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Per il Regno Unito, il bilancio del primo mese da Paese extracomunitario è stato nero. Contrariamente a quanto si diceva nel 2015, ai tempi della campagna referendaria che portò al voto favorevole all’uscita dall’UE, è crollato l’export con gli Stati comunitari, -40,7% in media, con punte del -63% nel settore alimentare. Nel frattempo è cresciuto di un misero 1,7% l’export verso altri Paesi, mentre l’import dall’UE è calato del 28,8%. Come facilmente prevedibile, tranne che per i fautori della Brexit, la perdita di una posizione di privilegio garantita dall’appartenenza a un mercato con regole comuni, e senza dazi interni, è difficilmente recuperabile con le aperture ad altri mercati esteri. Soprattutto perché la produzione britannica ha standard molto elevati (fino al 2020 erano quelli dell’Unione) e ciò determina prezzi più alti rispetto ai concorrenti esterni all’UE, statunitensi o asiatici.

Il governo di Boris Johnson minimizza, parlando di circostanza straordinaria, ma il problema resterà. Anche perché Londra e l’UE non hanno voluto discutere sulle barriere non tariffarie, cioè su tutte le normative a garanzia del consumatore e della sicurezza ambientale che permettono o vietano la circolazione di ogni merce estera nel mercato dei 27 Paesi membri. Si tratta di un insieme di regole spesso utilizzato ad arte per bloccare quei prodotti che possano fare concorrenza alle aziende europee, e talvolta ignorato quando si tratta di far fronte ai bisogni del mercato europeo, come l’import di soia ogm come foraggio per il bestiame. Il Regno Unito aveva sottovalutato questi due fattori: da un lato l’avvenuto adattamento della sua produzione ai bisogni, alle regole e ai costi dell’Unione Europea, dall’altro i tempi lunghi che servono per costruire una rete di accordi e di regole condivise con altri Paesi del mondo, e anche con l’UE stessa, ma da Paese extracomunitario. Hanno prevalso, invece, l’arroganza del pensarsi ancora come un impero capace di imporre regole e tempi e, soprattutto, il sognare che da soli sarebbe stato possibile ottenere maggiori vantaggi di quelli garantiti dal mercato comune.

Nel frattempo, il prezzo pagato dai britannici ha raffreddato gli animi sovranisti in Europa, e probabilmente ha permesso che per la prima volta a Bruxelles si sia deciso di sottoscrivere debito comune, come sta accadendo per il programma Next Generation UE.

Con il Regno Unito dentro, di certo l’Unione non avrebbe potuto fare ulteriori passi verso la costituzione di una federazione di Stati; ora, anche senza Londra, non è detto che quei Paesi che ieri usavano lo scetticismo inglese come alibi si dimostrino pronti a fare passi concreti. Eppure, in Europa siamo probabilmente di fronte all’ultima possibilità di intraprendere una fase di progressivo aumento delle competenze e delle responsabilità messe in comune. Sull’occupazione, sulla cittadinanza, sul welfare, sulla difesa, sulla politica estera e sulla fiscalità, è il momento di disegnare strade convergenti. Anche a rischio di perdere altri Stati oppure di ipotizzare, come già si fa, un’Unione “a due cerchi”, con un nucleo di Paesi che intraprendono una strada comune e un altro di Paesi collegati da accordi commerciali. Anche se di Europa non si parla da tempo, il momento è ora. Sarebbe la migliore uscita dalla pandemia. Tra l’altro, dando al mondo un segnale forte sul fatto che la cooperazione “rende” più delle guerre: tanto quelle tra gli eserciti quanto quelle combattute tra le economie.

 

FILE PHOTO: Anti-Brexit protesters hold flags and placards opposite the Houses of Parliament in London, Britain, October 17, 2018. REUTERS/Hannah McKay

La campagna per il rinnovo del Parlamento europeo è stata clamorosamente sottotono. E non solo perché l’afflato europeista dei cittadini è in calo da tempo, ma anche perché la maggioranza che non è ostile all’UE non identifica l’Unione con un’entità che possa risolvere i suoi problemi. La vera crisi dell’Unione Europea, insomma, più che dalle forze sovraniste contrarie al progetto federativo, è testimoniata dal poco entusiasmo dei favorevoli. L’Europa che per la generazione del dopoguerra significò pace e prosperità, e per le generazioni degli anni ’80 e ’90 è stata sinonimo di confini aperti e moneta unica, è diventata una sorta di gabbia nel quale si è quasi condannati a restare perché l’uscita sarebbe peggiore. È un sentimento da un lato sicuramente influenzato dalla Brexit, che ha abbassato l’intensità dei canti delle sirene sui benefici dell’uscita dall’Unione, e dall’altro dalla sensazione ormai diffusa che Bruxelles sia lontana da tutto e da tutti.

Si dà per certo che al centro della costruzione comunitaria ci siano i vincoli e la disciplina di bilancio, mentre pare a tutti impossibile costruire uno stato sociale condiviso a livello europeo e una difesa unificata, definire un salario minimo europeo e approdare all’armonizzazione fiscale. Come sempre, quando parliamo di Europa, dobbiamo fare la tara alla propaganda avversa, che la qualifica per quello che non è: una realtà terza. La costruzione europea, e in ultima istanza tutto ciò che si decide a Bruxelles, è invece frutto della volontà politica degli Stati membri. Nemmeno il Parlamento europeo, l’unico organo democraticamente eletto dell’Unione, ha poteri sufficienti per contrastare ciò che decidono la Commissione europea e il Consiglio europeo, organo composto dai capi di Stato o di governo dei Paesi membri.

Altro punto che impedisce un giudizio sereno sul valore dell’Unione è la quasi completa ignoranza delle sue reali prerogative, e cioè di quali competenze siano state davvero trasferite a Bruxelles e quali siano, invece, ancora esclusivamente sotto la responsabilità degli Stati membri. Nel primo caso troviamo le politiche agricole, i diritti dei consumatori, l’ambiente, la sicurezza alimentare. In questi campi, sui quali ha competenza l’UE, in Europa sono stati raggiunti gli standard più alti al mondo. Ma non solo: i vincoli posti dall’Unione in merito al rispetto dello stato di diritto da parte dei Paesi membri sono oggi l’unica garanzia per i cittadini di diversi Paesi dell’Est, dove progetti autoritari tentano di erodere le conquiste democratiche. Infine, non soltanto in 60 anni non si sono mai registrati conflitti tra Paesi membri, ma grazie all’UE ogni cittadino ha una possibilità in più per difendersi e far valere i suoi diritti, grazie alla Corte europea di giustizia che può ribaltare una sentenza nazionale. E tutto ciò con un costo bassissimo. La tanto vituperata euro-burocrazia costa infatti molto meno delle spese per la gestione degli Stati membri.

Ma cos’è che non va, allora? Non funzionano alcuni meccanismi che, pur nascendo da ragioni storiche, oggi andrebbero superati, come l’unanimità nelle decisioni. Altri meccanismi sono invece poco attuati: per esempio la cooperazione rafforzata, che potrebbe favorire senza strappi la creazione di un’Europa “a due cerchi”. Il primo che si consolida e procede verso la creazione di una vera entità multinazionale, il secondo che resta agganciato al mercato comune in attesa di decidere se accelerare oppure uscirne. In questo senso, l’allargamento dell’UE avvenuto negli ultimi anni ha rappresentato un danno. Bisognava prima definire meglio la natura dell’Unione e approvare la Costituzione, e solo poi procedere a includere nuovi Paesi. Ora però non è tempo di guardare indietro ma di attuare riforme profonde. Sarebbe bene che non fosse il solito asse franco-tedesco a trainare gli altri Stati, ma che si formasse anche un asse del Mediterraneo, nel quale l’Italia potrebbe giocare un ruolo fondamentale.

L’Europa del 2019 vacilla tra dissoluzione e rilancio. Gli elettori manderanno un segnale in questo senso, ma la sopravvivenza dell’Europa come entità politica potrà essere frutto solo di una classe dirigente capace di uno sguardo lungimirante e di uscire da logiche solo nazionali, come accadde nel 1957, quando i padri fondatori firmarono il Trattato di Roma. All?Europa del 2019 manca una nuova utopia, che indichi la direzione, che proponga nuove lotte e nuove conquiste.