi nessun operaio specializzato, lasciato a casa per via dell’automazione intelligente, potrebbe trovare un’occupazione simile. Lo stesso vale per l’esercito dei cassieri, custodi, contabili, bancari, infermieri, medici, ingegneri.

Ed è a partire da questa realtà che il mondo va ripensato. Il primo a lanciare il sasso è stato Bill Gates, affermando che i robot che svolgono lavoro umano dovrebbero essere tassati. Il suo ragionamento non fa una piega: in questo modo il welfare non subirebbe una perdita netta e anzi, se la persona rimpiazzata dal robot dovesse trovare un’altra occupazione, ci sarebbe addirittura un aumento della raccolta fiscale. Ma quanto peserà questa rivoluzione in termini occupazionali? Secondo l’istituto di ricerche globali sull’economia McKinsey, il 45% dei posti di lavoro oggi remunerati potrebbe essere sostituito in tempi brevi da tecnologie già attualmente in sperimentazione. La posta in gioco è dunque altissima: circa metà del mondo del lavoro umano. Numeri che dovrebbero spaventare, ma che restano ignoti ai più.

La proposta di Gates, cioè pensare a una tassazione del lavoro sostitutivo non umano, è da prendere in considerazione fin da subito. Ma non basta. Bisogna immaginare una riconversione più ampia di società nelle quali i livelli di disoccupazione saranno fisiologicamente tre volte superiori a quelli attuali. Una società che riesca a discutere del tempo liberato dal lavoro e a redistribuire ciò che la tecnologia produrrà. Si pone anche un gigantesco problema di governo del cambiamento. Se prevarranno quelle forze di mercato che vedono nella robotica intelligente solo un gigantesco risparmio dei costi di produzione (e di problemi sindacali), nel mondo del futuro potrebbero avverarsi scenari da fantascienza, dove una casta governa con la forza masse enormi di esclusi. Abbiamo tempo, ma non tanto. La rivoluzione è dietro la porta e non aspetta.

 

Negli ultimi decenni abbiamo assistito all’emergere dei ceti medi in Paesi e continenti dove questa classe sociale non era mai esistita. Centinaia di milioni di persone in Cina, Brasile, India, Indonesia, Messico sono uscite dalla povertà estrema grazie alla creazione di nuovo impiego soprattutto nel settore industriale e nei servizi. Tuttavia, la linea di demarcazione che separa questa nuova middle class dalla condizione di povertà è incredibilmente sottile rispetto agli standard europei.

Nei Paesi emergenti si considera appartenente al ceto medio un nucleo familiare che non soffre la fame, manda i figli a scuola ed è in grado di acquistare un frigorifero o un motorino, ma non si può permettere, per esempio, un’automobile. Queste famiglie oggi godono di una migliore aspettativa di vita e hanno consumi più elevati, ma si trovano costrette a usufruire degli stessi, pessimi, servizi che lo Stato mette a disposizione dei poveri: infatti trasporti, sanità, scuola pubblica in questi Paesi sono tarati per soddisfare – si fa per dire – le esigenze di chi non ha nulla. Chi è diventato operaio, e quindi contribuente, esige però uno standard superiore di servizi pubblici, che gli Stati non vogliono o non possono garantire. Proprio questa è stata una delle ragioni delle rivolte avvenute nel 2014 in Brasile: il Paese ingiusto per antonomasia ora deve fare i conti con un ceto medio, figlio del boom economico degli anni scorsi, che vuole di più.

Non si tratta certo dell’unica contraddizione legata al ripianamento delle disuguaglianze sociali che, a giudizio di molti, sarebbe attualmente in corso. In particolare secondo l’ONG inglese Oxfam, attenta osservatrice del problema della povertà, dal 2009 il numero di miliardari nel mondo è più che raddoppiato. Un fenomeno che si sta stabilizzando con numeri da capogiro. Nel 2014 le 85 persone più ricche al mondo possedevano la stessa ricchezza della metà della popolazione più povera al mondo. Un rapporto 1 a 10 milioni, insomma, che potrebbe compromettere le istituzioni democratiche e la stabilità globale.  La sperequazione sociale non riguarda soltanto l’Africa o altri Paesi lontani: in Italia, secondo i dati OCSE, tra gli anni ’80 del secolo scorso e il 2010 la diseguaglianza sociale è cresciuta del 35%, e oggi l’1% degli italiani detiene un patrimonio pari a quello del 60% della popolazione.

Le immense fortune possedute dai super-ricchi non sono certo spendibili nell’arco di una vita. Diventano quindi garanzia della ricchezza e del potere dei discendenti di questa vera e propria casta del denaro, così come documentato recentemente dall’economista francese Thomas Piketty. Parallelamente l’esigenza di fruire di migliori servizi, che a questo punto possono essere soltanto privati, sta portando all’indebitamento delle famiglie della middle class e dunque all’impossibilità di un’uscita stabile e sostanziale della povertà. Non solo in India o in Cina, ma anche negli Stati Uniti è ormai noto il fenomeno dei lavoratori poveri, cioè di persone regolarmente inserite nei circuiti di lavoro che però non riescono a soddisfare i bisogni di base. La differenza fondamentale con l’Europa è che il welfare del vecchio continente riesce ancora fare la differenza: anche un lavoratore che percepisce un salario modesto gode di una serie di servizi di primo livello, in buona parte gratuiti.

La chiave che può permettere di stabilizzarsi al nuovo ceto dei Paesi emergenti è dunque nelle mani della politica, della sua capacità di progettare una società in cambiamento. Corruzione, autoritarismi, discriminazioni di genere e di etnia sono i maggiori ostacoli. Nessun aiuto verrà dal mondo dei super-ricchi, indifferente alle condizioni di vita non soltanto della società in generale ma anche dei “propri” lavoratori. Più in generale, nessun impulso per il cambiamento sociale arriverà mai da chi ha tutto da guadagnare con la pace sociale. Secondo l’economista Susan George la lotta di classe è stata stravinta dai ricchi. Già, ma difficilmente questa vittoria potrà essere ribadita in eterno.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

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