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“Sì, è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana” avrebbe detto Franklin Delano Roosevelt riferendosi al dittatore nicaraguense Anastasio Somoza García. Il weekend scorso abbiamo avuto una versione aggiornata dello stesso concetto da parte di un altro presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha deciso di graziare l’ex presidente honduregno Juan Orlando Hernández, condannato a 45 anni di carcere da un tribunale di Manhattan per stretti legami con il Cartello di Sinaloa ai tempi del “Chapo” Guzmán. Questa improvvisa voglia di grazia è arrivata a 48 ore dal voto in Honduras, nel quale Trump è entrato a gamba tesa per tirare la volata a Nasry Asfura, del Partido Nacional, sul quale pesava la macchia di un predecessore dello stesso partito finito all’ergastolo negli USA. È un modo spudorato per tentare di influenzare il processo elettorale in un altro Paese, ma non del tutto nuovo: qualcosa di simile si era visto già lo scorso ottobre, alla vigilia del voto legislativo in Argentina, quando Trump aveva dichiarato che il piano di salvataggio dell’economia argentina sarebbe diventato effettivo solo se a vincere le elezioni fosse stato Javier Milei. Le elezioni le ha poi vinte Milei, ma dei 20 miliardi annunciati dalla Casa Bianca forse ne arriveranno soltanto cinque.

L’attivismo in stile anni ’80 degli Stati Uniti nel loro ex “cortile di casa” è motivato esclusivamente da considerazioni geopolitiche. In passato Washington costruì, a costo di sostenere le peggiori dittature dell’epoca, una sorta di cordone sanitario per impedire che l’URSS acquistasse nuovi alleati nelle Americhe. Oggi, la potenza contro la quale sono puntate tutti le armi statunitensi, dalla finanza agli eserciti, è la Cina: Paese, che durante gli anni di latitanza degli USA, ha conquistato una posizione di rilievo in quasi tutta l’America Latina. In qualche caso anche in compagnia della Russia di Putin, molto presente in Venezuela, Cuba e Nicaragua come fornitrice di armi.

La politica trumpiana verso l’America Latina ha però radici ideologiche molto più antiche, risalenti al 1823, quando il presidente statunitense James Monroe lanciò la dottrina dell’“América para los americanos”: l’Europa non avrebbe più esercitato ingerenze nel continente americano e, viceversa, gli Stati Uniti non si sarebbero mai impicciati negli affari degli europei. Fu una delle staffette storiche tra le potenze, sempre citata dai manuali di storia, anche se ai primi dell’800 gli Stati Uniti erano soltanto una potenza regionale emergente.

Tornando all’attualità, il punto debole della politica neo-imperiale di Trump è che la Cina offre ai Paesi latinoamericani ciò che gli USA non possono offrire, e cioè la possibilità di commerciare a tutto campo: compra quasi tutte le commodities latinoamericane e investe nell’industria e nelle infrastrutture locali come gli Stati Uniti non sono in grado o non sono interessati a fare. Per questo Trump, nella propria politica, ricorre anche alla minaccia militare, come dimostra il dispiegamento navale al largo del Venezuela. Ciò nonostante, è una politica che a medio termine risulta perdente, perché oggi nemmeno gli Stati Uniti riuscirebbero a mantenere il proprio status quo senza i rapporti commerciali e finanziari con Pechino.

La situazione è ingarbugliata ed è probabile che, alla fine, saranno i Paesi latini a pagare il conto. Oppure no, perché a differenza dell’URSS durante la Guerra Fredda, che pretendeva l’adesione al proprio modello ideologico e politico, la Cina non chiede nulla. Fa affari con dittature e democrazie, governi di destra e di sinistra, adottando un pragmatismo che a Washington è sconosciuto, ma che di questi tempi risulta molto apprezzato. Si tratta di fare politica su un livello diverso, senza immischiarsi negli affari interni di altri Paesi, e di essere pazienti: una strategia di lungo respiro, difficile da intaccare con le sfilate di portaerei o con le minacce via social.

La guerra ibrida tra Stati Uniti e Cina continua svolgersi sottotraccia. Ma, sul piano dei commerci come su quello della geopolitica, è proprio questo lo scontro rispetto al quale tutti gli altri conflitti, a prescindere dalla loro natura, diventano secondari. Sarà infatti il braccio di ferro tra le due potenze a definire quale, tra le due diverse rimaste sul tavolo, sarà la governance mondiale del futuro. Quella dell’amministrazione Trump è sovranista, isolazionista, estranea al diritto internazionale e alle regole del WTO, basata sul potere militare e tecnologico. Quella cinese, invece, è il frutto di una ragnatela di rapporti politici ed economici costruiti negli ultimi trent’anni: multilateralista e pro-WTO, critica nei confronti del colonialismo e del neocolonialismo. 

Gli ultimi due episodi di questa guerra ibrida si stanno combattendo sul terreno della finanza e del commercio. Dapprima, Pechino ha ristretto l’export verso gli USA di metalli strategici, di cui è il fornitore mondiale predominante, dimostrando che senza i metalli estratti in Cina dalle terre rare l’industria ultratecnologica a stelle e strisce si ferma. Il secondo episodio riguarda la soia, di cui gli Stati Uniti sono il secondo produttore mondiale dopo il Brasile. Soia OGM, che si utilizza per produrre biocarburanti e olio commestibile, ma soprattutto come foraggio per il bestiame. La Cina da sola importa il 60% della produzione mondiale. Ora, a ridosso della campagna d’autunno, ha deciso di non comprarne più un grammo dagli Stati Uniti: in altri anni c’erano già ordinativi per 12 milioni di tonnellate.

Dunque, la soia di cui sono assetati i cinesi non sarà più acquistata dai farmer statunitensi, vicini politicamente a Donald Trump, ma in Brasile e in Argentina. È un duro colpo, sferrato tra l’altro quando la soia arriva a maturazione e per i produttori diventa molto difficile, se non impossibile, trovare acquirenti alternativi. Nemmeno durante il primo mandato di Trump, che fu segnato dalla guerra commerciale con la Cina, si era arrivati a quota zero. Certo, Pechino è molto più forte adesso, e lo è per il combinato disposto tra la sua capacità di acquisto di derrate alimentari e il suo status di quasi monopolista dell’export di minerali strategici.

La risposta degli Stati Uniti passa invece da strade tortuose e difficilmente potrà avere successo. L’appoggio senza limiti offerto finora a Javier Milei, presidente dell’Argentina, da Donald Trump, che ha disposto che siano gli USA a salvare l’economia argentina, prevede una contropartita: Buenos Aires deve chiudere lo swap, cioè lo strumento finanziario, che ha firmato con la Cina ed è chiamata a ridimensionare il ruolo di Pechino nei suoi rapporti commerciali. Ma la Cina è il secondo partner economico argentino, dopo il Brasile, e compra carne, cereali, metalli. Tutti prodotti che gli Stati Uniti non acquistano, producendoli invece in proprio. In che modo l’Argentina potrebbe sostituire la Cina con gli Stati Uniti nei suoi rapporti commerciali? Nessuno sa dare una risposta, ed è questa la forza della presenza cinese nel mondo. Mentre Washington minaccia dazi, esercita pressioni, sposta i suoi militari e divide il mondo tra amici e nemici, Pechino acquista merci, investe, parla di concerto tra le nazioni e fa il prestatore di ultima istanza. Soprattutto, non divide il mondo tra amici e nemici: alla Cina, vanno bene quasi tutti.

È difficile sapere come continuerà lo scontro tra i giganti. Se a un certo punto decidessero di sedersi a un tavolo per stabilire nuove regole, e di conseguenza un nuovo equilibrio mondiale, nessuno potrebbe opporsi, e molti conflitti odierni, come per magia, si chiuderebbero. Invece lo scontro politico ed economico continuerà finché non sarà chiaro quanto contino di meno gli USA e quanto conti di più la Cina rispetto al nuovo ordine che subentrerà al caos. 

Le manifestazioni di protesta esplose a Los Angeles contro la svolta repressiva del governo Trump nei confronti degli immigrati irregolari segnano un cambiamento epocale sul tema migratorio nel Paese che più di ogni altro ha costruito la sua identità a partire proprio dall’afflusso di persone da tutto il mondo. Simbolico anche che ciò accada a Nuestra Señora la Reina de los Ángeles, città fondata nel 1781 dagli spagnoli, appartenuta al Messico fino al 1847. Oggi la megalopoli di Los Angeles, considerando anche l’area metropolitana, conta circa 13 milioni di abitanti: quasi la metà sono latinos, cioè messicani e centro-americani che ne fanno una delle più grandi città al mondo di lingua spagnola. Ed è proprio a Los Angeles che si sta concentrando la politica di espulsione degli irregolari, creando inevitabili tensioni e disordini, soprattutto perché i bersagli dell’ICE, l’agenzia di sicurezza statunitense che controlla l’immigrazione, non sono gang criminali o spacciatori di droga, ma lavoratori perfettamente integrati nel tessuto sociale ed economico del Paese: proprio per questo sono facili da individuare, e gli arresti avvengono soprattutto nei posti di lavoro.

In Europa questa sarebbe un’anomalia, perché i clandestini vivono ai margini della società in condizioni di assoluta precarietà. Negli Stati Uniti, invece, esiste da tempo un patto tacito tra “clandestini” e Stato che consiste sostanzialmente nella tolleranza verso la presenza degli immigrati irregolari, che possono condurre una vita quasi normale – non solo lavorare, ma anche comprare auto e casa, mandare i figli a scuola, lavorare – restando però sempre ricattabili, in quanto “irregolari”. È uno status che per molti può durare decenni o non cambiare mai, malgrado ci siano state alcune sanatorie. Essere irregolare ovviamente blocca la possibilità di diventare cittadino statunitense, ma i figli di queste persone, se nati negli USA, ne sono cittadini dalla nascita. Si calcola che questo esercito di precari-integrati sia di circa 15 milioni di persone: la popolazione di un Paese medio europeo. Lavorano nella galassia dei servizi, dell’edilizia, dell’industria.

Donald Trump, con i rimpatri forzati, sta rompendo questo patto storico, finora rispettato da tutte le amministrazioni passate, anche perché strumentale all’economia di diversi Stati, soprattutto del Sudovest, che necessitano continuamente di manodopera a basso costo, meglio se ricattabile, in cambio della promessa, spesso utopica, di poter diventare “americani”. Con queste politiche, la nazione fondata sull’immigrazione si fa più “europea” e blinda i propri confini, espellendo anche chi, in passato, era riuscito a superarli con fatica. In questo senso gli USA diventano più simili al resto dell’Occidente, ma il punto è quanto tutto ciò – se Trump non cambierà linea – inciderà sull’economia di Stati come Texas o California, dove sono gli irregolari e gli immigrati in generale a tenere in piedi interi comparti, dai servizi all’agricoltura.

La guerriglia in corso a Los Angeles, costellata da bandiere messicane, racconta anche che se il sogno della cittadinanza USA sfuma, si rafforzano le radici culturali d’origine. Ed è proprio questo il punto critico: è davvero possibile creare una spaccatura tra “noi” e “loro” in quel terzo degli Stati Uniti che una volta era Messico, e che è figlio di una storia comune fatta sì di conflitti, ma poi anche di intrecci e valori condivisi? Poi, quando a portare avanti queste politiche è il nipote di un immigrato tedesco, che per giunta è sposato con un’immigrata che è stata pure irregolare, tutto diventa grottesco.

Quando gli chiedevano come poteva sintetizzare la sua vita rispondeva con il titolo della canzone di Violeta Parra “Gracias a la Vida”. José Alberto Mujica Cardano, il Pepe, come nella canzone di Violeta Parra voleva ringraziare la vita che le aveva dato tanto. Da giovane ribelle che negli anni ’60 aveva scelto la lotta armata per cambiare il mondo con i Tupamaros, al prigioniero politico, torturato e usato come ostaggio dei militari per ben 12 anni. Da Mujica tornato libero che collabora alla svolta che porterà le sinistre per la prima volta al potere fino al senatore, a Ministro dell’Agricoltura e infine a Presidente dell’Uruguay. Un politico che non ha mai barattato i suoi principi, che è stato sempre un contadino prestato alla politica, un uomo che dell’austerità ha fatto un principio inderogabile. Perché il Pepe è stato uno degli ultimi esponenti di una cultura antica, quella del gaucho della Pampa. Gente di poche parole, di principi ferrei, di acuta intelligenza pragmatica, abituati alle avversità e alla solitudine. Come quella forzata inflitta dai militari a Mujica per 12 anni, tenendolo in isolamento fino a quasi farlo impazzire. Ed è stato in quelle drammatiche circostanze, per le quali non cercò mai vendetta, che Mujica imparò a vivere dell’essenziale, ma sul serio, e soprattutto a dare valore al tempo. Per Mujica il consumismo era una trappola soprattutto perché i soldi che usiamo per consumare cose superflue sono stati pagati con il nostro tempo. Tempo sottratto agli affetti, all’osservazione, alla discussione, alla socialità. Merci in cambio di tempo di vita, la nuova schiavitù dalla quale bisogna liberarsi. E come? Tornando a vivere con l’essenziale e sostenendo uno stato che sappia garantire educazione e salute per tutti. Welfare e socialità, una caratteristica dell’Uruguay di altri tempi, paese di tradizioni laiche e socialdemocratiche e forgiato dall’immigrazione italiana fin dai tempi di Garibaldi. La sua presidenza ha lasciato all’Uruguay un sistema di sanità pubblica territoriale che ha retto lo shock della pandemia anni dopo, la liberalizzazione della marihuana che ha sottratto risorse alle mafie, la depenalizzazione dell’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma soprattutto il livello più basso nella storia del paese di disoccupazione, povertà e disuguaglianza.  Sul piano personale, fece molto scalpore che si fosse assegnato come presidente uno stipendio di soli 900 dollari, da lui ritenuto più che sufficiente per vivere decentemente. Così come il suo rifiuto dell’auto di stato, perché voleva continuare a guidare il suo vecchio maggiolino.

Questa è stata l’eredità politica e personale di José Pepe Mujica, forse l’unico politico in decenni che è rimasto dal primo all’ultimo giorno della sua carriera fedele ai principi in cui credeva, aggiornandoli ma mai per tornaconto personale. Lui diceva che il politico viene costantemente osservato dai cittadini, per questo deve restare uno di loro perché se invece trae profitto personale, si arricchisce, cede alle tentazioni fa anzitutto un danno alla repubblica, all’idea stessa di democrazia. Pepe Mujica era un uomo di altri tempi, ma la sua vita e il suo pensiero sono stati incredibilmente moderni e attuali.  Oggi la politica latinoamericana lo rimpiange, ma perora, ancora non c’è nessuno che abbia imparato dal suo esempio.

Il primo Papa agostiniano proviene da un settore della Chiesa spesso considerato minore e lontano dalle gerarchie, le missioni. Praticamente tutta la sua carriera ecclesiastica l’ha svolta in Perù, nella periferia di un paese periferico, proprio in quei luoghi di frontiera tanto amati e seguiti da Papa Francesco. Con il suo predecessore Leone XIV condivide l’attaccamento alla Dottrina Sociale della Chiesa, progressista nella visione della società e conservatrice nelle questioni dottrinali. Cardinale di fresca nomina, Prevost si è continuato ad occupare di America Latina e di evangelizzazione per il Vaticano. La sua idea di chiesa è molto simile a quella di Francesco, trova la sua forza nel lavoro con gli ultimi coniugando fede e diritti terreni. Ma è anche il primo Papa statunitense, un paese attraversato da divisioni tra i cattolici e dove le forme più estreme della conservazione trovano una sponda nel Vice Presidente J.D. Vance.

I temi della sua agenda saranno senza dubbio quelli portanti del papato di Bergoglio: lotta alle disuguaglianze, dialogo interreligioso e pace. Per chi aveva dubbi sulla traccia che avrebbe lasciato Francesco, l’elezione di questo nuovo Papa conferma che su questi temi la Chiesa non poteva, e si spera non voleva, tornare indietro.

Jorge Mario Bergoglio è stato il Papa dei primati, il primo a essere nato nelle Americhe, il primo gesuita e il primo a scegliere il nome di Francesco, il santo più lontano dalla Chiesa diventata Stato. La sua carriera ecclesiastica era cominciata relativamente tardi, ma a 37 anni è stato il più giovane Superiore Provinciale dei Gesuiti del Rio de la Plata. Durante la Dittatura argentina non brillò per le critiche al regime, ma riuscì a salvare diversi perseguitati politici da morte sicura. Sarà lui da Vescovo di Buenos Aires a firmare il mea culpa della Chiesa per le connivenze con il regime di Videla. La sua visione politica, spesso mal interpretata, è stata quella dell’impegno sociale, ma senza cedere in materia di dottrina cattolica. Nella sua Enciclica Laudato Sii del 2015, per la prima volta la Chiesa affrontò il tema dell’ambiente, della terra, dei diritti dei migranti. Argomenti ulteriormente declinati nell’Enciclica Fratelli tutti del 2020. La Chiesa che lascia Bergoglio ha vissuto un grande rinnovamento nelle gerarchie, con la cooptazione di decine di sacerdoti impegnati nel sociale e nella lotta per la legalità. Nulla sarà uguale dopo Francesco, soprattutto nella scelta dei poveri, nella tutela del Creato e nella fede nel dialogo tra le persone e tra gli stati perché regni la pace. Bergoglio è stato un ponte tra le fedi e tra le diverse visioni politiche del mondo, sempre pronto ad offrire una sponda per la mediazione, ma senza dimenticare mai la limitatezza della condizione umana. “Chi sono io per giudicare” resta una sua frase celebre, ed è stata questa ammissione di fallibilità, lasciando spazio al dubbio, dove è risieduta la sua grandezza come Pontefice

La terza sconfitta consecutiva del “correismo” in Ecuador conferma i cambiamenti politici in corso in America Latina. Con uno schema che si ripete, il candidato del partito di Rafael Correa, uno dei protagonisti della “marea rossa” in Sudamerica degli anni 2000, al secondo turno non riesce a superare il 50%. Correa è un caso particolare rispetto ad altri presidenti dell’epoca. In carica dal 2007 al 2017, non si è perpetuato nel potere, pur avendo tentato di farlo, e la sua uscita di scena è stata traumatica: dopo una condanna per corruzione si è rifugiato in Belgio, dove tuttora risiede. Malgrado questi fatti, non si è mai ritirato dalla politica del suo Paese, determinando pesantemente le scelte e i programmi dei candidati progressisti sconfitti negli ultimi tre turni elettorali. 

La sua figura non è divisiva soltanto in Ecuador ma anche nel variegato campo della sinistra latinoamericana, all’interno della quale si iscrive anche l’indigenismo, che in Ecuador è rappresentato da un partito. Il correismo è stato una versione ecuadoriana del chavismo venezuelano o dell’evismo (per Evo Morales) boliviano. Una sinistra uscita dalle macerie dei colpi di Stato e dei governi neoliberisti, efficace nel momento di redistribuire, ma incapace di far crescere l’economia. Si è impegnato nei piani di welfare e per i diritti individuali, sociali e ambientali, ma con piglio dirigista, consultandosi poco con i movimenti sociali che in Ecuador sono particolarmente vivaci e hanno una lunga storia di lotta, come quelli indigenisti. Per questo il correismo si è molto allontanato sia dagli indigeni sia dall’ala socialdemocratica della sinistra. Non ha saputo aprirsi alla società, a differenza di Gabriel Boric in Cile e Gustavo Petro in Colombia, proponendo anche idee per la sicurezza che a molti hanno ricordato le svolte autoritarie già vissute in Venezuela.

Come in Argentina con la vittoria di Milei sui peronisti, in Ecuador Daniel Noboa non ha vinto per meriti propri, ma perché aveva come avversaria la candidata scelta da Correa, che dava poche garanzie di indipendenza. La sconfitta di Luisa González conferma ancora una volta che in America Latina convivono due sinistre: quella legata agli anni 2000 o è diventata regime o non riesce più a vincere; l’altra, emersa in tempi più recenti, è fortemente influenzata dall’ambientalismo, dalle questioni di genere e dalle lotte indigene, e vince.

L’eccezione, in questo quadro, è il Brasile di Lula: un leader della stagione precedente che è riuscito a fermare la deriva autoritaria, e ora sappiamo criminale, di Jair Bolsonaro. Ma anche in Brasile, se non si rinnoverà fortemente il campo progressista, tutto potrebbe cambiare velocemente.

Il caso dell’Ecuador ci racconta anche il dramma personale di un politico che non ha saputo ritirarsi dopo un’esperienza per tanti versi positiva. Correa, e in modi diversi Morales in Bolivia, Maduro in Venezuela e Ortega in Nicaragua, sono ormai parte del problema nel quale si dibatte la democrazia latinoamericana. La scomparsa di queste figure dalla scena politica sarebbe solo un bene, per le sinistre più che per le destre.  

La presidente del Messico Claudia Sheinbaum ha appena inviato al Parlamento federale una proposta di modifica della Costituzione per introdurre il divieto di coltivare mais transgenico. Lo slogan della sua campagna contro gli OGM è “senza mais non c’è Paese” (“Sin maíz no hay País”). Il Messico è uno dei più grandi consumatori pro capite di mais al mondo – cereale che, tra l’altro, è diventato commestibile grazie al lavoro di selezione dei popoli nativi di questo Paese – e attualmente produce soltanto il 50% di quanto consuma. Si tratta, più precisamente, della metà dedicata al consumo umano, mentre il restante 50%, destinato all’alimentazione animale, viene importato dagli Stati Uniti ed è totalmente transgenico.

La proposta di Sheinbaum, in sostanza, va a cozzare contro le regole del mercato globale, che in materia di cereali fa un larghissimo uso delle sementi geneticamente modificate. In tempi recenti, il Messico ha già provato a vietare l’import di mais OGM, ma il tribunale arbitrale previsto dall’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Messico ha respinto il ricorso, motivando la sentenza con la mancanza di prove sulla dannosità del consumo di OGM per la salute umana o animale. E questo è vero: il problema degli OGM non è, infatti, la loro nocività, finora mai dimostrata, bensì il modello agricolo sul quale si reggono queste coltivazioni. Pochi proprietari, quasi nessuna necessità di manodopera, enormi distese di terra, erosione dei suoli, eliminazione della biodiversità. Eppure, attualmente questo è il modello vincente: nel mondo, sono coltivati a OGM circa 200 milioni di ettari di terre agricole, di cui due terzi negli USA e nei quattro Paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay). Il foraggio per il bestiame utilizzato dal Messico all’Italia, dal Canada alla Francia è al 100% transgenico, soprattutto la soia. Ma non lo è solo il foraggio: sono largamente coltivati anche grano, patate, pomodori, girasoli, cotone geneticamente modificati. Pian piano, l’intera agricoltura mondiale sta adottando questa tecnologia, con l’eccezione dell’Unione Europea, dove vige il divieto degli OGM per uso umano (ovviamente, non per quello animale).

Su scala mondiale, la geografia del cibo è stata fortemente toccata dall’introduzione dei prodotti geneticamente modificati, che però, va registrato, consentono di produrre più cibo a minor costo rispetto alle altre varietà conosciute. Gli impatti negativi sono quelli ormai conosciuti e documentati: sui suoli, sulle persone esposte al glifosato e sulla biodiversità. Ma è quello che il mercato oggi offre, ed essendo così pochi i Paesi che riforniscono il mondo di cereali – Stati Uniti e Canada, Brasile e Argentina, Ucraina, Russia e Australia – non vi sono spazi per altri produttori che non siano di nicchia e lavorino solo per il consumo locale. Se la proposta della presidente del Messico andrà in porto, i maggiori danni economici sarebbero per gli agricoltori messicani, obbligati a coltivare il più costoso mais non transgenico che diventerebbe poco concorrenziale con quello OGM importato dagli USA (contro il quale il Messico non potrebbe far nulla).

L’iniziativa messicana ha insomma un forte valore simbolico, soprattutto perché vorrebbe tutelare le 59 varietà di mais oggi disponibili in Messico, ma l’equilibrio tra la tutela della diversità e il mercato globale è sempre più complesso, e rischia di lasciare sul lastrico coloro che vorrebbe difendere. Si potrebbe concludere che ormai non vi sono alternative alla graduale omologazione dell’agricoltura mondiale alle monovarietà transgeniche… Ma non è esattamente così, perché due miliardi di contadini coltivano ancora con le loro sementi e soprattutto perché l’eliminazione della biodiversità alimentare, alla lunga, potrebbe mettere a rischio la sicurezza alimentare mondiale nel caso della comparsa di parassiti, patologie o altre piaghe oggi non conosciute. Ci vorrebbe una sintesi che garantisca da un lato la produzione di cibo per un’umanità ancora destinata a crescere e, dall’altro, la tutela ambientale e della biodiversità. Al momento, siamo però molto lontani dall’avere trovato una soluzione.

La notizia è di quelle ghiotte per la stampa alla ricerca di notizie “di colore”: alla piccola tribù dei Marúbo, un popolo sperduto dell’Amazzonia, il sistema satellitare Starlink ha concesso il collegamento a Internet e in pochi mesi le abitudini degli indios sono cambiate, in peggio. La fonte è l’autorevole «The New York Times», che ha condotto un’indagine giornalistica come si deve, verificando nomi e fatti e andando sul posto, dunque nell’Amazzonia brasiliana, per parlare con i protagonisti. La riduzione acchiappa-click invece, Internet+indios=pigrizia e caos, è una manna dal cielo per la stampa internazionale che ha ripreso la notizia. Partiamo dai fatti allora. L’iniziativa di portare Internet nella foresta parte da una richiesta di aiuto della tribù Marúbo e di una cittadina statunitense di nome Allyson Reneau che si presenta come consulente spaziale, speaker motivazionale, autrice, pilota, cavallerizza, operatrice umanitaria e madre di 11 figli biologici. Raggiunta la cifra di 15.000 dollari attraverso donazioni, Allyson ha portato nel territorio dei Marúbo 20 antenne Starlink che hanno permesso il collegamento tra i diversi villaggi sparsi a distanza di decine di chilometri. E poi, secondo la stampa, è successo il pandemonio: dopo pochi mesi le ragazze si sono incollate ai telefonini per guardare video su TikTok mentre i maschi prediligono guardare film pornografici, e da allora nessuno lavora più in un luogo dove il cibo bisogna procurarselo da soli.

Sul «New York Times» si racconta che grazie a WhatsApp finalmente i Marubo possono restare in contatto con i parenti che vivono da altre parti e chiedere aiuto in casi di emergenza sanitaria, possono segnalare rapidamente alle autorità eventuali violazioni dei loro territori e i ragazzi hanno modo di seguire lezioni scolastiche a distanza. Ma per tutti la notizia è un’altra: gli indigeni dell’Amazzonia, appena possono, si perdono nei meandri di TikTok come adolescenti. C’è da chiedersi dove stia la novità. Anche in questo caso, infatti, emergono categorie profondamente radicate nella visione colonialista che considera gli indios, specie quelli che vivono nelle foreste, come inferiori o come “bizzarrie” dell’umanità. Se emergesse che gli indios si comportano come tutte le altre persone, i suprematisti (più o meno consapevoli) resterebbero stupiti. Ma il pregiudizio è anche di chi idealizza questi popoli e, parafrasando Rousseau che riteneva l’essere umano buono per natura, recupera lo stereotipo del buon selvaggio corrotto dalla civilizzazione, in questo caso da Internet. In ogni caso, per le tribù di nativi americani non può e non deve esistere una normalità: queste donne e questi uomini non possono essere semplicemente percepiti come persone che, vivendo in condizioni estreme, hanno sviluppato una cultura materiale e immateriale fortemente collegata alla natura nella quale vivono e dalla quale traggono sostentamento. Per molti latifondisti sono occupanti fastidiosi delle foreste, addirittura abusivi, da eliminare per fare crescere l’economia; per altri sono saggi-sciamani che vivono in una dimensione esotica in cui reale e fantastico si fondono, tra ambientalismo primitivo e rituali esoterici e misteriosi.

Dovrebbe essere l’etnologia, dopo aver studiato per decenni questi popoli con precisione entomologica, ad affermare con forza la loro condizione di “normalità”. E chiedere che si smetta di farne oggetto di curiosità e divertimento, come accadeva ai tempi degli “zoo umani” delle esposizioni internazionali in cui venivano esibiti per diletto degli abitanti delle metropoli europee, e come accade oggi quando li si tratta da cavie, esponendoli all’uso di Internet in modo improvviso, senza alcuna formazione. I giovani indios dell’Amazzonia corrono gli stessi rischi di tutti gli altri ragazzi del mondo che vengono catapultati nel mondo virtuale senza preparazione. Ma per gli altri questo è normale. Fa notizia solo nel caso dei ragazzi Marúbo che portano le piume in testa.

Il canale di Panama, che taglia in due il continente americano, nacque da una mutilazione. Quella che strappò la provincia appunto di Panama dalla Colombia, lo Stato al quale apparteneva fino al 1903. Una separazione traumatica, con l’intervento dei marines statunitensi a garanzia del fatto che il nuovo governo “indipendente” concedesse agli imprenditori USA l’incarico di costruire quel canale bi-oceanico che aveva già visto il fallimento dei francesi. Il Canale, ultimato nel 1914 e ufficialmente inaugurato nel 1920, rimase sotto la piena giurisdizione statunitense fino al 1977, quando l’amministrazione Carter acconsentì alla sua restituzione a Panama, posticipando però l’effettivo passaggio di consegne fino al 31 dicembre 1999. Va ricordato che, oltre ad accorciare i tempi per la movimentazione di merci tra Asia ed Europa, quell’infrastruttura era vitale per il collegamento tra i poli industriali delle coste est e ovest degli Stati Uniti.

Ma Panama non è solo il Canale. Qui è nata l’economia offshore, uno spazio virtuale che tuttavia è saldamente ancorato ai confini nazionali dello Stato ospitante, dove registrare imprese e fissare la residenza di persone fisiche che mirano a evadere le tasse nei rispettivi Paesi, o dove spostare capitali di dubbia provenienza. Anche la marina mercantile è stata rivoluzionata dalla possibilità di registrare le navi sotto bandiera panamense, soluzione che ha permesso agli armatori di sottrarsi alle imposte dei Paesi d’origine: non a caso, da oltre mezzo secolo questo è uno degli Stati al mondo con più navi battenti bandiera nazionale, tutte (o quasi) di comodo.

La politica panamense non poteva che risentire pesantemente della circolazione di grandi ricchezze “facili” e delle condizioni di sovranità limitata dello Stato. Ne è derivata una storia di corruzione, locale e globale. Il governo nazionalista del generale Omar Torrijos, che nel 1977 era riuscito a strappare a Carter la restituzione del Canale ai panamensi, è stato una parentesi. Torrijos è morto nel 1981 in uno dei tanti incidenti aerei, odoranti di CIA, ai danni di leader progressisti. Negli anni Ottanta il suo successore, il comandante Manuel Noriega detto “faccia d’ananas”, è diventato un personaggio chiave negli intrighi di un’America centrale dilaniata dai conflitti armati.

Ecco perché Panama illustra perfettamente le contraddizioni, le connivenze pericolose, i doppi giochi e le doppie morali che hanno caratterizzato la globalizzazione dell’economia.  Uno degli ultimi casi di corruzione ai massimi livelli ha coinvolto Ricardo Martinelli, imprenditore panamense di origini italiane che è stato presidente del Paese tra il 2009 e il 2014. Martinelli, già coinvolto in indagini della magistratura italiana su casi di corruzione internazionale, nel febbraio 2024 è stato condannato in via definitiva dalla Corte suprema panamense per riciclaggio di tangenti. La sua via di fuga è stata la concessione di asilo politico da parte del Nicaragua di Daniel Ortega, ormai rifugio per latitanti di ogni tipo.

Il colpo di scena è stata la vittoria elettorale del suo erede designato, José Raúl Mulino, alle presidenziali di domenica 5 maggio. Questo inaspettato ritorno al potere del peggior mondo politico avviene in una fase di importanti cambiamenti per il Paese. Cambiamenti legati soprattutto al rapporto con la Cina. Panama, che soltanto nel 2017 ha chiuso i rapporti con Taiwan, è infatti diventato un forte alleato di Pechino, ricevendo massicci investimenti e scambiando merci per un valore di oltre un miliardo di dollari all’anno. Questa situazione ovviamente non piace agli Stati Uniti, che temono che la Cina possa prima o poi controllare il Canale da dove passa il 5% del traffico commerciale mondiale.

È una partita geopolitica dal peso non indifferente, perché la Cina, che finora in America aveva stretto legami solo con Paesi del Sud del continente, comincia a insinuarsi nel “cortile di casa” centroamericano e caraibico di Washington, prima a Cuba e ora a Panama. La globalizzazione è anche questo, piccoli Paesi senza peso militare né demografico si trovano a controllare passaggi cruciali per il funzionamento del sistema-mondo. Su questi snodi si concentra l’interesse strategico delle potenze che guidano la globalizzazione. E allora può succedere di tutto, ad esempio che una classe politica totalmente corrotta torni al potere, solo perché non ha mai disturbato il vero manovratore.