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È morto a 90 anni l’ex presidente argentino Carlos Saul Menem. Figlio di immigrati siriani sunniti, cominciò la sua carriera nel peronismo della remota e spopolata provincia di La Rioja per poi scalare tutte le posizioni fino alla presidenza della repubblica tra il 1989 e l 1999. Arrivò alla Casa Rosada promettendo una “rivoluzione produttiva” che avrebbe creato milioni di posti di lavoro e fatto diventare l’argentina “potenza”. Era il primo peronista vincente dal ritorno alla democrazia nel 1983 ed ereditava un paese in preda all’iperinflazione. Il suo super-ministro dell’Economia, Domingo Cavallo, impose la parità tra il peso e il dollaro 1 a 1 e l’inflazione infatti in tre anni fu domata perché il peso era diventato “moneta forte” in quanto agganciato al dollaro. Ma si cominciavano a vedere le crepe del modello perché le materie prime e le merci argentine in dollari erano care e conveniva piuttosto importare che produrre. La sua politica si completava con lo smantellamento dello stato ereditato da Peron: privatizzazione delle aziende pubbliche, distruzione del sistema pensionistico, abbandono della scuola, inizio del precariato, svendita delle terre del demanio, smantellamento della rete ferroviaria che collegava le province ai porti. Quando lo intervistai per Paese Sera nel 1989 anticipava le premesse di ciò che sarebbe stato il suo governo “il mio modello è Ronald Reagan”. Ma in versione terzomondista, con un seguito di faccendieri, nani e ballerine, con l’arricchimento suo e dei suoi seguaci. Un potere cafone che venne riassunto nel titolo di un libro di successo all’epoca: “Pizza e champagne” che parlava di “orgia della corruzione”.

Nel paese che consegnò nel 1999 aveva chiuso l’industria, si erano arricchite le imprese straniere che avevano comprato le imprese pubbliche e che operavano senza nessun tipo di regolamentazione, in regime di semi-monopolio privato e senza fare mai investimenti. Nell’Argentina menemista non esisteva la concorrenza, anche se gli operatori economici erano privati. Iberia, Repsol, Telecom, Camuzzi, Benetton erano solo alcuni dei nomi del grande capitale europeo che accorse alla corte di Menem e che senza investire quasi nulla, si portarono a casa tutto. L’inflazione era infatti solo un ricordo, ma dal 1997 il paese era in deflazione. Praticamente tutto era fermo. Due anni dopo il passaggio dei poteri arrivò il default del 2001 che finì l’opera iniziata negli anni ’90.

In Argentina il protocollo prevede tre giorni di lutto nazionale per la morte di un ‘ex presidente. In realtà il lutto non sarà solo protocollare, il potere peronista oggi al potere, così come il mondo dal quale proviene Mauricio Macrì, devono moltissimo a Menem. La faccia del “progressismo” peronista del dopo default, Nestor Kirchner, era stato anche lui della partita di Menem da governatore della sua provincia patagonica. Menem è stata la faccia più bizzarra di quel movimento inspiegabile che è il peronismo, all’interno del quale si trova tutto e il contrario di tutto. Molti dei mali dell’odierna Argentina hanno origine proprio negli anni di gloria del presidente che voleva portare il suo paese nel “primo mondo”, e finì per condannarlo invece alla povertà e alla marginalità.

 

In teoria lo scorso agosto l’Argentina ha subito un secondo default, dopo quello devastante del 2001. In pratica, però, ciò non è vero. Tutto risale alla sentenza, poi avallata dalla Corte Suprema, con la quale il giudice newyorkese Thomas Griesa ha interpretato il principio del pari passu in modo originale.

Il principio secondo il quale gli obbligazionisti vanno trattati tutti nello stesso modo significa infatti, molto semplicemente, che nessuno può essere privilegiato in caso di insolvenza. Invece, a prescindere dal fatto che oltre il 90% dei creditori avesse accettato la ristrutturazione dei crediti con uno sconto tra il 30 e il 40% del capitale iniziale, Griesa ha stabilito che i fondi speculativi che avevano rastrellato i titoli dopo il default pagandoli tra il 10 e il 15% oggi hanno diritto a riavere il 100% del valore nominale più gli interessi.

Se l’Argentina accettasse la sentenza, questo principio di pari passu a rovescio si estenderebbe automaticamente anche a quei creditori che già avevano accettato l’accordo con lo Stato. Un pasticcio internazionale che rischia di impedire in futuro la ristrutturazione di qualsiasi debito sovrano: anche perché ciò che è successo per via di questa sentenza potrebbe costituire un precedente valido pure al di là della giurisdizione statunitense.

Non a caso il G20 ha formalmente aperto un dibattito interno per arrivare a una legislazione che impedisca sentenze simili. Per esempio stabilendo al momento dell’emissione di debito che, in caso di insolvenza, ciò che deciderà la maggioranza dei creditori sarà vincolante per tutti. Altra conseguenza immediata di questa situazione è l’indebolimento della piazza di New York per il collocamento del debito sovrano intitolato in dollari USA: così questa vicenda indebolisce ulteriormente il ruolo del dollaro come moneta di riferimento mondiale, sempre più in discussione davanti ai crescenti flussi di scambi in valuta locale, soprattutto tra i Paesi BRICS.

Nel frattempo l’Argentina ha depositato presso la Bank of New York Mellon il denaro per pagare i creditori che avevano accettato il concambio post default. Somma che però è stata bloccata dalla Corte statunitense perché, secondo la sentenza, parallelamente l’Argentina dovrebbe pagare per intero i fondi avvoltoi favoriti da Griesa. Il grande paradosso di questa vicenda, dunque, è che il Paese teoricamente entrato in default ha i soldi per onorare la scadenza, quindi ha la liquidità necessaria per non entrare in default… ma quegli stessi soldi sono stati immobilizzati in una banca da una sentenza.

Stiamo parlando, com’è chiaro, di un pasticcio nel quale si è cacciata la giustizia statunitense, e di conseguenza gli Stati Uniti come piazza finanziaria. Le ripercussioni vanno molto oltre il ruolo dell’Argentina, o ciò che essa può rappresentare per l’economia mondiale. I vincitori, per ora virtuali, sono infatti i fondi speculativi che, grazie alla deregolamentazione dell’economia globale, possono scorrazzare sulle vaste praterie della speculazione scommettendo ora sulla scarsità di cibo, ora sul fallimento di un Paese. Una finanza spregiudicata che opera però legalmente. Per l’Argentina, che dopo 10 anni stava per rientrare nel mercato internazionale dei capitali e ora è in affanno per la ripresa dell’inflazione, si tratta di una batosta dagli esiti imprevedibili.

La morale di questo default senza precedenti, ma che crea un pesante precedente, è che, per far rientrare in un recinto di regole condivise i buoi scappati negli anni dell’ottimismo globale, dopo una lunga ricreazione la politica dovrà tornare a occuparsi di economia: non per trasformarsi essa stessa in imprenditore, bensì per farsi garante degli interessi dei cittadini.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

buitres

 

A me sembra un sogno che Buenos Aires sia nata.

La ritengo tanto eterna quanto l’acqua e l’aria.

J.L. Borges

Buenos Aires, porto dell’estrema Europa,

capitale di un impero mai esistito.

A. Malraux

La città di Santa María de los Buenos Aires non solo è la porta d’ingresso del paese, tappa inevitabile per chi voglia visitarlo. È anche una città-stato, uno spazio metropolitano sconfinato che nell’immaginario dei suoi abitanti, i porteños, rappresenta da solo uno dei due paesi in cui si divide l’Argentina: la capital, contrapposta a el interior, tutto il resto del paese.

Fondata due volte dagli spagnoli che girovagavano alla ricerca dell’Eldorado, Buenos Aires divenne ricca e potente grazie ai capricci della natura e dell’economia mondiale: bovini, ovini e cavalli, che nelle Pampas trovarono un habitat miracolosamente favorevole dove moltiplicarsi, grazie alle innovazioni tecnologiche della seconda metà dell’Ottocento, si trasformarono in una fiorente esportazione di carne fresca, basilare per l’alimentazione dell’Europa occidentale fino agli anni Sessanta. La piccola e marginale Buenos Aires divenne così, alla fine dell’Ottocento, uno dei più importanti porti mondiali per l’esportazione di cuoio, cereali, frutta, vino e carne.

Il processo di concentrazione delle attività produttive, culturali e politiche attorno alla capitale fu inarrestabile: Buenos Aires divenne metropoli alla fine del XIX sec., e una grande area metropolitana negli anni Sessanta (Grande Buenos Aires). Nei suoi 1200 kmq di estensione hanno sede il 75% delle attività industriali del paese e l’80% di quelle terziarie.

Non stupisce quindi che qui sia concentrato anche un terzo della popolazione del paese (11.000.000 ab.). Già nel 1943 il medico-scrittore Florencio Escardó trovò una spiegazione intelligente a tale gigantismo: “le province hanno creduto che Buenos Aires, in quanto sede delle autorità nazionali, fosse il punto supremo delle aspirazioni di tutti. Buenos Aires ha invece avuto un criterio fortemente accentratore. Si è ingrandita, è diventata bella, si è fortificata, con una logica propria che non era quella di capitale di una federazione. La città vive per se stessa, la repubblica viene percepita come un sipario sullo sfondo” (Geografía de Buenos Aires).

Nel triangolo delimitato dalla Casa Rosada, dal Parlamento e dalla City si definiscono le strategie economiche nazionali, si concretizzano alleanze e divisioni politiche, si preparano i golpe, si lanciano le mode e si diffondono i modelli culturali. Qui hanno sede tutte le televisioni, le radio e le testate giornalistiche nazionali. Buenos Aires è lo specchio di quanto di meglio e di peggio abbiano realizzato gli argentini negli ultimi 450 anni, il palcoscenico dove si sono consumati i drammi e i momenti gioiosi di un popolo eterogeneo che contribuì a costruire una metropoli laica dotata di chiese, moschee, sinagoghe e templi massonici.

Buenos Aires non è né bella né brutta: è un caso abbastanza raro di grande metropoli in cui non esiste un comune denominatore, e quindi ognuno può cercare (e non di rado incontrare), o inventarsi, ciò che più ama.

 

Milioni di uomini, di donne, di bambini, di operai, di impiegati. Come parlare di tutti? Come rappresentare quella realtà innumerabile in cento pagine, in mille, in un milione di pagine? Sei milioni di argentini, spagnoli, italiani, baschi, tedeschi, ungheresi, russi, polacchi, iugoslavi, siriani, libanesi, lituani, greci, ucraini. Oh, Babilonia! La città galiziana più grande al mondo. La città italiana più grande al mondo. Più pizzerie che a Napoli e Roma insieme. Oh, Babilonia! (Ernesto Sábato, Sopra eroi e tombe)

Alfredo Somoza

In Argentina domenica prossima si terranno le elezioni presidenziali, le terze dopo il default del 2001. Il risultato appare scontato: la presidente in carica Cristina Fernandez Kirchner domina i sondaggi con uno schiacciante 52%, seguita da lontano dal primo dei tre candidati espressi da un’opposizione che non ha saputo costruire un’alternativa credibile e unitaria.

Con questo risultato si confermerà il regno indisturbato della coppia Kirchner-Fernandez, che si insediò alla Casa Rosada sulle rovine di un Paese ridotto ai minimi termini dal fallimento economico, un’Argentina in preda a un incendio sociale determinato dal precipitare nella povertà di oltre il 50% della popolazione. Nei primi tempi la politica perseguita dal defunto presidente Nestor Kirchner fu molto coraggiosa, con il ritorno della politica alla guida dell’economia, l’avvio di piani di welfare che si fecero carico dei settori più impoveriti della società e la riapertura di questioni dall’alto valore simbolico, come quelle dei diritti umani e dei processi ai militari che negli anni ’70 si erano resi responsabili di efferati crimini, e che erano stati successivamente amnistiati.

La chiave del successo economico delle presidenze Kirchner-Fernandez va cercata però nella determinazione nel non volere, se non parzialmente, farsi carico del debito generatosi nei decenni precedenti con modalità aberranti, tra scandali di corruzione e complicità di avvoltoi finanziari di ogni genere e nazionalità, che per anni ebbero nell’Argentina una base sicura. La seconda leva del successo economico argentino del dopo-default fu la ripartenza dell’industria (precedentemente smantellata dalle politiche neoliberiste), unita al consolidamento dei legami economici con il Brasile e all’apertura a nuovi mercati dell’America Latina, dell’Africa e soprattutto della Cina. Quest’ultima oggi è il secondo “cliente” dell’export argentino.

In questo decennio la crescita del Paese sudamericano è stata vertiginosa, con una media del 7% annuo tra il 2003 e il 2010. L’Argentina ha di nuovo consistenti riserve monetarie, è caratterizzata da un indice di rischio-Paese accettabile ed è tornata ad accogliere capitali internazionali… che però questa volta vengono investiti in settori produttivi. Come i 500 milioni di dollari USA appena annunciati dalla Pirelli, che aprirà uno stabilimento specializzato in pneumatici di fascia alta. I punti dolenti riguardano l’inflazione, che lentamente sta rialzando la testa, e la difficoltà, superati i primi anni di crescita, di riuscire riportare indietro l’orologio sociale ai tempi in cui l’Argentina era un Paese con un vastissimo ceto medio. La povertà non è più estrema, ma colpisce ancora il 30% della popolazione; inoltre i guasti provocati dallo smantellamento dell’educazione e della salute pubblica, avvenuto negli anni ’90, si sentono ancora forti.

Eppure gli argentini scommetteranno sulla continuità, perché, dopo avere toccato sul serio il fondo del barile, in questi anni si sono abituati a stipendi e pensioni non più congelati, a investimenti sull’educazione e la cultura, a indossare di nuovo la tuta da operaio dopo avere spinto a lungo il carretto da cartonero.

Possono sembrare cose ovvie, anche se in questo mondo in crisi nulla si può più dare per scontato: gli argentini, sopravvissuti al maggiore dissesto economico degli ultimi decenni, vogliono continuare a credere che c’è vita dopo il default. C’è vita purché questo evento traumatico serva a porre il punto finale all’orrore economico, e a patto che si riparta decisi a non dimenticare la lezione.

Alfredo Somoza per Popolare Network