Posts contrassegnato dai tag ‘industria bellica’

Esistono attualmente due mondi, quello caotico della politica e quello che va a gonfie vele dell’economia. Viviamo un periodo di transizione, nel quale è venuta meno la grande illusione che la globalizzazione dei mercati degli anni ’90 potesse creare un nuovo ordine mondiale, in sostituzione di quello prima garantito dalla Guerra Fredda. Molti analisti descrivono questa fase come caratterizzata dal caos geopolitico. Un’era in cui le due superpotenze mondiali, USA e Cina, non sono in grado di dare vita a un nuovo bipolarismo in quanto da un lato sono unite da interessi commerciali, dall’altro restano antagoniste sul piano geopolitico. Nel mezzo, diverse potenze regionali scalpitano per ritagliarsi uno spazio maggiore negli assetti futuri. Si spiega così l’attuale multipolarismo armato e confuso: Iran, Russia, Turchia, India sono impegnate a espandere i propri confini, in alcuni casi commerciali e politici, in altri casi, come quello russo, anche geografici. Le due potenze globali non sono in grado di imporre quasi nulla, o perché restie a impegnarsi direttamente in fronti di guerra, ed è il caso degli USA, o perché, alla fine, sono interessate a coltivare un multipolarismo nel quale esercitare un ruolo guida sul piano economico e tecnologico, ed è il caso della Cina.

La conflittualità armata sembra destinata ad aumentare, di fronte all’insipienza di una politica multilaterale ancora ingessata dal sistema dei veti risalente alla Guerra Fredda: il diritto internazionale può essere ignorato, quello umanitario sacrificato sull’altare della conquista o della difesa, il dialogo è scomparso.

Ma c’è un altro mondo che continua a prosperare oltre ogni previsione, ed è quello dell’economia. Le Borse mondiali, dopo un 2023 da record, nel primo trimestre del 2024 hanno distribuito agli azionisti dividendi per ben 339 miliardi di dollari e gli analisti stimano che a fine anno avranno versato 1700 miliardi di dollari ai possessori di azioni, cioè il 3,9% in più dell’anno scorso. I protagonisti di questa impennata dei titoli di Borsa sono stati ad esempio Meta e Alibaba, che per la prima volta hanno versato dividendi, ma anche le banche, comparto che pesa per un quarto dei dividendi pagati, e poi il settore dell’industria bellica. Secondo l’Istituto Internazionale di ricerche sulla Pace di Stoccolma, nel 2023 la spesa per le armi ha raggiunto 2400 miliardi di dollari nel mondo, il 6,8% in più dell’anno precedente, l’aumento più importante dal 2009. I picchi degli acquisti sono in Europa, Medio Oriente e Asia. È noto che in momenti di incertezza internazionale riparte la corsa agli armamenti, ma poche volte come in questi ultimi anni soprattutto perché si ha la sensazione che i conflitti in corso potrebbero allargarsi in qualsiasi momento coinvolgendo l’intera Europa, il Medio Oriente e l’Estremo Oriente, dove la vicenda di Taiwan resta sempre un punto interrogativo.

Sono questi i due mondi che oggi convivono, quello dell’impotenza della politica e quello dei buoni affari. L’ennesima dimostrazione di come fossero velleitarie le pretese di chi teorizzava che il mercato potesse costruire da solo un qualsiasi ordine. Nel frattempo, la politica che finora ha delegato all’economia tenta di riparare i guasti ricorrendo alla strategia, sempre fallimentare, della corsa agli armamenti, per offendere o difendersi. L’agenda delle riforme urgenti sul piano della governance mondiale, dalla costruzione di un nuovo multilateralismo alla lotta ai cambiamenti climatici, deve ancora aspettare. Il punto è che, finché non si troverà il tempo e la voglia di affrontare questa agenda, aumenterà il numero delle persone costrette a soffrire. E qualcuno continuerà ad arricchirsi.

A conflitto ancora in corso, e nonostante l’esito militare sia ancora indecifrabile, già si possono individuare alcuni vincitori certi: sono i big del settore degli idrocarburi non convenzionali (e cioè i produttori di “gas di scisto” statunitensi), i qatarioti che esportano gas naturale liquefatto e gli speculatori della Borsa di Amsterdam, cui si aggiungono i produttori non europei di grano e girasole. Soprattutto, la vera grande vincitrice di questa guerra è l’industria bellica: conflitti come quello russo-ucraino servono sia a testare armi nuove sia a stabilire gerarchie rispetto alla qualità, si fa per dire, dei diversi strumenti di morte. L’industria di droni turchi e iraniani low cost ha trovato un’eccellente vetrina che ne allargherà il mercato, soprattutto nei Paesi senza grandi risorse economiche. Ma la parte del leone va all’industria statunitense che, tramite la NATO, ha rifornito l’Ucraina di una grande varietà di armamenti per un valore di 40 miliardi di dollari: cannoni, missili anti-carro Javelin e anti-aerei Stinger, veicoli, droni e lanciarazzi mobili multipli Himars…

Praticamente sono stati svuotati gli arsenali. Da tempo, guerre convenzionali che prevedessero un ricorso massiccio agli armamenti usati dagli eserciti di terra non venivano nemmeno più ipotizzate. Ora non solo sta partendo la corsa per “rifare le scorte”, ma si ricomincerà anche a investire risorse nello sviluppo di questo tipo di armi. Si calcola che la quota di PIL dedicata alla difesa aumenterà velocemente: per Europa e Stati Uniti, già si ipotizza una crescita delle spese militari compresa tra il 7 e il 9%. Anche in altri Paesi gli eserciti si rafforzano, dall’Australia al Giappone è tutto un rivedere strategie e ampliare arsenali. E così, in breve tempo, le priorità del mondo post-pandemia si sono spostate dalla sanità, e dalla necessità di costruire filiere corte di rifornimenti strategici, al settore delle armi, in un contesto globale che all’improvviso si riscopre a rischio di guerre che possono prevedere addirittura l’uso delle armi nucleari. Nel frattempo il cambiamento climatico può attendere: come sempre, viene considerato un tema rinviabile nella logica dell’agenda globale.

L’aumento della spesa militare è l’ennesima dimostrazione del fallimento del sistema di regole e governance globale, del vuoto della politica che ha creduto per decenni che la sola liberalizzazione dei mercati avrebbe portato a un periodo di stabilità mondiale. Il principio secondo il quale “i Paesi legati da interessi reciproci non si fanno la guerra” è crollato con il conflitto ucraino e ora si teme che in giro per il mondo possano aprirsi altre falle, da gestire con le armi.

Nel corso dell’ultimo G20 Joe Biden, rivolgendosi a Xi Jinping, ha detto che se i loro Paesi collaboreranno potranno fornire una soluzione all’instabilità odierna della globalizzazione. Ma forse è troppo tardi, o meglio, forse quella di Biden è una visione troppo ambiziosa per i tempi attuali. Il bipolarismo che si profila tra USA e Cina, infatti, non è paragonabile all’equilibrio della Guerra Fredda. Le potenze regionali che una volta erano comandate da Washington o da Mosca oggi agiscono di testa propria, senza attenersi ai consigli dei partner internazionali. Non è un mistero che la mossa di Putin non ha mai entusiasmato i cinesi: il punto è che Pechino non è stata in grado di fermarla e nemmeno ora sa come convincere la Russia a uscirne. Eppure, mentre il mondo si trascina appesantito da problemi sempre maggiori, c’è sempre chi ha già vinto. Ieri le case farmaceutiche, oggi l’industria bellica, domani chissà. Nel deserto creato dalla politica non ci sono solo sofferenze: ci sono anche tanti, tanti affari da concludere.  

Da quando esistono gli Stati, le spese belliche non hanno mai avuto un impatto marginale sui bilanci pubblici. Con alti e bassi, con impennate durante i conflitti alternate a scelte coraggiose ma quasi simboliche di riduzione, il costo del dispositivo difensivo e offensivo degli Stati segue un copione più o meno fisso: i Paesi che spendono di più sono quelli che svolgono un ruolo di potenza globale o regionale; in subordine, spendono molto i Paesi di minori pretese che si armano in funzione del contenimento di vicini bellicosi o per difendere territori contesi. È il caso della Grecia, che si è indebitata negli anni per sostenere una folle spesa militare in funzione anti-turca.

Storicamente, a fare la parte del leone sono state le potenze che a partire dal ’500 hanno colonizzato il mondo: la Spagna, la Francia, l’Inghilterra finanziarono costosissime flotte ed eserciti per difendere imperi globali e sostenere politiche aggressive e di conquista. Durante tutto il ’900, dopo la sconfitta di Germania, Italia e Giappone, le uniche due potenze mondiali rimaste, USA e URSS, hanno ingaggiato un braccio di ferro sulla capacità di spesa militare. E proprio su questo terreno ha conquistato la sua grande vittoria l’amministrazione Reagan, che è riuscita a spingersi fin dove non potevano arrivare i rivali di Mosca; al tempo stesso, però, quella scelta strategica ha posto le basi del forte indebitamento pubblico degli Stati Uniti.

La classifica odierna della spesa militare, settore nel quale si spendono annualmente circa 1500 miliardi di dollari tra acquisto di armi e mantenimento degli eserciti, riserva molte sorprese e regala interessanti chiavi di lettura sulla geopolitica dei prossimi anni. Per la prima volta nella Storia i Paesi asiatici hanno superato la spesa militare dell’intera Europa comunitaria. La Cina, con una spesa nel 2013 di 145 miliardi di dollari (e di 132 miliardi quest’anno), spende più di Regno Unito, Francia e Germania messi insieme. Cioè dei tre Paesi che spendono di più nel Vecchio Continente. Altro record è quello dell’Arabia Saudita, che con 60 miliardi di dollari l’anno scorso ha superato le spese di Londra.

In rapporto al PIL, le spese militari dell’Occidente si collocano sotto il 2%: l’Italia per esempio è all’1,2%; fanno eccezione gli Stati Uniti al 4,4, il Regno Unito al 2,4 e la fallita Grecia al 2,2%. Percentuali troppo basse secondo Washington, che ha problemi interni per continuare a sostenere uno sforzo così alto, messo a disposizione anche degli altri membri della NATO: e per questo gli USA esigono che il resto dei Paesi dell’Alleanza atlantica spenda almeno il 2% del proprio PIL per la difesa. Lo spauracchio agitati di recente da Barack Obama è l’evergreen della “guerra al terrore”, con l’aggiunta dell’aumentata spesa militare russa (la terza al mondo) e della situazione di instabilità in Ucraina.

L’amministrazione statunitense, in realtà, vorrebbe liberarsi di parte del fardello della NATO, al cui bilancio contribuisce per il 73%, perché ha un altro timore: la corsa al riarmo di Pechino, soprattutto a livello navale. Il Pacifico, che nei piani di molte potenze che vi si affacciano è destinato a diventare il centro dell’economia mondiale, deve essere protetto anche militarmente.

La corsa al controllo dei mari da parte di Cina e USA, ormai evidente, si combatte anche sul piano delle alleanze economiche, a geometrie variabili, con i Paesi dell’area: in tempi di globalizzazione, infatti, il predominio di una potenza sull’altra poggia in buona parte sul commercio e sul terreno virtuale del business derivato da Internet. Ma questi dati ci raccontano che, quando si arriva al dunque, continuano a contare – eccome! – le cannoniere e i soldatini. Come è sempre stato, come probabilmente sarà anche in futuro.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

armi