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Negli ultimi decenni abbiamo assistito all’emergere dei ceti medi in Paesi e continenti dove questa classe sociale non era mai esistita. Centinaia di milioni di persone in Cina, Brasile, India, Indonesia, Messico sono uscite dalla povertà estrema grazie alla creazione di nuovo impiego soprattutto nel settore industriale e nei servizi. Tuttavia, la linea di demarcazione che separa questa nuova middle class dalla condizione di povertà è incredibilmente sottile rispetto agli standard europei.

Nei Paesi emergenti si considera appartenente al ceto medio un nucleo familiare che non soffre la fame, manda i figli a scuola ed è in grado di acquistare un frigorifero o un motorino, ma non si può permettere, per esempio, un’automobile. Queste famiglie oggi godono di una migliore aspettativa di vita e hanno consumi più elevati, ma si trovano costrette a usufruire degli stessi, pessimi, servizi che lo Stato mette a disposizione dei poveri: infatti trasporti, sanità, scuola pubblica in questi Paesi sono tarati per soddisfare – si fa per dire – le esigenze di chi non ha nulla. Chi è diventato operaio, e quindi contribuente, esige però uno standard superiore di servizi pubblici, che gli Stati non vogliono o non possono garantire. Proprio questa è stata una delle ragioni delle rivolte avvenute nel 2014 in Brasile: il Paese ingiusto per antonomasia ora deve fare i conti con un ceto medio, figlio del boom economico degli anni scorsi, che vuole di più.

Non si tratta certo dell’unica contraddizione legata al ripianamento delle disuguaglianze sociali che, a giudizio di molti, sarebbe attualmente in corso. In particolare secondo l’ONG inglese Oxfam, attenta osservatrice del problema della povertà, dal 2009 il numero di miliardari nel mondo è più che raddoppiato. Un fenomeno che si sta stabilizzando con numeri da capogiro. Nel 2014 le 85 persone più ricche al mondo possedevano la stessa ricchezza della metà della popolazione più povera al mondo. Un rapporto 1 a 10 milioni, insomma, che potrebbe compromettere le istituzioni democratiche e la stabilità globale.  La sperequazione sociale non riguarda soltanto l’Africa o altri Paesi lontani: in Italia, secondo i dati OCSE, tra gli anni ’80 del secolo scorso e il 2010 la diseguaglianza sociale è cresciuta del 35%, e oggi l’1% degli italiani detiene un patrimonio pari a quello del 60% della popolazione.

Le immense fortune possedute dai super-ricchi non sono certo spendibili nell’arco di una vita. Diventano quindi garanzia della ricchezza e del potere dei discendenti di questa vera e propria casta del denaro, così come documentato recentemente dall’economista francese Thomas Piketty. Parallelamente l’esigenza di fruire di migliori servizi, che a questo punto possono essere soltanto privati, sta portando all’indebitamento delle famiglie della middle class e dunque all’impossibilità di un’uscita stabile e sostanziale della povertà. Non solo in India o in Cina, ma anche negli Stati Uniti è ormai noto il fenomeno dei lavoratori poveri, cioè di persone regolarmente inserite nei circuiti di lavoro che però non riescono a soddisfare i bisogni di base. La differenza fondamentale con l’Europa è che il welfare del vecchio continente riesce ancora fare la differenza: anche un lavoratore che percepisce un salario modesto gode di una serie di servizi di primo livello, in buona parte gratuiti.

La chiave che può permettere di stabilizzarsi al nuovo ceto dei Paesi emergenti è dunque nelle mani della politica, della sua capacità di progettare una società in cambiamento. Corruzione, autoritarismi, discriminazioni di genere e di etnia sono i maggiori ostacoli. Nessun aiuto verrà dal mondo dei super-ricchi, indifferente alle condizioni di vita non soltanto della società in generale ma anche dei “propri” lavoratori. Più in generale, nessun impulso per il cambiamento sociale arriverà mai da chi ha tutto da guadagnare con la pace sociale. Secondo l’economista Susan George la lotta di classe è stata stravinta dai ricchi. Già, ma difficilmente questa vittoria potrà essere ribadita in eterno.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

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Il concetto di “lotta di classe”, a lungo utilizzato per interpretare e dare un senso allo scontro tra i diversi attori sociali, è stato abbandonato frettolosamente insieme all’ideologia marxista negli anni ’90. Ma oggi è di nuovo dibattuto. Sono diversi gli studiosi che lo ripropongono, a partire da una delle più grandi esperte di globalizzazione, Susan George, che lo recupera già nel titolo del suo ultimo lavoro: Come vincere la lotta di classe.

Susan George afferma che la secolare lotta tra poveri e ricchi per conquistare il ruolo di ceto predominante potrebbe concludersi con la sconfitta dei più poveri, cioè della maggioranza della popolazione mondiale. Ciò a causa di un lento e inesorabile declino dei valori di riferimento e delle modalità di organizzazione dal basso, della frammentazione della società, della perdita di un’identità condivisa tra “gli oppressi”. Questa tendenza non ha una dimensione solo economica ma anche fortemente culturale.

Negli anni ’60 del secolo scorso il grande antropologo statunitense Oscar Lewis aveva definito l’“antropologia della povertà” studiando i quartieri degradati di New York, Lima e Città del Messico. Una condizione sociale, quella della miseria urbana, che diventava cultura della sopravvivenza e generava pratiche di solidarietà che avrebbero potuto portare al riscatto sociale.

Le scienze sociali contemporanee, invece, non hanno ancora analizzato l’“antropologia della ricchezza”, soprattutto negli effetti culturali che il benessere produce al di fuori della cerchia, ristretta, della ricchezza vera.

L’orgoglio operaio, l’austerità contadina, la fierezza di chi fa sindacato o cooperazione sono archetipi scomparsi dalla comunicazione di massa che invece ripropone la vita dei ricchi, i consumi dei ricchi, gli eccessi dei ricchi. Ricchezza virtuale, ma che diventa modello di consumo e aspirazione di massa. I balli delle debuttanti, le carrozze trainate da cavalli ai matrimoni, la luna di miele alle Seychelles, i vestiti di Armani sono aspettativa e spesso ossessione per i figli dei ceti popolari ridotti a consumatori di prodotti “da ricchi”, ma per poveri.

Non vi è stato infatti un aumento della ricchezza – nel senso di numero degli individui davvero considerabili ricchi – tale da giustificare quest’invasione di prodotti del cosiddetto settore luxury. La stampa pubblicizza quotidianamente beni fuori portata per la stragrande maggioranza dei propri lettori, dagli orologi da 6000 euro ai SUV da 70.000; e in Italia si pensa sempre più spesso che a salvare l’economia non sarà più l’industria di base bensì il “comparto del lusso”. Tornando ai vecchi concetti della scuola marxista, oggi i ricchi hanno conquistato l’egemonia culturale, e l’illusione del consumo di lusso è il nuovo oppio dei popoli.

Questa situazione ci parla anche del trionfo di una certa ideologia originaria degli Stati Uniti, che considera l’accumulo di ricchezza come la conseguenza e la pubblica dimostrazione di un cammino compiuto “sulla retta via”; mentre la povertà sarebbe una “disgrazia” in buona parte frutto dell’indolenza o della cattiva sorte degli stessi poveri: una categoria da aiutare casomai con la beneficenza.

I giovani che in tutto il mondo vorrebbero essere amici di Paris Hilton in qualche modo legittimano questa visione e attendono la loro opportunità per “uscire dal mucchio”, per abbandonare la baraccopoli, per essere anche loro “vip”. Un sogno alimentato sapientemente dai media e dai venditori di sogni da consumare a buon mercato e che garantisce il conformismo e la pace sociale. La lotta di classe infatti si è assopita, e solo pochi disturbano il manovratore.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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