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Come facilmente prevedibile la situazione debitoria della Grecia, che non ha avuto la possibilità di rinegoziare il suo debito, con un’economia in calo costante e tagli alla spesa pubblica oltre l’immaginabile, sta precipitando. A differenza delle puntate precedenti, però, questa volta i veri protagonisti della vicenda sono divisi. La Troika, formata dalla BCE, dalla Commissione Europea e dal FMI, è riuscita a domare i diversi governi greci di destra e sinistra che si sono succeduti negli ultimi anni, senza mai aver trovato – o soltanto ipotizzato – una soluzione per questa crisi debitoria che non fossero i tagli alla spesa corrente.

Alexis Tsipras, inaspettatamente per quanti pensavano fosse un populista incosciente, ha varato tagli alla spesa pubblica pari a circa il 30% del PIL greco: un record mondiale che, però, va letto insieme al calo del 25% della produzione economica del Paese rispetto al periodo precedente alla crisi del debito. In sostanza, il limone è stato spremuto fino in fondo. Ormai non c’è più nulla da tagliare. Eppure la crisi non solo rimane, ma è ulteriormente peggiorata perché l’economia continua a perdere colpi. A fine giugno, Atene rischia di non poter pagare gli stipendi di quel poco di settore pubblico che è sopravvissuto, e a luglio difficilmente potrà onorare la rata di un prestito in scadenza. In quest’estate incandescente, dunque, al referendum sulla Brexit si aggiunge l’ipotesi di default della Grecia. Nel frattempo, gli “sminatori” che dovrebbero disinnescare la bomba greca sono sempre più divisi.

A suo tempo, Berlino ha voluto includere nella Troika anche il FMI, sebbene detenga solo un modestissimo 4,7% del debito greco, ritenendo che questa sarebbe stata l’unica soluzione per imporre norme rigide e non negoziabili alle cicale greche. L’organismo con sede a Washington si è infatti guadagnato sul campo una fama di tutto rispetto, anche se in tempi recenti le sue politiche hanno prodotto fallimenti, sommosse, colpi di stato, miseria. Ma nel caso greco il FMI sta facendo davvero il suo lavoro di valutazione della sostenibilità del debito, e dopo avere constatato che più austerità è impossibile, è fermamente convinto che la soluzione passi da una moratoria radicale, con prestiti a tassi del 1,5% da non ripagare fino al 2040. In sostanza, non propone la ristrutturazione del debito attraverso un taglio, come si fa dopo un default, ma rimanderebbe a tempi migliori il problema, ridando nel frattempo ossigeno al Paese perché possa riprendersi. Questo dopo avere fatto una feroce autocritica «sulle correzioni strozza-crescita, insieme con l’austerità, che hanno provocato una depressione economica e innescato una spirale negativa sul debito che ha poi richiesto continuamente nuovi aggiustamenti ».

Il fondo Monetario propone ora una soluzione abbastanza sensata, ma deve fare i conti con la Germania. Il Paese della cancelliera Merkel deve far approvare dal Parlamento ogni concessione in tema di gestione dei crediti, e una proposta del genere potrebbe essere affondata dalla destra della CDU dando fiato alle forze antieuropeiste. La razionale Germania, di fronte a uno dei nodi più insidiosi sulla via della salvezza o dell’affondamento dell’Unione Europea, è paralizzata dal timore che una via di uscita per la crisi debitoria greca si trasformi in consenso per le opposizioni populiste.

I dissidi tra Berlino e Washington passano anche dalla geopolitica. Per gli Stati Uniti, la Grecia va sostenuta perché si trova tra i Balcani e la Turchia, con la Russia troppo vicina. Un’avanguardia occidentale in terre incognite che oggi si trova fortemente sotto pressione anche per via dell’arrivo di masse di richiedenti asilo dalla vicina Turchia, Paese nel quale è in corso un colpo di Stato “bianco” e che l’UE ha premiato recentemente con miliardi di euro. Per i tedeschi, la cui politica è impregnata di etica luterana, la Grecia invece va punita per avere mentito sui conti, e obbligata senza via di scampo a sottostare alle regole imposte da loro stessi. Una situazione che non può durare a lungo, perché di mezzo ci sono anzitutto i cittadini greci sofferenti, ma anche il futuro dell’Europa. Se oggi si tornasse a votare in Grecia per dire sì o no alle ricette della Troika, ci sarebbero solo no. È infatti difficile fidarsi a lungo di una ricetta che non ti fa guarire, che anzi ti fa stare peggio, e nel frattempo continuare a fingere che forse tutto va per il meglio. Ringraziando pure il dottore.

 

Alfredo Somoza

 

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Visto che alla Grecia, per ora, è stato vietato di fallire, a livello mondiale l’ultimo default di uno Stato sovrano è stato quello argentino del Natale 2001. Dopo un periodo di deflazione, dovuto all’aggancio del peso al dollaro che aveva reso proibitiva la produzione nazionale, il no del Fondo Monetario al rifinanziamento di una rata del debito in scadenza portò al default tecnico del Paese. Il peso perse il 75% del suo valore in 24 ore e si arrivò alla rinegoziazione, ovviamente al ribasso, del pagamento dei titoli di Stato in possesso di risparmiatori, banche e fondi di investimento nazionali e internazionali.

Dal 2004, però, l’economia argentina è ripartita a ritmi asiatici, con una crescita vertiginosa della produzione industriale e la creazione di molti posti di lavoro. Ma una delle conseguenze ancora evidenti di quel fallimento sono gli “impoveriti”: soprattutto disoccupati e cittadini in precedenza appartenenti ai ceti medi, che non sono riusciti a risalire la scala sociale e che oggi sopravvivono di espedienti, assistiti dallo Stato attraverso un welfare ancora emergenziale.

La partita che non si è mai veramente chiusa, a distanza di 12 anni, è quella ingaggiata tra l’Argentina e i fondi cosiddetti “avvoltoi”. Cioè i fondi di investimento a rischio che, negli anni successivi al default, rastrellarono titoli argentini in giro per il mondo: li pagarono dal 10 al 30% del loro valore nominale, salvo poi intentare una causa contro il Paese sudamericano, pretendendo la restituzione del 100% del valore nominale più gli interessi.

Una lotta a colpi di denunce nei tribunali statunitensi, perché negli USA era stata collocata una buona fetta del debito argentino denominata in dollari. Una storia giudiziaria che ha visto anche diversi colpi di scena, come l’illegittimo sequestro di una nave-scuola della marina argentina in Ghana, fino all’impossibilità per la presidente Kirchner di recarsi in Europa o negli USA con l’aereo presidenziale, per timore del sequestro del mezzo in quanto bene dello Stato argentino.

Nel 2013 questa storia infinita ha visto la vittoria parziale dei fondi avvoltoi, in virtù di una sentenza del Tribunale di New York che ha destato grande preoccupazione negli ambienti della finanza internazionale. La sentenza impone all’Argentina, che ha presentato ricorso alla Corte Suprema statunitense, il rimborso agli hedge fund di una cifra pari a 1,5 miliardi di dollari, ma soprattutto sancisce la fine del default come strumento di risoluzione conclusiva di una seria crisi economica. Uno strumento al quale hanno fatto ricorso nella storia Paesi del calibro di Brasile, Germania, Regno Unito, Francia e Stati Uniti.

Non c’è quasi Stato – e l’Italia è una delle rarissime eccezioni – che nella sua storia non abbia dovuto applicare una svalutazione sovrana dei propri debiti. Ma, dopo la sentenza del tribunale di New York, in linea di principio questo non sarà più possibile. E cioè se uno Paese dovesse fallire non potrebbe ristrutturare il debito e quindi rimettere in sesto la propria economia.

Se a giugno ribalterà la sentenza del Tribunale di New York, la Corte Suprema Federale di Washington potrà chiudere l’incubo argentino durato più di un decennio. Altrimenti getterà nuovamente nel caos il Paese sudamericano, creando un precedente che peserà come un macigno sul futuro.

La prima morale di questa storia è che non è facile farsi perdonare un fallimento, in questo mondo governato dalla finanza speculativa. La seconda è che è meglio non fidarsi degli allegri promotori dell’arma del fallimento come via di uscita fattibile ai problemi creati da debiti sovrani insostenibili.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

A protester strikes the blind of the Galicia Bank