Oltre la democrazia?

Pubblicato: 21 dicembre 2011 in Mondo
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Il settimanale statunitense Time ha scelto la sua persona dell’anno 2011. Per la prima volta questa persona non ha un volto preciso: è, semplicemente, “The Protester”, il manifestante. Dopo aver eletto nel 2010 l’ideatore di Facebook, Mark Zuckerberg, la rivista ha dunque deciso di dedicare la sua copertina più importante alle folle che sono scese nelle strade e nelle piazze di mezzo mondo, dai Paesi arabi all’Europa, fino agli Stati Uniti in piena crisi economica.

«Sembra il 1989», ha scritto Time, «ma oggi è tutto più spettacolare, più democratico, più globale». Una tesi riduttiva, perché non si tratta soltanto di spettacolarità: la riscoperta della piazza come luogo della politica ha motivazioni profonde e chiama in causa la democrazia rappresentativa. Nel mondo arabo la piazza è stata la valvola di sfogo per cittadini che in passato non si potevano esprimere senza essere repressi. Ora è il ricorso alle urne che riserva nuove sorprese, perché a ottenere chiari vantaggi elettorali non sono quei movimenti laici e democratici che hanno promosso attivamente la caduta dei regimi, ma discutibili forze politiche che potrebbero risultare ancora più repressive di quelle crollate. Sulla sponda Sud del Mediterraneo la distanza tra la grande piazza e le campagne, o le periferie delle città, è ancora molto marcata.

Le piazze statunitensi ed europee esprimono invece una nuova modalità dell’azione diretta dei cittadini, che anche in questo caso non si tradurranno automaticamente in cambiamenti “positivi” al momento del voto. L’avanzata dei repubblicani e del Tea Party negli USA interroga tutti sul significato e sull’efficacia della protesta, e lo stesso fanno in Europa le vittorie elettorali o “di palazzo” delle forze ideologicamente più vicine all’armamentario neoliberale.

Il grande circo mediatico di questi mesi, e la copertina di Time lo conferma, sta provando a far passare l’idea che un movimento possa incidere realmente sugli equilibri politici soltanto perché riesce a bucare il video, o a conquistare visibilità su Twitter.

Le cose non stanno così, e non stavano così nemmeno in passato, ai tempi delle guerriglie in America Latina, dei vari movimenti riformatori dell’Europa post-comunista o dei leader dell’Africa usciti dalle guerre di liberazione. Si trattava quasi sempre di avanguardie (più o meno illuminate) che proponevano vie politiche. E queste vie politiche, alla fine, si sono regolarmente scontrate con la volontà libera o condizionata di elettori disinformati, culturalmente succubi dell’oppressione, impauriti dal cambiamento.

L’abusato concetto del “lavorare dal basso” per riuscire a capovolgere gli equilibri è sempre attuale. Per questo, più che addentrarci nei meandri delle risposte tecniche alla crisi, senz’altro importanti, dovremmo ragionare sul come rivoluzionare una democrazia stanca, spesso malandata, ma che rimane pur sempre la migliore forma di governo possibile.

Non saranno Facebook o You Tube a cambiare le cose finché non si chiarirà che si tratta soltanto di mezzi che non raggiungono, o comunque non spostano, le opinioni della maggioranza delle persone. Quando i movimenti, dopo la sbandata virtuale, torneranno al reale, i compiti in sospeso che troveranno saranno moltissimi. Nel mondo virtuale può bastare un clic per cancellare un debito pubblico, per tutelare il welfare, per rovesciare un regime. Nel mondo reale, il “mi piace” che si traduce in voto e quindi in cambiamento reale arriverà solo dopo un lungo lavoro di condivisione e di partecipazione. Sempre che, nel frattempo, non ci saremo fatti distrarre dai cinguettii della rete.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

commenti
  1. Anonimo ha detto:

    Bravo! sempre dritto al centro!
    Michela Ruggiero

  2. Anonimo ha detto:

    Giusto. I movimenti oggi hanno lo strumento della rete in più. Comunicazione, poi c’è la piazza.
    Forse gli indignados possono avere similitudini con quelli dei paesi arabi. Dei vari movimenti occidentali vorrei che non si sottacesse la loro valenza specifica che è quella della forza argomentativa, che è la risposta alla democrazia malata e incapace. Nella “scoperta” del Bene comune” c’è questo percorso di lavoro concreto per il cambiamento.
    Sembra quasi che collettivamente si siano capiti, meglio digeriti, i limiti dei movimenti di protesta e si voglia prendere in mano la situazione.
    Nella tua riflessione, di cui condivido tutto, vorrei che risultasse la bellezza, grandezza di questi movimenti.

    • Alfredo Smoza ha detto:

      E’ vero Silvio, si vorrebbe passare dalla protesta alla proposta, e in parte ci si è riusciti. Ora manca l’annello di congiunzione con la “politica”, cioè con lo strumento chiamato a cambiare le cose in un sistema democratico. In altri paesi è successo, e non soltanto in america Latina. Anche in Islanda, in Europa, il movmento è riuscito a “prendere il potere”. Attraverso le urne, la cosa più difficile. Alfredo

  3. Anonimo ha detto:

    scusa, non sono pratico, l’anonimo è silvio

  4. Luciano P. ha detto:

    Mi soffermo sulla questione del rapporto social media e democrazia.
    La teoria che vuole lo sviluppo della democrazia , della partecipazione e di conseguenza cambiamenti sociali legati allo sviluppo delle nuove forme di comunicazione di cui i movimenti giustamente si appropriano non è nuova.
    Tuttavia non tiene conto di almeno due aspetti : il primo è riferito al gap tra chi può accedere alle nuove tecnologie e chi ne è escluso , il fenomeno del “digital divide” non esiste solo nelle discussioni accademiche. Dunque chi ne è escluso e non riesce a “bucare il video” dovrà rassegnarsi allo status-quo senza prospettiva alcuna di cambiamento ?. Questa situazione si ripercuote anche all’interno di uno stesso Paese. Quanti negli sperduti villaggi del deserto egiziano sapevano cosa stesse accadendo in piazza Tahrir e la reale portata della posta in gioco?

    Per il secondo, scomodo Chomsky e vado a rileggermi una sua intervista quando, a proposito delle ripercussioni di internet sull’attivismo politico, rilevava un possibile risvolto negativo nella “impersonalità e nello smantellamento delle relazioni umane” della persona davanti allo schermo. Il tutto molto funzionale a chi detiene il potere.
    E’ vero quello che dici, con un click si tutela il welfare , dopodiché se non si mettono in campo politiche reali di cambiamento fatte di idee e coinvolgimento, i problemi rimangono tali a quali. Con i ringraziamenti dell’establishment.

    Fatte queste premesse penso si possa comunque dire che l’accesso alle informazioni e alla comunicazione attraverso i social media contribuisce certamente ad innescare nuovi processi partecipativi i cui esempi sono noti, basti pensare qui da noi ai referendum ,in Spagna al movimento degli indignados o in Egitto e Tunisia al ruolo giocato dai blogger nell’organizzare e tenere viva la protesta antiregime ma anche a diffondere una idea di libertà e democrazia. Questo però non solo non è determinante ai fini di nuovi equilibri politici ma nemmeno rispetto a cambiamenti significativi nell’opinione pubblica ( Egitto e Tunisia docet). Ho seguito direttamente per qualche giorno gli indignados a Valencia che facevano sapiente uso di Facebook e dei comunicati stampa e posso affermare che la piazza aveva conquistato visibilità sui media, raccoglieva quotidianamente centinaia di persone di tutte le età,metteva in campo tante idee ma non aveva un progetto politico organico capace di mobilitare altri soggetti, unire forze e coniugare ,come dici tu, la protesta con la proposta, tant’è che alle prime elezioni della Comunidad Valenciana la destra ha stravinto. Destino comune anche ad altre realtà.
    Occorre dunque rimettere al centro la partecipazione diretta unita all’elaborazione progettuale e condivisa per cercare di determinare reali cambiamenti, nella consapevolezza che , ancora Chomsky, “non possiamo farlo mettendo una croce su una scheda e poi tornare a guardare la tv”.

    • Alfredo Somoza ha detto:

      Condivido Luciano e ribadisco la questione della “distanza”. In un mondo, come quello Nord Africano dove l’analfabetismo è un fenomeno di massa nelle campagne, come dici tu probabilmente negli sperduti villaggi nessuno ha saputo molto. Da noi invece non c’è un rapporto costruttivo tra le forze politiche chiamate a governare e “la piazza”. Le responsabilità sono reciproche: da un lato l’arroccamento sull’autoreferenzialità, la conservazione dell’esistente e il peso delle nomenklature, dall’altro l’arroganza del volersi sostituire ai partiti e lo sparare sul mucchio mettendo sempre e comunque tutti nello stesso sacco. Un paese nel quale Travaglio diventa guru della sinistra ha dei grossi problemi. Ma lo stesso si può dire del rapporto tra indignados spagnoli e politica (uguale a 0) o tra gli “occupy Wall Street” e i democratici. Di “politiche” dal basso arrivate a diventare realtà c’è ne sono tante oggi, ma le hanno incassate i movimenti che hanno saputo costruire o “colonizzare” una forza politica diventata ad un certo punto maggioranza dopo avere fatto tutti i passaggi intermedi. E’ successo in Bolivia, in Brasile, in Ecuador, in Islanda. Non è impossibile.

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