Posts contrassegnato dai tag ‘partecipazione’

Il settimanale statunitense Time ha scelto la sua persona dell’anno 2011. Per la prima volta questa persona non ha un volto preciso: è, semplicemente, “The Protester”, il manifestante. Dopo aver eletto nel 2010 l’ideatore di Facebook, Mark Zuckerberg, la rivista ha dunque deciso di dedicare la sua copertina più importante alle folle che sono scese nelle strade e nelle piazze di mezzo mondo, dai Paesi arabi all’Europa, fino agli Stati Uniti in piena crisi economica.

«Sembra il 1989», ha scritto Time, «ma oggi è tutto più spettacolare, più democratico, più globale». Una tesi riduttiva, perché non si tratta soltanto di spettacolarità: la riscoperta della piazza come luogo della politica ha motivazioni profonde e chiama in causa la democrazia rappresentativa. Nel mondo arabo la piazza è stata la valvola di sfogo per cittadini che in passato non si potevano esprimere senza essere repressi. Ora è il ricorso alle urne che riserva nuove sorprese, perché a ottenere chiari vantaggi elettorali non sono quei movimenti laici e democratici che hanno promosso attivamente la caduta dei regimi, ma discutibili forze politiche che potrebbero risultare ancora più repressive di quelle crollate. Sulla sponda Sud del Mediterraneo la distanza tra la grande piazza e le campagne, o le periferie delle città, è ancora molto marcata.

Le piazze statunitensi ed europee esprimono invece una nuova modalità dell’azione diretta dei cittadini, che anche in questo caso non si tradurranno automaticamente in cambiamenti “positivi” al momento del voto. L’avanzata dei repubblicani e del Tea Party negli USA interroga tutti sul significato e sull’efficacia della protesta, e lo stesso fanno in Europa le vittorie elettorali o “di palazzo” delle forze ideologicamente più vicine all’armamentario neoliberale.

Il grande circo mediatico di questi mesi, e la copertina di Time lo conferma, sta provando a far passare l’idea che un movimento possa incidere realmente sugli equilibri politici soltanto perché riesce a bucare il video, o a conquistare visibilità su Twitter.

Le cose non stanno così, e non stavano così nemmeno in passato, ai tempi delle guerriglie in America Latina, dei vari movimenti riformatori dell’Europa post-comunista o dei leader dell’Africa usciti dalle guerre di liberazione. Si trattava quasi sempre di avanguardie (più o meno illuminate) che proponevano vie politiche. E queste vie politiche, alla fine, si sono regolarmente scontrate con la volontà libera o condizionata di elettori disinformati, culturalmente succubi dell’oppressione, impauriti dal cambiamento.

L’abusato concetto del “lavorare dal basso” per riuscire a capovolgere gli equilibri è sempre attuale. Per questo, più che addentrarci nei meandri delle risposte tecniche alla crisi, senz’altro importanti, dovremmo ragionare sul come rivoluzionare una democrazia stanca, spesso malandata, ma che rimane pur sempre la migliore forma di governo possibile.

Non saranno Facebook o You Tube a cambiare le cose finché non si chiarirà che si tratta soltanto di mezzi che non raggiungono, o comunque non spostano, le opinioni della maggioranza delle persone. Quando i movimenti, dopo la sbandata virtuale, torneranno al reale, i compiti in sospeso che troveranno saranno moltissimi. Nel mondo virtuale può bastare un clic per cancellare un debito pubblico, per tutelare il welfare, per rovesciare un regime. Nel mondo reale, il “mi piace” che si traduce in voto e quindi in cambiamento reale arriverà solo dopo un lungo lavoro di condivisione e di partecipazione. Sempre che, nel frattempo, non ci saremo fatti distrarre dai cinguettii della rete.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)