La fine della lotta di classe

Pubblicato: 21 novembre 2013 in Mondo
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Il concetto di “lotta di classe”, a lungo utilizzato per interpretare e dare un senso allo scontro tra i diversi attori sociali, è stato abbandonato frettolosamente insieme all’ideologia marxista negli anni ’90. Ma oggi è di nuovo dibattuto. Sono diversi gli studiosi che lo ripropongono, a partire da una delle più grandi esperte di globalizzazione, Susan George, che lo recupera già nel titolo del suo ultimo lavoro: Come vincere la lotta di classe.

Susan George afferma che la secolare lotta tra poveri e ricchi per conquistare il ruolo di ceto predominante potrebbe concludersi con la sconfitta dei più poveri, cioè della maggioranza della popolazione mondiale. Ciò a causa di un lento e inesorabile declino dei valori di riferimento e delle modalità di organizzazione dal basso, della frammentazione della società, della perdita di un’identità condivisa tra “gli oppressi”. Questa tendenza non ha una dimensione solo economica ma anche fortemente culturale.

Negli anni ’60 del secolo scorso il grande antropologo statunitense Oscar Lewis aveva definito l’“antropologia della povertà” studiando i quartieri degradati di New York, Lima e Città del Messico. Una condizione sociale, quella della miseria urbana, che diventava cultura della sopravvivenza e generava pratiche di solidarietà che avrebbero potuto portare al riscatto sociale.

Le scienze sociali contemporanee, invece, non hanno ancora analizzato l’“antropologia della ricchezza”, soprattutto negli effetti culturali che il benessere produce al di fuori della cerchia, ristretta, della ricchezza vera.

L’orgoglio operaio, l’austerità contadina, la fierezza di chi fa sindacato o cooperazione sono archetipi scomparsi dalla comunicazione di massa che invece ripropone la vita dei ricchi, i consumi dei ricchi, gli eccessi dei ricchi. Ricchezza virtuale, ma che diventa modello di consumo e aspirazione di massa. I balli delle debuttanti, le carrozze trainate da cavalli ai matrimoni, la luna di miele alle Seychelles, i vestiti di Armani sono aspettativa e spesso ossessione per i figli dei ceti popolari ridotti a consumatori di prodotti “da ricchi”, ma per poveri.

Non vi è stato infatti un aumento della ricchezza – nel senso di numero degli individui davvero considerabili ricchi – tale da giustificare quest’invasione di prodotti del cosiddetto settore luxury. La stampa pubblicizza quotidianamente beni fuori portata per la stragrande maggioranza dei propri lettori, dagli orologi da 6000 euro ai SUV da 70.000; e in Italia si pensa sempre più spesso che a salvare l’economia non sarà più l’industria di base bensì il “comparto del lusso”. Tornando ai vecchi concetti della scuola marxista, oggi i ricchi hanno conquistato l’egemonia culturale, e l’illusione del consumo di lusso è il nuovo oppio dei popoli.

Questa situazione ci parla anche del trionfo di una certa ideologia originaria degli Stati Uniti, che considera l’accumulo di ricchezza come la conseguenza e la pubblica dimostrazione di un cammino compiuto “sulla retta via”; mentre la povertà sarebbe una “disgrazia” in buona parte frutto dell’indolenza o della cattiva sorte degli stessi poveri: una categoria da aiutare casomai con la beneficenza.

I giovani che in tutto il mondo vorrebbero essere amici di Paris Hilton in qualche modo legittimano questa visione e attendono la loro opportunità per “uscire dal mucchio”, per abbandonare la baraccopoli, per essere anche loro “vip”. Un sogno alimentato sapientemente dai media e dai venditori di sogni da consumare a buon mercato e che garantisce il conformismo e la pace sociale. La lotta di classe infatti si è assopita, e solo pochi disturbano il manovratore.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

quartostato

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