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Di solito, le clausole democratiche inserite negli accordi internazionali sono solo retorica. Ma forse qualcosa sta cambiando. Il recente vertice dell’Unione Africana ad Addis Abeba ha affrontato un tema che ha spiazzato gli osservatori, che si aspettavano un’agenda tutta focalizzata sul tema sicurezza, in particolare sull’avanzata jihadista nel Sahel, e sull’emergenza alimentare determinata dal conflitto russo-ucraino. Invece l’UA, l’organismo che rappresenta i 54 Stati sovrani del continente più la Repubblica Sahraui, occupata dal Marocco, ha messo al centro dell’agenda la democrazia. Negli ultimi cinque anni in Africa si sono registrati 15 colpi di Stato, in Paesi come Burkina Faso, Mali, Gambia, Guinea, Ciad e Sudan. Non che, in passato, l’Africa fosse immune da problemi di questo genere, ma gli eventi golpisti non erano mai stati così frequenti come in questi ultimi anni, e più precisamente da quando in Africa operano i mercenari del gruppo russo Wagner, che sono stati artefici diretti del rovesciamento di vari governi.

L’Unione Africana ha confermato che i Paesi nei quali la democrazia è stata sovvertita continueranno a essere sospesi dall’organizzazione e i dirigenti golpisti a essere sanzionati, come accaduto a quelli del Burkina Faso, del Mali e della Guinea, finché il potere tornerà a chi risulti vincitore delle elezioni. Per quanto la qualità della democrazia africana sia molto bassa, e i processi elettorali poco partecipati e spesso poco controllati, la posizione ferma dell’Unione Africana segna un prima e un dopo rispetto alla tolleranza in materia politica. Ed è un gesto controcorrente, perché la maggior parte di questi Paesi ha forti o fortissimi legami economici e politici con la Cina, che di certo non promuove la democrazia nell’area, anzi. Per questo motivo, la fermezza dell’Unione Africana va letta come un gesto di sfida al potere esercitato in Africa da Pechino e anche dal suo alleato russo. Tale presa di posizione risulta coerente con l’altro punto importante emerso dal vertice: la dichiarata intenzione di aumentare gli scambi interni al blocco africano fino al 60% del totale, un dato che equivale alla soglia attuale degli scambi all’interno dell’UE. C’è molto da fare, in tema di dazi e barriere doganali, per raggiungere un livello simile partendo dall’attuale 15%, ma la strada è tracciata, e va in direzione di una maggiore indipendenza del continente dai compratori esteri.

Tutto questo attivismo e rilancio del multilateralismo africano va letto, infine, anche come risposta alle avances arrivate da Occidente. Il segretario dell’ONU António Guterres, presente ad Addis Abeba, si è spinto ad auspicare che un Paese africano possa entrare nel Consiglio di Sicurezza come membro permanente.

Rinnovato impegno democratico, aumento degli scambi interni per ridurre la dipendenza dalla Cina, protagonismo internazionale attraverso l’ONU: sembra l’agenda di una nuova era per l’Africa. A differenza del passato, quando in questo continente il copione era scritto esclusivamente dagli ex colonialisti, ora è l’associazione degli Stati africani ad alzare la voce. È una grande notizia, che ovviamente da noi non è stata registrata, ma che ci racconta come i protagonismi regionali si stiano moltiplicando e come la governance futura del pianeta non sarà detenuta esclusivamente da una o due potenze, bensì da una molteplicità di Paesi e blocchi omogenei. Sarà un mondo molto più complesso da gestire, ma sicuramente più rispettoso dei pesi reali degli Stati, definiti considerando l’economia, la demografia e la geografia, e non soltanto sulla base del possesso di ordigni nucleari.

L’entusiasmo del Parlamento Europeo che, in nome della lotta al cambiamento climatico, sta decidendo lo stop alla vendita di auto a combustibili fossili a partire dal 2035 non fa i conti con la realtà dell’estrazione e della lavorazione delle materie prime necessarie per costruire le batterie, parte essenziale dell’elettrico. Materie prime che si trovano in pochi luoghi al mondo, con punte del 50% per le riserve globali di cobalto concentrate in un unico Paese, la Repubblica Democratica del Congo. Va poco diversamente per il litio: oltre metà di quello disponibile sulla Terra si trova nella regione sudamericana a cavallo tra Cile, Argentina e Bolivia. Altri tre Stati – Turchia, Brasile e Cina – si spartiscono il 70% delle riserve di grafite, mentre quattro Paesi – Sudafrica, Ucraina, Australia e lo stesso Brasile – possiedono tre quarti del manganese presente sul pianeta.

Visti i pochi fornitori, tra l’altro non sempre esenti dal rischio di conflitti, il primo punto debole di questo mercato emergente è la sicurezza dei rifornimenti. Poi si pone il tema della sostenibilità economica locale dello sfruttamento delle risorse: per questi minerali, quasi tutto il valore aggiunto della lavorazione va a beneficio di Paesi diversi da quelli di estrazione. Clamoroso è il caso della Repubblica Democratica del Congo, il cui cobalto  viene lavorato e raffinato al 100% all’estero, ma lo stesso accade per gran parte del litio sudamericano.

Ugualmente gigantesco è il problema delle ricadute ambientali e sociali delle attività estrattive. Il 25% del cobalto fornito dal Congo proviene da miniere “artigianali”, nelle quali, secondo Amnesty International, lavorano persone in stato di semi-schiavitù; mentre per l’estrazione del litio cileno, boliviano e argentino si usa la tecnica detta “della salamoia”, che consuma grandi quantitativi di acqua in ecosistemi desertici, ambienti tra i più secchi al mondo, andando quindi ad esaurire le acque sotterranee, inquinando le poche falde superstiti e obbligando i pastori che tradizionalmente vivono in quella regione ad abbandonare le proprie terre.

Se proiettiamo nel futuro questi problemi già presenti, moltiplicandoli alla luce dei 250 milioni di auto che oggi circolano in Europa e che, tra 20 anni o poco più, dovrebbero essere sostituiti da veicoli elettrici, otteniamo una situazione ingestibile. Ma dobbiamo aggiungere ancora un’altra criticità, rispetto al cambiamento climatico: e cioè considerare da quale fonte si ricava l’elettricità che dovrà alimentare un numero enorme di mezzi. In Cina e India, Paesi dove la rivoluzione delle macchine elettriche è iniziata, rimane fondamentale il carbone. In misura limitata il carbone continua a essere usato perfino in Europa, ma nel nostro continente, soprattutto in Italia e Spagna, per generare energia elettrica si usano enormi quantità di gas naturale. Per far fronte all’aumento della domanda di elettricità, la rete di distribuzione dovrà essere rinnovata e la produzione rapidamente potenziata, ma ciò avverrà senza che sulle rinnovabili siano stati elaborati piani di sviluppo concreti, che richiedono investimenti parametrati alle necessità.

Sono questi i nodi irrisolti della tanto annunciata “rivoluzione verde europea”. Più ideologica che realistica e, anzi, spesso campata per aria rispetto alle reali disponibilità di materie prime. Soprattutto, volutamente ignara del fatto che questa rivoluzione ambientalista e smart è destinata ad alimentarsi con i soliti meccanismi di sfruttamento della terra e delle persone. Materie prime a basso costo, violazione dei diritti sociali e umani, distruzione ambientale, fuga di agricoltori e pastori, valore aggiunto spostato sulla trasformazione. Non c’è nulla di moderno in tutto ciò. È una storia che ogni volta viene narrata diversamente, ma che in fondo rimane sempre la stessa.

Scambi senza guida

Pubblicato: 26 febbraio 2023 in Mondo
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La constatazione dei limiti della globalizzazione nel produrre benessere diffuso, poi la pandemia e infine il conflitto russo-ucraino hanno innescato trasformazioni e ripensamenti che incidono sul sistema di regolazione del commercio globale pensato negli anni ’90, intaccando in particolar modo il WTO (World Trade Organization). Nato a Ginevra nel 1995, il WTO avrebbe dovuto stabilire le regole comuni e sanzionare gli eventuali trasgressori tra i 164 Paesi membri e i 23 osservatori (praticamente il mondo intero, con l’eccezione di Corea del Nord, Eritrea, San Marino e pochi altri Stati). 

Il primo “picconatore” del WTO è stato Donald Trump, che lo ha accusato di non essere imparziale: di fatto, il WTO si limitava a non avallare il ritorno dei dazi o l’imposizione di sanzioni economiche non giustificate, come quelle varate dagli Stati Uniti di Trump nei confronti della Cina. Poi, per l’organismo multilaterale fare il proprio lavoro è diventato sempre più complicato: durante la pandemia, l’emergenza ha determinato un “ritorno” prepotente della centralità degli Stati e ha fatto saltare quasi tutte le regole a tutela della libera concorrenza; ora con Joe Biden si sta ripetendo lo stesso copione della presidenza Trump. Gli Stati Uniti a guida democratica, infatti, non hanno compiuto alcun passo indietro rispetto alle sanzioni e ai dazi imposti dall’amministrazione repubblicana. Recentemente sono stati condannati dal WTO per la loro politica di sussidi all’acciaio e all’alluminio e, fatto ancora più rilevante, il WTO ha stabilito che le loro ritorsioni contro la Cina non sono giustificate in quanto non è in pericolo la sicurezza nazionale, unico motivo che potrebbe giustificarle.

Mai, prima d’ora, un organismo internazionale aveva espresso un parere sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il pronunciamento ha scatenato la reazione piccata del governo di Washington, ma in realtà il WTO avrebbe ragione: negli accordi tra i Paesi aderenti all’organismo si era deciso di non evocare mai come pretesto la difesa degli interessi nazionali, perché ciò avrebbe reso inutile l’intero sistema; in caso contrario, chiunque avrebbe potuto bloccare le decisioni “scomode” in nome della propria sicurezza. Questo dibattito, apparentemente molto tecnico, è in realtà fortemente politico. Attorno al WTO sono esplose le contraddizioni tra un sistema di relazioni commerciali pensato ai tempi d’oro della globalizzazione e l’odierna economia-mondo, caratterizzata da colli di bottiglia che inceppano la libera circolazione delle merci. Se allarghiamo ulteriormente lo sguardo, gli Stati si stanno riprendendo la delega in bianco che, nell’ultimo decennio del secolo scorso, avevano concesso all’economia, e ai grandi gruppi privati. Oggi nessuno crede più che lo Stato debba ridimensionarsi e rinunciare al suo ruolo di indirizzo sui temi dell’economia, dell’ambiente o del lavoro. È questa la ragione per cui sta saltando in aria l’architettura globalista che immaginava un solo mercato mondiale, grande e aperto. Vengono invece ripristinati strumenti antichi come i dazi e le sanzioni senza giusta causa, le sovvenzioni, le penalizzazioni delle importazioni, nel tentativo di ricostruire una sovranità economica che, in realtà, è andata persa da tempo. Ed è questa la grande contraddizione dei nostri tempi: da un lato si torna a pensare, nel bene o nel male, al ruolo di una politica regolatrice e interventista, ma dall’altro non ci sono gli strumenti adatti per implementarla. E gli strumenti vecchi che cerchiamo di recuperare e riadattare, a partire dai dazi, diventano boomerang e finiscono con il danneggiare chi li adopera. Perché, volenti o nolenti, la nostra realtà è diventata globale: la chiave di volta sarebbe un forte impegno per la riforma del sistema multilaterale, invece si sta imboccando la vecchia, fallimentare scorciatoia autarchica.

Gira che ti rigira, la new economy si trasforma e torna a essere old economy, molto old. Gli oligarchi della West Coast che hanno rivoluzionato il modo di vivere di tutta l’umanità, con i loro device e i loro social network, stanno ora investendo in terre. Non c’è da stupirsi: personaggi come Bill Gates, Elon Musk e Jeff Bezos, con i loro prodotti virtuali, avevano già anticipato una rivoluzione del capitalismo globale; ora anticipano una nuova svolta che pone al centro un settore a lungo dimenticato, ma che – non è difficile prevederlo – è destinato a diventare determinante nel prossimo futuro: l’agricoltura. Bill Gates è diventato il primo proprietario individuale di terreni agricoli negli Stati Uniti, con ben 275.000 ettari coltivabili distribuiti in una ventina di Stati. Bezos, l’uomo di Amazon, è a quota 170.000 ettari tutti concentrati nel Texas mentre il magnate dei media Ted Turner possiede la più grande mandria di bisonti al mondo, ben 45.000 capi, in 14 diversi ranch. Questi investimenti guardano al futuro, soprattutto perché qui si svilupperà un’agricoltura high tech, accanto a città smart come quella che Gates sta pianificando in Arizona per 80.000 fortunati abitanti.

Città intelligenti e agricoltura ad alta tecnologia sicuramente faranno tendenza nel mondo, ma per ora l’unico effetto è un rialzo dei prezzi dei terreni negli Stati Uniti. Il processo ricorda da vicino quello che, qualche anno fa, ha investito le proprietà immobiliari in California, portando alle stelle i prezzi delle case e degli affitti e facendo esplodere il fenomeno degli homeless accampati sui marciapiedi in città come Los Angeles e San Francisco. Questo perché, quando si muovono i capitali enormi dei giganti dell’high-tech, i prezzi inevitabilmente salgono, e di conseguenza le differenze sociali crescono, la società e le stesse città si dividono tra chi rimane dentro e chi finisce fuori, in modo drammatico. Il tutto avviene senza che ci sia alcun dibattito pubblico in proposito, e senza che nessuno si preoccupi delle conseguenze.

Il mondo autoreferenziale dei miliardari della West Coast ha accresciuto a dismisura il proprio potere nella totale indifferenza della politica, statunitense e globale: questi gruppi economici incidono sulle dinamiche politiche e sociali come mai era accaduto in passato. Il caso di Elon Musk è forse quello più eclatante. L’imprenditore sudafricano, oltre ad avere accumulato un patrimonio gigantesco, detta la linea sulle esplorazioni e sulla ricerca spaziale, e il suo gruppo è l’unico soggetto non statale coinvolto nel conflitto russo-ucraino, poiché fornisce collegamenti web a Kiev, sia alla popolazione sia all’esercito. Bill Gates, d’altra parte, con la sua fondazione benefica ha determinato le linee adottate dall’OMS per l’Africa e indirizza gli investimenti per la ricerca medica. Si potrebbe dire che il passaggio di questi “maghi dell’informatica” e dell’alta tecnologia a proprietari terrieri, favorito dalla capacità di spesa quasi senza limiti, li sta facendo tornare… con i piedi per terra.

Le terre coltivabili, oggi in costante diminuzione per via del cambiamento climatico, sono una risorsa preziosa destinata, in prospettiva, ad assumere un valore incalcolabile. Quando il mondo dovrà scegliere tra i videogame e il cibo, saranno gli stessi imprenditori a produrre e vendere entrambi i beni: dismessa la retorica secondo la quale avrebbero reso migliore il mondo grazie alla tecnologia, si preparano a diventare i salvatori di popoli affamati. Tutto privatamente, tutto a scopo di lucro. Perché la nuova e vecchia economia dei magnati della West Coast nasce e si sviluppa a favore di pochissimi ma si alimenta dei bisogni delle moltitudini, sostituendo la politica con il marketing.

Quello del debito pubblico degli Stati è un problema antico, già emerso all’attenzione dell’opinione pubblica verso la fine del ’900, quando le istituzioni finanziarie internazionali individuarono come cura standard, per i Paesi che ne erano gravati, il taglio dei cosiddetti “rami secchi” (cioè istruzione, pensioni e welfare), la liberalizzazione dei mercati e la privatizzazione delle aziende pubbliche. Una ricetta che ebbe pesanti ricadute sulla vita dei cittadini, basata su pochi ingredienti giusti e molti altri dettati dall’ideologia. Non è mai stato dimostrato, ad esempio, che un minor investimento nell’educazione dei giovani o nella cura degli anziani possa migliorare stabilmente i conti di uno Stato: anzi, nel medio periodo di solito accade l’esatto contrario. Ma il problema dell’indebitamento è come un iceberg del quale si vede solo la parte superiore, quella economica, mentre tutto il resto rimane sommerso.

Tra gli anni ’80 del secolo scorso e gli anni 2000 la questione riguardò soprattutto l’America Latina: Messico, Brasile, Ecuador, Perù rischiarono il default o addirittura dovettero dichiararlo, come accadde all’Argentina nel 2001, il caso più noto. Non furono le ricette del Fondo Monetario Internazionale a sistemare le cose, bensì il ciclo di crescita economica e l’aumento delle quotazioni delle commodities agricole e minerarie, che aiutarono quei Paesi a uscire dalla crisi.

Situazione economica internazionale e quotazioni delle commodities sono le ragioni per le quali oggi, dopo la pandemia, con la guerra in Ucraina ancora in corso e con il rischio di una recessione globale all’orizzonte, il debito torna prepotentemente all’attenzione. L’America Latina, che nel 2019 aveva una media del 58% di debito in rapporto al PIL continentale, è balzata al 72%.

La situazione è ancora più delicata in Africa, continente finora risparmiato dalle grandi crisi debitorie e che diverse volte ha usufruito di cancellazioni del debito. Nel 2022 il debito estero africano ha superato quota 700 miliardi di dollari e ben 8 Stati, secondo gli analisti, rischiano il default a breve termine. La crisi debitoria nasce dalla debolezza della struttura economica della maggior parte dei Paesi africani, che dipendono talvolta dalle quotazioni di una sola materia prima da esportazione, a fronte di una popolazione giovane in aumento e di una bassa tendenza al risparmio; si aggiungono il problema insoluto della corruzione generalizzata e la bassa fiscalizzazione dell’economia locale. Ora, prima che scatti l’effetto domino, si cercano soluzioni: ma in questo caso non è soltanto il Fondo Monetario a dettare le regole, perché quando si parla di Africa bisogna fare i conti con la Cina, che detiene quasi il 15% del debito estero del continente. Per anni, infatti, Pechino ha elargito agli Stati africani prestiti a buone condizioni, spesso per ripagare infrastrutture costruite dalla Cina stessa, e oggi teme l’insolvenza di alcuni dei Paesi con i quali ha stabilito rapporti di dipendenza. Almeno 6 Stati saranno chiamati a breve a ristrutturare il loro debito, e alcuni di essi sono Paesi importanti, come il Kenya, l’Egitto e la Nigeria.

A differenza di quanto accaduto in America Latina, qui c’è poco da tagliare, perché il welfare è quasi inesistente e gli Stati non possiedono grandi risorse. Assisteremo quindi a un negoziato che avrà poco di economico e molto di geopolitico, con la concessione di vantaggi agli investitori provenienti dai Paesi creditori, politiche restrittive sulle migrazioni e allineamenti politici che possano bilanciare l’avanzata dell’influenza di Mosca. Del resto, già in passato il debito estero è stato un fenomenale strumento di pressione politica oltre che economica. I Paesi indebitati devono abbassare le loro pretese, dimenticare il protagonismo internazionale e sopportare il commissariamento dei loro bilanci pubblici. Finché la prossima crescita economica allenterà la pressione debitoria e si potrà ancora una volta ricominciare a fare debito, come se nulla fosse.   

Due dati demografici recenti ci parlano del futuro: sul pianeta siamo oltre otto miliardi di esseri umani e, per la prima volta dal 1961, la Cina ha registrato un calo demografico, tanto che nel 2023 non sarà più il primo Paese al mondo per popolazione, superata dall’India. I due dati risultano tra loro complementari, soprattutto se li si osserva in una prospettiva di lungo termine. La frenata demografica cinese, infatti, non può essere considerata episodica, e nemmeno una “semplice” conseguenza delle politiche restrittive sul diritto alla procreazione varate in passato dalle autorità, ma è frutto anche dalla crescita economica che ha cambiato lo stile di vita di ampie fasce della popolazione cinese e, più in generale, dal processo che ha visto la civiltà contadina tradizionale trasformarsi in una società operaia di massa. In questi ultimi decenni, lo stesso è accaduto anche in altri Paesi: a livello planetario, il sorpasso della popolazione urbana su quella rurale è avvenuto nei primi anni 2000. Ovunque si sia verificato questo fenomeno, la fertilità media per donna è calata. Proprio questo è stato uno dei principali freni alla crescita demografica globale.

Dunque siamo sì otto miliardi, numero enorme, ma la prospettiva di crescita oggi è ridimensionata rispetto alle proiezioni fatte 30 anni fa. Le attuali proiezioni elaborate dalle Nazioni Unite ci parlano di tempi ancora lunghi prima di arrivare al picco, previsto attorno al 2180, dopo il quale la popolazione globale comincerà a scendere. Nel frattempo, però, si saranno aggiunti altri due miliardi di uomini e donne nati soprattutto nei Paesi più poveri, laddove ancora il lavoro agricolo richiede braccia, dove le campagne per la salute sessuale e la prevenzione non esistono per povertà o sono rifiutate per convinzione religiosa. Nei prossimi anni sarà infatti l’Africa il continente che farà il grande salto demografico: attorno al 2050 la Nigeria contenderà agli Stati Uniti il terzo posto al mondo per popolazione e l’intero continente avrà raddoppiato la sua popolazione attuale. La Cina, che come si è visto già comincia a calare demograficamente, si troverà presto ad affrontare gli stessi problemi dell’Europa e del Nordamerica: l’invecchiamento della popolazione, il peso crescente dei pensionati (e dunque anche dei servizi sanitari e di welfare per la terza età), la carestia di giovani da impiegare.

L’altro mondo invece, quello ancora in crescita, deve far fronte ai problemi opposti: dalle mancanze di servizi e di cure per giovani mamme e bambini all’eterno deficit dell’offerta formativa, fino all’abbondanza di giovani senza impiego, premessa per l’emigrazione.

Quelli che abbiamo definito due “mondi” diversi si trovano però sullo stesso pianeta. Anzi, di fatto sono fortemente interdipendenti: c’è chi esporta braccia e chi le importa, chi ha lasciato l’agricoltura e chi continua a produrre alimenti. Non è però un’interdipendenza all’acqua di rose. Le gigantesche disparità nella distribuzione delle opportunità, a livello locale e su scala globale, l’avanzare degli effetti peggiori dei cambiamenti climatici, la mancanza di una politica migratoria globale che regoli i flussi e garantisca i diritti, l’instabilità endemica di Paesi vittime della criminalità o di conflitti armati rendono il mondo ancora una volta incapace di pensarsi come comunità.

Ci vorrebbe invece uno sguardo d’insieme per gestire la transizione demografica in corso, così come per affrontare la sfida ambientale e per provare a risolvere i conflitti aperti. Tutti temi di alta politica, per i quali in verità ci sono molte ricette, alcune semplici altre complesse, che troviamo scritte in tutti i rapporti delle Nazioni Unite. Un organismo, formato e finanziato dagli Stati, il cui lavoro però, a quanto risulta, non viene mai nemmeno preso in considerazione dai decisori. La sfida demografica è soltanto uno dei dossier aperti che riguardano questa globalizzazione, ancora alla ricerca di uno sguardo attento, di idee, di volontà politica per essere governata.

Nel mondo ci sono crisi prioritarie, altre che si accendono a intermittenza e altre ancora che vengono dimenticate. L’elenco di queste ultime è il più lungo. Dell’occupazione del Sahara Occidentale da parte del Marocco, dopo un lungo silenzio, abbiamo sentito parlare in questi mesi solo per via dell’inchiesta sulla corruzione nel Parlamento Europeo, che avrebbe avuto, tra gli altri obiettivi, anche quello di far “passare liscia” al governo marocchino l’occupazione illegittima dell’ex colonia spagnola. Il continuo uso e abbandono dei curdi, nei vari Paesi in cui questo popolo costituisce una minoranza oppressa, è una costante: basti pensare al caso dei curdi siriani, sacrificati sull’altare degli interessi turchi e russi. La luce sulla situazione dei palestinesi nei territori occupati si riaccende ogni tanto, ma sempre con minore intensità.

Poi ci sono i regimi che agiscono in totale impunità: come quello al potere in Myanmar, Paese che dal 2021 è governato con il pugno di ferro dai militari. La leader delle forze democratiche e Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, 77 anni d’età, al momento deve scontare 33 anni di carcere, sommando le condanne che le sono state inflitte per 14 capi d’imputazione. Finora sono in totale 16.500 i dirigenti del suo partito arrestati e 139 i dissidenti condannati a morte dei quali si ha notizia, che si aggiungono ai 4 giustiziati ad agosto. Un rapporto dell’ONU parla di 15 milioni di birmani, su una popolazione di 58 milioni, che stanno soffrendo la fame; il numero delle vaccinazioni anti-covid è crollato e la guerra civile tra lo Stato e diversi gruppi armati dilaga.

Eppure nessuno prende seriamente in considerazione il Myanmar. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che non ha mai condannato la giunta militare a causa dei veti della Cina, ha prodotto soltanto una tiepida risoluzione (con l’astensione di India, Russia e Cina) che chiede la cessazione delle violenze e la scarcerazione dei detenuti per motivi politici. Le uniche misure concrete sono state finora le sanzioni USA e l’embargo europeo sull’esportazione di armamenti e beni che potrebbero essere usati a scopo militare. Poca cosa per spaventare i generali di Yangon, che vengono riforniti di qualsiasi tipo di armi dalla Cina.

Il vero tallone d’Achille dei militari resta la disastrata economia del Paese: ma anche questo problema appare potenzialmente superabile grazie all’appoggio cinese, in particolare, agli investimenti che la Cina sta realizzando nel settore minerario birmano. Occorre ricordare che Pechino controlla circa il 60% del mercato mondiale delle terre rare e che il Myanmar ne possiede un altro 10%: per motivi ambientali, considerato il pesante impatto ambientale dell’estrazione, la Cina ha cominciato a limitare l’attività estrattiva sul suo territorio e a cercare altrove i preziosi minerali, soprattutto nel Kachin birmano, una regione ora controllata da un gruppo alleato dei militari di Yangon. Il metodo di estrazione usato in Myanmar si basa sulla deforestazione e produce liquami tossici scaricati nei fiumi senza trattamenti. Dal momento del colpo di Stato a oggi, i luoghi di estrazione di terre rare sono passati da qualche decina a oltre 2700. Ed ecco allora l’importanza strategica dei militari birmani: possono garantire, al prezzo della devastazione del proprio Paese, l’estrazione di quei minerali strategici per le nuove tecnologie. Poco importante il Myanmar, troppo importanti le terre rare, e così la democrazia può aspettare. Con l’appoggio diretto della Cina e quello supplementare di India e Russia, i militari birmani possono essere certi che i loro misfatti resteranno impuniti.

Poche volte l’andamento dell’economia mondiale è dipeso dalla salute di un popolo, ma in questo 2023 che inizia dipenderà da quella del popolo cinese. I timori che il brusco allentamento delle misure draconiane di prevenzione finora adottate da Pechino contro il coronavirus possa tradursi in un’ondata incontrollata di contagi sono molto forti. I motivi sono diversi, ma i principali rimangono l’alta percentuale dei cittadini non vaccinati, una decina di milioni solo tra gli over-85, e la scarsa efficacia dimostrata nei test dai vaccini cinesi della Sinovac rispetto a quelli a mRna prodotti dalle multinazionali occidentali. In Cile, dove questi vaccini erano stati usati per la prima volta fuori dalla Cina, si è calcolato che la copertura di vaccini Sinovac di prima generazione non superava il 40% di efficacia. Nel 2022, la scarsa circolazione del virus nel Paese asiatico è stata dovuta non tanto ai vaccini, ma alle politiche di isolamento dei focolai, fondate su rigidissimi lockdown. La domanda degli esperti è se la Cina oggi è pronta per sostenere la ripresa economica globale, visto il ruolo determinante che svolge per la filiera produttiva mondiale. La pandemia, infatti, ha messo in evidenza come della Cina non si possa fare a meno: garantisce percentuali che toccano il 40% dei componenti attivi dell’industria farmaceutica e il 35% del mercato mondiale dei microchip, oltre a una enorme quantità di beni che spaziano dall’elettronica avanzata alle terre rare, che sono estratte o elaborate in Cina quasi per il 70%.

Si è così compreso che la globalizzazione è sì una fase dell’economia mondiale nella quale tutti partecipano a un unico e grande mercato, ma questo mercato è tenuto in piedi da pochi Paesi, e soprattutto dalla Cina. Se la salute dei cinesi quindi vacilla, ne risente l’economia di tutto il mondo e in alcuni settori si rischia addirittura la paralisi. Questa è la conseguenza di un processo iniziato negli anni ’80 del secolo scorso, con il trasferimento di interi comparti industriali dismessi dall’Occidente verso la Cina, capace di acquisire velocemente una capacità produttiva che in precedenza non aveva grazie al suo inesauribile serbatoio di manodopera a basso costo, ma anche a zero politiche ambientali e sfruttamento illimitato di energia prodotta dal carbone. Poi il colosso asiatico è diventato esso stesso un grande mercato, ma senza perdere il ruolo di esportatore che, anzi, si è rafforzato nel tempo anche attraverso enormi investimenti diretti in una miriade di Paesi in tutto il mondo. Il vero colpo di reni della Cina è stata però la sua politica estera, non guidata da mire geopolitiche tradizionali ma volta a consolidare il primato economico raggiunto. Stringendo accordi commerciali, Pechino si è garantita rifornimenti certi di quasi tutte le commodities necessarie per la sua economia. E quindi grano, soia, carne, legname dal Sudamerica e minerali strategici dall’Africa, diventata il suo cortile di casa. Per non parlare del resto dell’Oriente, dove spiccano gli accordi con Vietnam e Laos e il sostegno a regimi come quello al potere in Myanmar.

L’espansione della Cina assomiglia molto, almeno da un punto di vista economico, a quella che fu propria dell’Impero britannico, ma senza l’apporto delle cannoniere e senza le colonie, almeno in apparenza. La Cina è dunque una potenza moderna e allo stesso tempo antica, ormai da tempo siede al tavolo dei grandi del mondo ma continua a usare retoriche terzomondiste con i Paesi più poveri. Questo ruolo, però, ora diventa fragile per via del più grande errore commesso da Pechino negli ultimi decenni: quello di non avere voluto, per motivi di orgoglio nazionale, copiare o acquistare i vaccini occidentali, preferendo continuare a seguire la via, rivelatasi fallimentare, del controllo della diffusione dei contagi. Il punto è che la salute del popolo cinese è un problema di tutti: senza la Cina non si uscirà dalla crisi iniziata nel 2019, a dimostrazione del fatto che, oggi più che mai, i problemi e i conflitti arrivano dall’economia molto più che dai missili. Ma a differenza dei carri armati, sono problemi che fanno poco rumore.

Il Natale è stata la prima vera festa ad assumere portata globale, prima ancora della fine della Guerra Fredda. E ciò è accaduto parallelamente al suo progressivo allontanamento dal significato originario, ossia ricordare la nascita in Medio Oriente di quel bambino ebreo che sarebbe diventato il “Figlio di Dio” per i fedeli di una nuova religione, quella cristiana, destinata a svilupparsi soprattutto in Europa e poi a espandersi nel mondo, grazie al colonialismo. Nel senso religioso della ricorrenza, il Natale è una festa di preghiera e di speranza: ma in questi termini coinvolge esclusivamente i cristiani, e cioè solo una parte dell’umanità. Invece la festa del Natale, intesa in senso laico, coinvolge qualche miliardo di persone in più.

L’odierna festa dell’omone rosso che viaggia in slitta, che con la tradizione cristiana nulla ha a che vedere, è un Natale “neutralizzato” dal punto di vista della fede e caricato di nuovi significati e di nuovi simboli universali. I significati acquisiti sono quelli classici della dimensione fiabesca: il giorno di Natale “si torna tutti buoni” e per 24 ore è consentito sperare in un futuro migliore. A Natale è tutto possibile, ma è un possibile che dura poco. Il simbolo laico del Natale è ormai diffuso a livello planetario. Santa Claus, ovvero Babbo Natale, un corpulento nonno vestito di rosso che abita dalle parti del Circolo polare artico circondato da renne e da un esercito fantastico di elfi, con i quali costruisce giocattoli. Ma Santa Claus non è altro che la libera reinterpretazione di un’altra figura religiosa, san Nicola di Mira, il vescovo della Licia che, secondo i resoconti, nella sua vita fu protettore di bambini e fanciulle e diede esempio di grande generosità, donando ai più poveri nei momenti del loro massimo bisogno. Da santo caritatevole a icona della Coca-Cola, il passo è stato relativamente breve: così il giorno di Natale diventiamo tutti buoni come san Nicola, purché si beva la cola, o meglio quell’elisir nato ad Atlanta mescolando foglie di coca, zucchero e cola.

Il Natale della bontà e del dono, soprattutto di quest’ultimo, è diventato il migliore volano per le vendite di fine anno, periodo nel quale si registrano ad esempio i picchi di acquisti di prodotti di elettronica, anche se il Cyber Monday, altra data importante del calendario del consumismo, ormai lo sta superando. Arriviamo così alla festa globale dei buoni sentimenti, per la gioia dei fabbricanti di gadget e di cibi pregiati. Una festa che non discrimina più per appartenenza religiosa o etnica, ma solo per possibilità economica. Una festa laica che va bene in Italia e Germania, ma anche in India, Cina o Nigeria. Una festa non più comandata dal vescovo, ma dai media.

Nella sua versione contemporanea, il Natale ha anticipato di decenni la globalizzazione e il suo valore fondante: quello dell’uguaglianza universale a partire dell’omologazione nei consumi. Un mondo forgiato dalle multinazionali che offrono gli stessi prodotti ovunque, fabbricandoli là dove è più conveniente. È una festa che appartiene al passato e insieme al futuro, che forse domani potrebbe vedere insidiato il suo primato da Halloween o dal Capodanno cinese, ma che gode di una popolarità difficile da scalfire. E, visto che al momento non ha concorrenti, buon Natale anche quest’anno!

Sono passati circa vent’anni da quando l’Unione Europa ha imposto una certificazione per il legname utilizzato per le costruzioni e l’industria del mobile. L’idea era contribuire ad arrestare, in Europa e nel mondo, i processi di deforestazione finalizzati ad alimentare l’industria del legname. Ma la deforestazione non è diminuita, anzi: non potendo più commerciare in Europa i legnami pregiati non certificati, i predatori di foreste ora li vendono alla Cina e all’India. E il problema non è certo solo questo. La situazione è peggiorata soprattutto perché oggi le foreste non si tagliano ma si bruciano: accade per fare posto alle coltivazioni di palme da olio, di soia e cacao, o per ricavare pascoli per allevare bestiame. Su scala globale, tutte queste attività agricole sono cresciute esponenzialmente per via del miglioramento delle condizioni di vita in Oriente, che ha portato a una maggiore domanda di cibo, e anche per il diffondersi di alcune “mode” del settore alimentare. Basti pensare al caso della soia, usata sempre più come foraggio per il bestiame e nella panificazione, e all’andamento del mercato dell’olio di palma, ormai impiegato in tutta la filiera della pasticceria: dal 2000 al 2020, la quantità commerciata nel mondo è quasi quadruplicata.

Ora la Commissione e il Parlamento dell’UE hanno raggiunto un accordo per imporre certificazioni di sostenibilità ambientale e sociale anche a una serie di prodotti “responsabili” di deforestazione come cacao, soia, caffè, gomma, olio di palma: tali prodotti non potranno più essere acquistati da operatori europei se coltivati in terreni che sono stati deforestati dopo il 31 dicembre 2021. In pratica, si condona tutto il degrado delle foreste tropicali che è stato prodotto fino a un anno fa: un degrado di cui l’Unione è responsabile quasi per il 20%. Indipendentemente da queste valutazioni, l’accordo ha un valore quasi solo politico e simbolico. Di sicuro farà felici le società di certificazione e avrà ripercussioni sui prezzi ai consumatori, mentre sul piano concreto applicare la legge sarà difficilissimo e le possibilità di aggirarla saranno alte. Questo perché, ad esempio, soia, caffè e olio di palma vengono raccolti in silos o cisterne usati da più produttori, che fanno perdere le tracce della provenienza, e anche perché, non esistendo registri degli incendi o delle deforestazioni, è impossibile accertare se un appezzamento agricolo sorge in un’area disboscata due anni fa o l’altro ieri.

L’Unione Europea, in realtà, da un lato vorrebbe che il mondo fosse a sua immagine e somiglianza, dall’altro ha bisogno che le materie prime una volta chiamate “coloniali” continuino ad arrivare a basso prezzo. Questo il motivo che spiega, ad esempio, la grande contraddizione dell’aver escluso dall’elenco il mais, che si coltiva anche in zone tropicali deforestate. Il tema che resta tabù è quello dei consumi: non tanto della loro qualità ma della quantità, argomento che è collegato sia allo spreco sia a una serie di disturbi dell’alimentazione. Per quanto riguarda questa certificazione, è certamente giusto voler capire come sono state prodotte le merci che consumiamo, ma è ridicolo pretendere che i prodotti coltivati in zone di foreste primarie non siano cresciuti grazie alla deforestazione, compiuta un anno o dieci anni prima. La vera rivoluzione sarebbe invece limitare le importazioni di queste materie prime, lavorando per una riduzione del consumo degli alimenti collegati alla distruzione delle foreste. Ad esempio, regolamentare o tassare le catene di fast food che spuntano come funghi proponendo carne bovina low-cost da animali foraggiati a soia sarebbe più utile che “certificare” la soia, cosa già in sé improbabile. Ma sappiamo che alla fine le aspirazioni ambientali si infrangono sul totem del consumo e della libertà di consumare come se non ci fosse un domani: prospettiva che, pian piano, sta diventando sempre più realistica.