Il primo febbraio del 2021, senza fare clamore in un mondo ancora scosso dalla pandemia, in Myanmar i militari rovesciarono il governo e tornarono al potere. Un potere che avevano ufficialmente lasciato nel 2010, ma senza mai allontanarsene molto: per una decina d’anni avevano continuato a condizionare la fragile democrazia birmana, rimasta sempre sotto la “tutela” delle forze armate. I motivi per i quali, all’inizio del 2021, i militari decisero di tornare alla gestione diretta del potere sono diversi, ma quasi tutti riconducibili ad affari illeciti: ora nel campo dell’estrazione mineraria e delle pietre preziose, ora delle cyber-frodi e del traffico di stupefacenti. Un mix di modernità e di ritorno al passato, quando i militari riciclavano i proventi nel settore turistico per coltivare e commercializzare il papavero da oppio.

Il golpe del 2021 fu favorito in modo nemmeno tanto occulto dal più ingombrante tra i vicini del Myanmar, la Cina, all’epoca in procinto di diventare la monopolista di fatto nell’estrazione delle cosiddette “terre rare”. Si tratta di 17 elementi chimici alla base della rivoluzione tecnologica attualmente in corso ma particolarmente rari, cioè difficili da individuare, estrarre e lavorare. Non tutti i Paesi li hanno a disposizione: la produzione mondiale, infatti, è concentrata in Cina (che da sola controlla circa il 62% del mercato), USA (12%), Myanmar e Australia (10% ciascuno). Poi restano le briciole. È evidente che per Pechino arrivare a controllare tre quarti del mercato di questi minerali strategici significa instaurare quasi un monopolio globale e, insieme, raggiungere la perfetta quadratura del cerchio, essendo la Cina anche il primo produttore mondiale di alta elettronica. Ed è esattamente quello che è accaduto dopo il colpo di Stato in Myanmar. Il “debito” che i militari birmani hanno contratto nei confronti di Pechino, infatti, si è tradotto nella concessione del controllo dell’estrazione delle terre rare alla Cina, che non solo iper-sfrutta i giacimenti del Myanmar, ma scarica anche sul Paese vicino il grande impatto ambientale associato all’estrazione.

Oggi, però, non tutto fila liscio tra i militari e la Cina. Nel Nord del Myanmar si è formata un’alleanza tra l’esercito delle forze di opposizione e quello della minoranza cinese, e i “ribelli” stanno conquistando una fetta importante di territorio. Già controllano Chinshwehaw, una città di confine con la Cina vitale per gli scambi commerciali tra i due Paesi. Il silenzio di Pechino sui combattimenti in corso lascia presagire una presa di distanza dal regime birmano[1] , che si può spiegare con due ordini di motivi. Il primo riguarda il fiorire, proprio nel Nord del Paese, di attività di cyber-frodi che hanno colpito soprattutto la Cina; il secondo è il ruolo decisivo che la minoranza di etnia cinese sta assumendo nella resistenza. Per i militari, che hanno represso l’opposizione democratica uccidendo migliaia di persone, la sfida armata si sta facendo insidiosa, e lo sarà ancor più se verrà meno la copertura politica di Pechino. Ciliegina sulla torta è il Rapporto annuale 2023 dell’Office on Drugs and Crime – l’ente “antidroga” – delle Nazioni Unite, nel quale si legge che la produzione di oppio in Myanmar è aumentata del 36%, che le aree di coltivazione si sono ulteriormente estese e che i proventi del traffico ormai equivalgono al 2-4% del PIL nazionale: il Myanmar ha superato l’Afghanistan e detiene il triste primato di essere il primo produttore mondiale di oppio.

I militari birmani hanno quindi confermato tutte le loro peggiori caratteristiche, dal fomentare un nazionalismo farlocco, che ha portato alla tragica espulsione della minoranza rohingya verso il Bangladesh, alla pratica della repressione di massa; dal favorire le truffe informatiche alla vecchia tradizione della produzione di oppio. Il tutto finora è avvenuto nel silenzio grazie alla sponsorizzazione interessata della Cina, che però adesso sta prendendo le distanze. I “Machiavelli” che governano a Pechino hanno fatto i loro conti: se, alla fine, i militari resteranno in piedi, saranno sempre uomini a loro disposizione; se invece prevarrà l’opposizione, nella quale la minoranza cinese ha un ruolo centrale anche dal punto di vista militare, i rapporti con il Myanmar resterebbero comunque buoni. È una politica losca, ma è pur sempre una politica. Il resto del mondo rimane a guardare, anche se qui sono in gioco diversi punti chiave dell’agenda globale.


Il Natale è stata la prima festa di matrice religiosa ad assumere portata davvero globale, prima ancora che finisse la Guerra Fredda. Ciò è accaduto parallelamente al progressivo allontanamento del Natale dal suo significato originario: ricordare la nascita, avvenuta in Medio Oriente, di quel bambino ebreo che i cristiani avrebbero considerato il figlio di Dio. Una ricorrenza destinata a radicarsi soprattutto in Europa e poi a espandersi nel mondo, grazie al colonialismo. Nel senso religioso, il Natale è una festa di preghiera e di speranza: ma in questi termini coinvolge solo una parte dell’umanità. Intesa in senso laico, invece, ormai da tempo la festa coinvolge qualche miliardo di persone in più. Tuttavia, sembra che oggi qualcosa stia cambiando. Rispetto agli anni passati, la “voglia di Natale” dei Paesi del Sud globale, soprattutto di quelli non cristiani, oggi è molto calata. Se celebrare il Natale era uno dei presupposti per fare (e sentirsi) parte di una comunità globale, con aspirazioni, interessi e simboli condivisi, il passaggio di questa festa a evento di secondo piano racconta molto dei mutamenti in corso.

Il successo del Natale, nella sua versione laica e contemporanea, aveva anticipato di qualche decennio il fenomeno della globalizzazione grazie a una coincidenza di valori fondanti: da un lato la retorica dell’uguaglianza universale, dall’altro l’identificazione dell’uguaglianza in un’omologazione dei consumi e degli immaginari. Ma le crepe che si sono aperte nella narrazione globale, le fratture provocate dalla pandemia e dai conflitti in corso e i “distinguo” sempre più numerosi dei Paesi del Sud globale rispetto alle politiche delle vecchie potenze, quelle dove il Natale è tradizione antica, stanno facendo tornare la slitta di Babbo Natale nel suo territorio di origine, l’Occidente. A proposito, c’è da dire che Babbo Natale di cristiano ha ben poco. Celebrarlo come simbolo del Natale per molti credenti è quasi una blasfemia, nonostante all’origine della sua figura ci sia un’antica venerazione per san Nicola (sint Nicolaas per gli olandesi, da cui Santa Claus), vescovo barbuto che, secondo l’agiografia, dispensava doni ai bisognosi. Di Santa Claus e della sua leggenda si impadronì a suo tempo la Coca-Cola, facendone un omone vestito di rosso a scopo meramente pubblicitario. Non a caso, proprio Babbo Natale è diventato il simbolo di una festa comandata dalle multinazionali, quelle che offrono ovunque gli stessi prodotti sfruttando l’universalizzazione del Natale al pari di quella di Halloween o di san Valentino.

Ai tempi però di una nuova Guerra Fredda multipolare, Paesi come Cina, India e Russia scelgono più o meno inconsciamente di tornare alle loro tradizioni. E non fa differenza che siano paesi a tradizione buddista, induista, musulmana o cristiana, perché il Natale mercificato e globalizzato stride anche nei Paesi cristiani impoveriti, colpiti dalle bombe o dai cambiamenti climatici. Ieri festeggiare tutti insieme il Natale, a prescindere dalla collocazione geografica o culturale, era un segno di speranza, di fiducia nella possibilità di raggiungere obiettivi universali. Oggi quegli obiettivi paiono allontanarsi irrimediabilmente e alla fine, nell’epoca del “si salvi chi può”, ognuno si tiene il suo: nazionalismi, sovranismi, integralismi sono tutti nemici dello spirito natalizio così come la storia del Novecento lo ha imposto al mondo. Questo del 2023 sarà così un Natale in scala minore, che interesserà “solo” qualche centinaio di milioni di persone. Per questo, forse, sarà più autentico. Babbo Natale potrebbe essere la prima vittima simbolica della fine del ciclo della globalizzazione, quello degli anni ’90: la sua slitta si è molto alleggerita, porterà doni a qualche miliardo di esseri umani in meno. Se questo sarà un bene o un male lo scopriremo più avanti, per il momento non ci si può esimere, almeno da noi, dall’augurarci che le feste del 2023 portino serenità e soprattutto consiglio a chi, nei prossimi mesi, dovrà decidere il destino del mondo.

Ci sono tutti gli elementi perché diventi uno di quei film che presentano l’America Latina attraverso i suoi stereotipi. Stiamo parlando della vicenda della Guayana Esequiba, un territorio di 160mila chilometri quadrati che costituisce i due terzi della Repubblica Cooperativa della Guyana (l’ex Guyana Britannica). Gli ingredienti della fiction ci sono tutti: oro e foreste inestricabili, petrolio, dittatori e un’ambientazione esotica, un Paese tropicale che pare inventato dalla fantasia di un romanziere. Basti pensare che la Guyana è popolata al 40% da indiani, non nel senso di indios ma di discendenti di abitanti dell’India, che furono portati fin qui dai colonialisti inglesi. L’improvvisa notorietà di un lembo d’Amazzonia che pareva dimenticato da Dio si deve al fatto che, pochi anni fa, vi sono stati scoperti ricchi giacimenti di greggio, stimati in 11 miliardi di barili. Così il presidente venezuelano Nicolás Maduro si è ricordato che la Guayana Esequiba è da tempi lontani contesa tra il suo Paese e la Guyana, e a inizio dicembre ha organizzato un paradossale referendum “non vincolante” in cui ha domandato ai venezuelani se volessero rientrare in possesso di quella regione. È andata a votare circa la metà degli aventi diritto e con il 95% ha vinto il “sì” al passaggio della Guayana Esequiba a Caracas.

Subito Maduro ha chiesto alle compagnie energetiche venezuelane di entrare nella regione e di avviare estrazioni petrolifere, come se il referendum bastasse a rendere quel territorio davvero “suo”. Il blitz venezuelano ha fatto saltare in aria il lavoro della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, che dal 2018, su richiesta della Guyana, stava esaminando il caso dell’appartenenza della Guayana Esequiba. La vicenda risale al periodo coloniale. La Repubblica Cooperativa della Guyana afferma la legittimità dell’attuale confine, ratificato da un tribunale arbitrale nel 1899. Il Venezuela nega la validità di quella sentenza e pretende il ritorno al più antico confine tra i possedimenti coloniali spagnoli (nei quali rientravano sia il Venezuela sia la Guayana Esequiba) e quelli olandesi, divenuti poi in larga parte britannici. Si tratta di una lite per la sovranità su un territorio che, in realtà, fu usurpato sia dalla Spagna sia dai Paesi Bassi e dal Regno Unito ai legittimi proprietari, gli indios che ancora vivono nelle foreste. Ma questo conta poco: tutti i diritti territoriali dei Paesi americani, dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco, discendono dal diritto di occupazione che le potenze coloniali si auto-attribuirono a discapito di chi abitava quelle terre da millenni. Come facilmente prevedibile, anche questa strana “guerra di Macondo” è subito diventata una tessera nel mosaico delle tensioni geopolitiche globali. Maduro è sostenuto dalla Russia, la Guyana dagli Stati Uniti, in quello che pare un sequel della Guerra Fredda; il Brasile, che confina con entrambi i contendenti, sta tentando una mediazione pacifica, ma nel frattempo muove le sue truppe verso la regione.

Guardando il mondo da questi luoghi, è difficile pensare che la transizione energetica e il superamento delle fonti fossili avverranno in tempi rapidi. Anzi. Il petrolio rimane al centro di tensioni che possono sfociare in conflitti aperti, anche quando di mezzo c’è un Paese come il Venezuela, gigante del greggio che non riesce a sfruttare nemmeno il 50% del proprio potenziale per mancanza di investimenti e corruzione generalizzata. L’interesse degli Stati Uniti è ovvio, la Guyana ripagherà il sostegno di Washington rilasciando licenze estrattive alle compagnie statunitensi. Altrettanto evidente è la ragione del sostegno russo alla bizzarra mossa di Maduro: Mosca vuole aprire nuovi fronti caldi affinché gli Stati Uniti abbassino la guardia in Ucraina. È tutto scontato, alla luce del sole, ma non per questo meno pericoloso: finora il continente americano era rimasto fuori dalla mappa dei conflitti bellici, mentre ora la contesa per la  Guayana  Esequiba potrebbe cambiare la situazione. Se solo Maduro rileggesse la storia dei militari argentini, quelli che nel 1982 tentarono di riprendersi le Malvinas, sarebbe più cauto, perché il nazionalismo come salvagente di un regime che sta affondando è un’arma a doppio taglio. Accende sì entusiasmi immediati, ma poi il popolo si può rivoltare, quando diventa chiaro che l’irredentismo era solo un diversivo utile a far dimenticare questioni ben più gravi.

In un mondo disarticolato, qualsiasi politica che richieda uno sforzo multilaterale naufraga. È quello che sta accadendo anche a Dubai, emirato cui è stata assegnata l’organizzazione della COP28: la Conferenza delle Parti di fine 2023 deve fare i conti con i progressi nulli, dopo l’Accordo di Parigi del 2015, di un mondo nel quale sugli interessi generali prevalgono gli interessi particolari, che non trovano contrappesi nella politica. Un mondo nel quale, per giunta, i conflitti d’interesse contaminano in profondità la vita pubblica, a partire dalla posizione particolare dello Stato ospite dell’evento: gli Emirati Arabi Uniti, cassaforte dei profitti ottenuti con la vendita del gas e del petrolio del Golfo. Ma non è questo l’unico fronte dove si tocca con mano l’attuale fase improntata al “si salvi chi può” e alla difesa degli interessi di parte. Le guerre in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza si avvitano su loro stesse, in una totale mancanza di idee, proposte e atti autorevoli che antepongano una risoluzione negoziata al ricorso alle armi. E non solo: l’accordo sul nucleare con l’Iran è saltato, l’impunità del dittatore Kim Jong-un è ormai conclamata e la Corea del Nord continua a lanciare missili, per ora disarmati, sulle teste dei vicini, i golpe in Africa e Asia si moltiplicano sostenuti da potenze “amiche”, e le disuguaglianze anziché diminuire aumentano.

Insomma, il mondo alla fine del 2023 non offre un bel panorama. Forse, la cosa più grave è che è andata persa la speranza, in passato motore di grandi slanci ideali e pratici. Si affievolisce l’idea stessa di una pace raggiungibile, della lotta alla povertà, della giustizia e della salvaguarda ambientale. Più che le idee, oggi ci restano i ricordi: l’agenda mondiale è tornata tristemente cupa. Alla politica è subentrata la rincorsa alle emergenze, che sono la drammatica conseguenza proprio della mancanza di politica, cioè della capacità di prevedere e di adoperarsi per tempo in modo da evitare che le situazioni si facciano emergenziali. Parliamo di emergenza climatica perché 30 anni fa, quando già la tendenza era chiara, non l’abbiamo aggredita con politiche lungimiranti; di emergenza bellica, perché si sono abbandonati i tavoli negoziali e accumulate le armi; di emergenza povertà e migrazione, temi discussi dagli organismi internazionali senza autentica volontà di risolverli già alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Il tema che al suo interno contiene tutti gli altri, soprattutto se ci proiettiamo verso il futuro, è la sfida del clima, che è all’origine di conflitti, povertà e migrazioni, drammi economici e umani. È questo il vero banco di prova per la rinascita del multilateralismo, come ha sottolineato papa Francesco nel suo discorso alla COP28: come tante volte si è detto, nessun Paese da solo può risolvere il problema e il dramma è che si continua a pensare che ci sia ancora tempo, che ci siano altre emergenze più urgenti. Per ora, a Dubai il dibattito sta portando soltanto alla nascita del tanto richiesto fondo di compensazione sui danni provocati dal cambiamento climatico nei Paesi più poveri. Se questa sarà l’unica novità, il vertice sarà stato un fallimento e il seguito si complicherà molto. Se l’unica cosa sulla quale si troverà un accordo sarà agire sulle conseguenze nei Paesi più poveri e non sulle cause, sarebbe un tradimento rispetto a quanto deciso nel 2015 a Parigi. Ma c’era da aspettarselo: viviamo in un mondo assetato di energia, da qualsiasi fonte provenga, dove si finge di volere la transizione energetica acquistando un bel po’ di batterie al litio e di pannelli fotovoltaici made in China che sono stati prodotti con elettricità ricavata dal carbone. Sono le contraddizioni in cui si cade quando si pretende di tutelare gli interessi collettivi senza intaccare quelli privati. Dalla crisi nella quale ci stiamo infilando si può uscire soltanto con misure radicali: ma purtroppo sappiamo che questo accade soltanto quando si è, letteralmente, con l’acqua alla gola.

Saranno mesi molto difficili per gli argentini. Lo shock economico annunciato dal nuovo presidente, Javier Milei, mira a ridurre la spesa pubblica di un importo equivalente al 5% del PIL, ma l’obiettivo a lungo termine è raggiungere il 18% del PIL argentino, una cifra vicina agli 80 miliardi di dollari. In Argentina, contrariamente alle comuni convinzioni, la spesa pubblica totale equivale al 36% del PIL, rispetto a una media europea del 51%. Il problema risiede altrove, ovvero che la base imponibile è molto limitata perché una grande massa di lavoratori e attività economiche operano nel settore informale e, soprattutto, perché il paese è gravato da un enorme debito pubblico, che ha raggiunto i 400 miliardi di dollari nel 2023, il 90% del PIL. Si prevede che l’aggiustamento radicale della spesa pubblica, insieme alla privatizzazione di imprese statali in perdita, porterà il bilancio pubblico a pareggio entro il 2024, ovviamente secondo Milei. Ciò dovrebbe essere ottenuto superando prima un picco di inflazione previsto al 240% nel 2024, rispetto al 180% nel 2023. La liberalizzazione del dollaro, la fine del mercato parallelo, prezzi al consumatore non regolamentati e servizi pubblici pagati al costo reale senza sovvenzioni sono le parole d’ordine, ma dovranno fare i conti con una popolazione impoverita. L’amministrazione uscente di Alberto Fernández ha ricevuto un paese nel 2019 con il 35% della popolazione in povertà e lo consegna con il 40%, compresi gli estremamente poveri, per un totale di 12 milioni di argentini. Questo è uno dei fallimenti più spettacolari del movimento peronista, che, specialmente sotto la guida della coppia Kirchner, aveva adottato una retorica “progressista” dopo essere stato corporativista, neo-fascista e neoliberista in passato.

Dopo il terribile default del 2001, risultato della lunga onda di politiche monetarie degli anni ’90 con il peronista Menem, l’Argentina ha vissuto un periodo di crescita vertiginosa negli anni 2000. È riuscita a risolvere il problema del debito e ha genuinamente aiutato coloro che sono stati colpiti dal default. Tuttavia, l’eterna tentazione populista, specialmente dopo la morte di Néstor Kirchner nel 2010, insieme ai macroscopici errori economici della vedova, Cristina Fernández, è riuscita a creare ancora più poveri, mantenendo un sistema assistenzialista senza speranze, finanziato con il deficit pubblico e la stampa di moneta senza valore, oltre alla distribuzione illimitata di posizioni di potere nello stato e nelle imprese pubbliche, in mezzo a accuse di corruzione fino ai livelli più alti. L’intervallo del governo Macri, tra il 2015 e il 2019, ha solo aggiunto un nuovo gigantesco debito nei confronti del FMI senza cambiare né l’orientamento economico né la macchina assistenzialista che si nutre della povertà. La fase terminale del declino è stato il governo di Alberto Fernández, un avvocato peronista che ha insultato Cristina Kirchner per anni e poi si è alleato con lei nelle elezioni del 2019. Un governo che ha peggiorato le tendenze economiche suicide dei precedenti governi: controlli dei cambi, dollaro parallelo, restrizioni all’importazione, politiche dirigiste a caso e soprattutto spesa pubblica incontrollata senza freni né controlli. Il voto di novembre 2023, che è stata la più grande sconfitta per il peronismo, è stata solo parzialmente una vittoria per Javier Milei; ha pesato di più il voto contro i responsabili del declino degli ultimi 20 anni. E Milei, essendo un outsider, è riuscito a catalizzare il malcontento lasciando fuori dalla lizza il centrodestra storico guidato da Patricia Bullrich, poi recuperato nella composizione del suo gabinetto. Il presidente Milei non ha ideologie politiche ma solo economiche. Nel suo governo ci saranno fedelissimi dalla prima ora, figure chiave della coalizione di centrodestra arrivata terza e settori del peronismo anti-Kirchnerista, oltre a rappresentanti del mondo delle grandi imprese nazionali e multinazionali. Un governo di destra, ma di coalizione, unito nel desiderio di chiudere per sempre l’esperienza kirchnerista. Il punto è che l'”istinto animale” di Milei, anti-establishment e caotico, noto per fare l’economista pazzo in televisione, potrebbe giocare un brutto scherzo alla coalizione se davvero intende mantenere le sue promesse con gli elettori. Per ora prevale la moderazione, semplicemente perché il partito di Milei ha 7 su 72 senatori e 38 su 257 deputati. Senza i voti in parlamento dei deputati e senatori di Macri e dei peronisti anti-K, non si governa.

Per ora, le misure annunciate da Milei assomigliano molto all’esperienza del peronista Menem, che vinse le elezioni nel 1989 in mezzo all’iperinflazione. Grazie alla politica di parità tra il dollaro e il peso e alla privatizzazione delle imprese statali, Menem fornì al paese una stabilità artificiale che collassò con il default nel 2001. Molti elementi del governo di Milei provengono da quell’esperienza, ma il mondo non è più quello degli anni ’90, e ancor meno l’Argentina. In quel momento, il paese sudamericano aveva una percentuale di povertà in linea con i paesi del Mediterraneo europeo e, soprattutto, un grande patrimonio pubblico da vendere o meglio da svendere. Le carte vincenti del nuovo governo potrebbero arrivare dal gigantesco giacimento di gas naturale di Vaca Muerta in Patagonia e dallo sfruttamento del litio nell’estremo nord, oltre alle tradizionali esportazioni di prodotti agricoli. La domanda è se riuscirà a superare le inevitabili scosse politiche e sociali di un piano di aggiustamento così radicale come annunciato. Un aggiustamento, va detto, che qualsiasi candidato vincente avrebbe dovuto affrontare, anche il peronista Mazza. La questione è il tempismo e la sostenibilità politica. Due fattori che gettano seri dubbi sul futuro di Milei, ma se riesce a superare il primo anno, affrontare con successo l’inflazione e mettere in ordine le finanze dello Stato senza aumentare i tassi di povertà, potrebbe avere un futuro politico oltre il suo attuale mandato quadriennale.

In questa analisi ho intenzionalmente tralasciato il tema dei diritti umani e della Memoria, che questo governo metterà in discussione, avendo addirittura negazionisti tra le sue file su quanto accaduto negli anni ’70 in Argentina. Ci saranno sicuramente tentativi di rivendicare una cosiddetta “memoria condivisa”, evidenziando la figura delle vittime innocenti degli attacchi compiuti dei gruppi di lotta armata. Tuttavia, questi temi non hanno minimamente influenzato il dibattito pre-elettorale e non sono previste nell’agenda del nuovo governo misure particolari che li riguardino. Tutto si giocherà sul rapporto tra economia, Stato e società. Ed è su quel campo che si misurerà il successo o la sconfitta di una figura che, in soli 5 anni, grazie alla televisione e ai social media, è riuscita a trovarsi a dirigere un paese del G20.

It will be very difficult months for the Argentinians. The economic shock announced by the new president, Javier Milei, aims to reduce public spending by an amount equivalent to 5% of GDP, but the long-term goal is to reach 18% of the Argentine GDP, a staggering 80 billion dollars. In Argentina, contrary to common beliefs, the total public spending equals 36% of GDP, compared to a European average of 51%. The issue lies elsewhere, namely that the tax base is very limited because a large mass of workers and activities operate in the informal sector, and above all, the country is burdened with a huge public debt, which reached 400 billion dollars in 2023, 90% of GDP. The radical adjustment of public spending, along with the privatization of loss-making state enterprises, is expected to bring the public budget to balance by 2024, according to Milei. This is to be achieved first by overcoming an inflation spike expected to reach 240% in 2024, compared to 180% in 2023. Liberalizing the dollar, ending the parallel market, uncontrolled consumer prices, and public services paid at the real cost without subsidies are the watchwords, but they will have to contend with an impoverished population. The outgoing administration of Alberto Fernandez received a country in 2019 with 35% of the population in poverty and hands it over with 40% in poverty, including the extremely poor, totaling 12 million Argentinians. This is one of the most spectacular failures of the Peronist movement, which, especially under the leadership of the Kirchner couple, had adopted a “progressive” rhetoric after having been corporatist, neo-fascist, and neoliberal in the past.

After the terrible default of 2001, a result of the long wave of monetary policies in the 90s with the Peronist Menem, Argentina experienced a period of vertiginous growth in the 2000s. It managed to solve the debt problem and genuinely helped those affected by the default. However, the eternal populist temptation, especially after the death of Nestor Kirchner in 2010, along with the glaring economic mistakes of his widow, Cristina Fernandez, succeeded in creating even more poor people while maintaining a hopeless welfare system, financed by public deficit and worthless money printing. Add to this the unlimited distribution of positions of power in the state and public enterprises, amid corruption allegations at the highest levels. The interval of the Macri government, between 2015 and 2019, only added a new gigantic debt to the IMF without changing either the economic orientation or the welfare machine that feeds on poverty. The terminal phase of the decline was the government of Alberto Fernandez, a Peronist lawyer who insulted Cristina Kirchner for years and then joined forces with her in the 2019 elections. A government that worsened the suicidal economic trends of Cristina Kirchner’s previous governments: exchange controls, parallel dollar, import restrictions, random dirigiste policies, and above all, uncontrolled public spending without brakes or controls. The vote in November 2023, which was the biggest defeat for Peronism, was only partially a victory for Javier Milei; it weighed more on the vote against the managers of the decline of the last 20 years. And Milei, being an outsider, managed to catalyze discontent, sidelining the historical center-right led by Patricia Bullrich, later included in his cabinet composition. President Milei has no political ideologies but only economic ones. In his government, there will be loyalists from the beginning, key figures from the third-placed center-right coalition, and sectors of anti-Kirchnerist Peronism, as well as representatives of the world of national and multinational big businesses. A right-wing but coalition government, united in wanting to close the Kirchnerist experience forever. The point is that Milei’s “animal instinct,” anti-establishment, and anarchic, known for being the crazy economist on television, could play a nasty trick on the coalition if he truly intends to keep his promises to the electorate. For now, moderation prevails, simply because Milei’s party has 7 out of 72 senators and 38 out of 257 deputies. Without the votes in parliament of Macri’s deputies and anti-Kirchnerist Peronists, governance is impossible.

For now, the measures announced by Milei closely resemble the experience of the Peronist Menem, who won the elections in 1989 amid hyperinflation. Thanks to the policy of parity between the dollar and the peso and the privatization of state enterprises, Menem provided the country with artificial stability that collapsed with the default in 2001. Many elements of Milei’s government come from that experience, but the world is no longer the one of the 90s, and much less Argentina. At that time, Argentina had a poverty rate in line with countries in the European Mediterranean and, above all, a large public heritage to sell or undersell. The trump cards of the new government could be the start of production of the gigantic natural gas field in Vaca Muerta in Patagonia and the exploitation of lithium in the far north, in addition to traditional exports of agricultural products. The question is whether it will be able to overcome the inevitable political and social upheavals of such a radical adjustment as announced. An adjustment, let it be clear, that any winning candidate would have had to face, even the Peronist Mazza. The issue is the timing and political sustainability. Two factors that cast serious doubts on Milei’s future, but if he manages to overcome the first year, successfully tackle inflation, and put the state’s finances in order without increasing poverty rates, he might have a political future beyond his current 4-year term.

In this analysis, I intentionally left out the topic of human rights and Memory, which this government will challenge, having even denialists among its ranks regarding what happened in the 1970s in Argentina. There will certainly be attempts to reclaim a so-called “shared memory,” highlighting the figure of innocent victims of attacks by leftist armed forces. However, these issues did not influence the pre-election debate and are not expected to be part of the agenda of the new government with particular measures regarding them. Everything will be played out on the relationship between the economy, the state, and society. And it is on that field that the success or failure of a figure who, in just 5 years, thanks to television and social media, managed to rise to lead a G20 country, will be measured.

Serán meses muy difíciles para los argentinos. El shock económico anunciado por el nuevo presidente, Javier Milei, tiene como objetivo reducir el gasto público en un monto equivalente al 5% del PIB, pero el objetivo a largo plazo es alcanzar el 18% del PIB argentino, una cifra asombrosa de 80 mil millones de dólares. En Argentina, contrario a creencias comunes, el gasto público total equivale al 36% del PIB, en comparación con un promedio europeo del 51%. El problema radica en otra parte, a saber, que la base impositiva es muy limitada porque una gran masa de trabajadores y actividades operan en el sector informal y, sobre todo, porque el país está cargado con una enorme deuda pública, que alcanzó los 400 mil millones de dólares en 2023, el 90% del PIB. Se espera que el ajuste radical del gasto público, junto con la privatización de empresas estatales con pérdidas, equilibre el presupuesto público para 2024, según Milei. Esto se lograría primero superando un pico de inflación que se espera alcance el 240% en 2024, en comparación con el 180% en 2023. La liberalización del dólar, el fin del mercado paralelo, precios al consumidor sin control y servicios públicos pagados al costo real sin subsidios son las consignas, pero tendrán que lidiar con una población empobrecida. La administración saliente de Alberto Fernández recibió un país en 2019 con un 35% de la población en situación de pobreza y lo entrega con un 40% en situación de pobreza, incluyendo a los extremadamente pobres, un total de 12 millones de argentinos. Este es uno de los fracasos más espectaculares del movimiento peronista, que, especialmente bajo el liderazgo de la pareja Kirchner, adoptó una retórica “progresista” después de haber sido corporativista, neo-fascista y neoliberal en el pasado.

Después del terrible default de 2001, resultado de la larga ola de políticas monetarias en los años 90 con el peronista Menem, Argentina experimentó un período de crecimiento vertiginoso en la década de 2000. Logró resolver el problema de la deuda y ayudó genuinamente a quienes se vieron afectados por el default. Sin embargo, la eterna tentación populista, especialmente después de la muerte de Néstor Kirchner en 2010, junto con los evidentes errores económicos de su viuda, Cristina Fernández, lograron crear aún más pobres mientras mantenían un sistema de bienestar sin esperanzas, financiado con déficit público e impresión de dinero sin valor. A esto se suma la distribución ilimitada de cargos de poder en el Estado y empresas públicas, en medio de denuncias de corrupción hasta los niveles más altos. El intervalo del gobierno de Macri, entre 2015 y 2019, solo agregó una nueva deuda gigantesca al FMI sin cambiar ni la orientación económica ni la máquina de bienestar que se alimenta de la pobreza. La fase terminal del declive fue el gobierno de Alberto Fernández, un abogado peronista que insultó a Cristina Kirchner durante años y luego se unió a ella en las elecciones de 2019. Un gobierno que empeoró las tendencias económicas suicidas de los gobiernos anteriores de Cristina Kirchner: controles de cambio, dólar paralelo, restricciones a las importaciones, políticas dirigistas al azar y, sobre todo, gasto público descontrolado sin frenos ni controles. El voto en noviembre de 2023, que fue la mayor derrota para el peronismo, fue solo parcialmente una victoria para Javier Milei; pesó más en contra de los gestores del declive de los últimos 20 años. Y Milei, siendo un externo, logró catalizar el descontento, dejando de lado al centro-derecha histórico liderado por Patricia Bullrich, luego incluido en la composición de su gabinete. El presidente Milei no tiene ideologías políticas sino solo económicas. En su gobierno habrá leales desde el principio, figuras clave de la coalición de centro-derecha que quedó en tercer lugar y sectores del peronismo anti-Kirchnerista, además de representantes del mundo de las grandes empresas nacionales y multinacionales. Un gobierno de derecha pero de coalición, unido en el deseo de cerrar para siempre la experiencia kirchnerista. El punto es que el “instinto animal” de Milei, antiestablishment y anárquico, conocido por ser el economista loco en la televisión, podría jugar una mala pasada a la coalición si realmente pretende cumplir sus promesas con el electorado. Por ahora, prevalece la moderación, simplemente porque el partido de Milei tiene 7 de 72 senadores y 38 de 257 diputados. Sin los votos en el parlamento de los diputados y senadores de Macri y los peronistas anti-Kirchneristas, la gobernabilidad es imposible.

Por ahora, las medidas anunciadas por Milei se asemejan mucho a la experiencia del peronista Menem, que ganó las elecciones en 1989 en medio de la hiperinflación. Gracias a la política de paridad entre el dólar y el peso y la privatización de empresas estatales, Menem proporcionó al país una estabilidad artificial que colapsó con el default en 2001. Muchos elementos del gobierno de Milei provienen de esa experiencia, pero el mundo ya no es el de los años 90, y mucho menos Argentina. En ese momento, Argentina tenía una tasa de pobreza en línea con los países del Mediterráneo europeo y, sobre todo, un gran patrimonio público para vender o malvender. Las cartas ganadoras del nuevo gobierno podrían ser el inicio de la producción del gigantesco yacimiento de gas natural en Vaca Muerta en la Patagonia y la explotación de litio en el extremo norte, además de las exportaciones tradicionales de productos agrícolas. La pregunta es si podrá superar las inevitables convulsiones políticas y sociales de un ajuste tan radical como el anunciado. Un ajuste, que quede claro, que cualquier candidato ganador habría tenido que enfrentar, incluso el peronista Mazza. La cuestión son los tiempos y la sostenibilidad política. Dos factores que generan serias dudas sobre el futuro de Milei, pero si logra superar el primer año, abordar con éxito la inflación y poner en orden las finanzas del Estado sin aumentar las tasas de pobreza, podría tener un futuro político más allá de su actual mandato de 4 años.

En este análisis, dejé intencionalmente fuera el tema de los derechos humanos y la Memoria, que este gobierno desafiará, teniendo incluso negacionistas entre sus filas sobre lo que ocurrió en la década de 1970 en Argentina. Seguramente habrá intentos de reclamar una “memoria compartida”, destacando la figura de las víctimas inocentes de los ataques de las fuerzas armadas de izquierda. Sin embargo, estos temas no influyeron mínimamente en el debate previo a las elecciones y no se espera que formen parte de la agenda del nuevo gobierno con medidas particulares al respecto. Todo se jugará en la relación entre la economía, el Estado y la sociedad. Y es en ese terreno donde se medirá el éxito o el fracaso de una figura que, en solo 5 años, gracias a la televisión y las redes sociales, logró ascender para liderar un país del G20.

In Olanda, dalle urne è uscito vincitore il PVV di Geert Wilders, un partito presentato dai media internazionali come islamofobo. Wilders ha promesso di “restituire l’Olanda agli olandesi”, come se il Paese fosse stato invaso da una potenza straniera. La centralità attribuita a questo tema, che si inserisce nella logica della cosiddetta sostituzione etnica, racconta però molte altre cose. Le società europee si sono forgiate nei secoli attorno all’idea-forza dello Stato-nazione, nel quale esistono una cultura ufficiale, una religione e un gruppo etnico egemone, vero o falso che sia. Non esiste Paese con un passato coloniale che non consideri queste tre caratteristiche come essenziali e indiscutibili. Dalla Francia repubblicana che già nell’Ottocento “appianò” le diversità interne, alla Germania che fece tragicamente la sua pulizia etnica nel XX secolo. In Spagna, Paese che già ha sperimentato il nazionalismo franchista, ma che rimane un contenitore di diverse culture e nazionalità, oggi forti movimenti di estrema destra vorrebbero eliminare le autonomie e le lingue locali in nome dell’ispanità.

La paura del cosiddetto “pericolo islamico” è un fenomeno più recente, ed è collegata ai flussi migratori (che, per la verità, spesso sono iniziati per volontà degli stessi Paesi ricettori, nel secondo dopoguerra). Secondo gli imprenditori della paura che condizionano l’opinione pubblica, in Europa si starebbe formando una sorta di califfato, ostile alla storia e alla cultura dei Paesi ospitanti, che ambisce a conquistare il potere. In questa teoria si tralasciano molti elementi di realtà, a partire dal fatto che la religione musulmana è al tempo stesso minoritaria e fortemente resiliente: non ha bisogno di alimentarsi con flussi migratori né di diventare egemone per continuare a tramandarsi anche in contesti diversi da quelli d’origine. Soltanto nelle Americhe tra gli immigrati di religione islamica si è verificato un distanziamento culturale rispetto alle origini. In Europa, entrambi i principali modelli di gestione della società moderna post-coloniale, quello multiculturale britannico e quello assimilazionista francese, hanno fallito. Le cause non riguardano la religione. Per comprenderlo basta tornare sull’esempio americano: là esistono ampie possibilità di affermazione sociale per gli immigrati, mentre in Europa non solo i migranti ma anche le “seconde generazioni” sono spesso condannate ai ghetti urbani, ai lavori subalterni, a un’educazione di serie B, alle discriminazioni quotidiane, al fastidio per l’esibizione dei sentimenti e dei simboli religiosi. La “guerra del velo” che la Francia ha intrapreso a più tornate ha finito per produrre effetti contrari rispetto alle intenzioni. Pensata per eliminare le discriminazioni, è diventata invece fonte di discriminazione per chi, ovviamente in modo libero, sceglie un certo tipo di abbigliamento. È il frutto di quella stessa idea di superiorità dei propri valori che accompagnò, e giustificò, il colonialismo. La cultura europea era ritenuta superiore quando si colonizzavano l’Africa, l’Asia o l’Oceania, e oggi nelle nostre metropoli si predica una sola e indiscutibile concezione dei diritti e delle libertà.

I politici come Wilders sono molto abili nel sottolineare l’apparenza per non dovere affrontare la sostanza. Una sostanza che non è fatta di dispute teologiche, ma di cose concrete, come la possibilità di studiare in scuole di buon livello, di avere un lavoro decente, di non essere costretti a inviare, come in Francia, un curriculum vitae “cieco”, cioè senza nome, cognome e foto, per evitare discriminazioni nella ricerca di occupazione. Che poi la rabbia di chi è discriminato e relegato ai margini della società determini un ritorno alla religione, magari nelle sue forme più radicali, è solo una conseguenza, e non la questione centrale. Davanti al calo demografico generalizzato e all’invecchiamento della popolazione, da una parte l’Europa sa perfettamente che, senza ricorrere all’immigrazione, tra 10 o 20 anni non avrà futuro; dall’altra, gli europei stanno esercitando il diritto al voto come una clava. Ma, al di là delle polemiche, è solo una questione di tempo: non è facile, per chi è stato per secoli al centro del mondo, accettare l’idea che per poter mantenere lo status quo occorra chiedere aiuto proprio a quelle popolazioni a lungo denigrate.

“It’s the economy, stupid!” fu lo slogan vincente che Bill Clinton adottò contro Bush senior quando lo sbaragliò alle elezioni presidenziali del 1992: ed è vero che qualsiasi problema diventa secondario quando i conti di un Paese non tornano. È questa la chiave di lettura corretta per spiegare il “fenomeno Milei” in Argentina. I temi che hanno trovato più spazio sulla stampa internazionale – come i diritti umani, le questioni di genere e la difesa della memoria storica, valori che sicuramente non fanno parte della cultura di Milei – nel dibattito interno all’Argentina hanno avuto una rilevanza marginale. Le questioni importanti sono state altre. In primo luogo, la necessità di una soluzione per il problema dell’inflazione, che quest’anno sta toccando il 142% e che negli ultimi tre anni si è mangiata gran parte del reddito delle famiglie. Che la ricetta sia la dollarizzazione dell’economia, come suggerito da Milei, è opinabile: ma la sua è stata l’unica proposta concreta, contrapposta al silenzio del rivale Sergio Massa, ministro dell’Economia in carica e, quindi, tra i primi responsabili del ciclo inflazionistico. L’altra questione chiave è stata la cosiddetta “lotta alla casta”, certamente non originale ma di stretta attualità in un’Argentina che arriva da vent’anni di peronismo kirchnerista. Soprattutto nell’ultimo periodo, gli scandali di corruzione e la spartizione clientelare delle poltrone delle imprese gestite dallo Stato, affidate a persone senza competenze, sono apparsi eccessivi perfino per gli standard argentini: due decenni di potere e di impunità acquisita hanno portato a eccessi ingiustificabili. La situazione risulta aggravata dall’aumento esponenziale della violenza criminale, dai semplici borseggiatori fino ai narcos, favorito da un sistema giudiziario dalle maglie troppo larghe.

La sconfitta di Massa è stata anche una vittoria delle province. Il sistema federale argentino prevede alcune tasse locali, ma le imposte fiscali più importanti, equivalenti alle nostre IVA e IRPEF, sono raccolte dallo Stato centrale, che poi le ridistribuisce sul territorio. Dal 2014 i trasferimenti alle province non amministrate dai peronisti hanno subito costanti tagli a vantaggio dei territori “fedeli”, soprattutto i comuni della periferia di Buenos Aires, storico bastione peronista. Le sovvenzioni per energia e trasporti e gli aiuti sociali sono stati assorbiti quasi tutti dalla provincia di Buenos Aires, mentre le altre venivano emarginate. E così a Córdoba, Santa Fe e Mendoza, le province più importanti dopo quella della capitale, il voto per Milei ha toccato punte del 70%.

Alla base dei populismi di nuova generazione ci sono sempre motivi profondi, che spesso vengono trascurati perché si preferisce raccontarne gli aspetti folkloristici. In America Latina poi, in società ormai spaccate, non si ammettono mai le colpe che portano alla sconfitta, a destra come a sinistra. Il quotidiano “Pagina 12” di Buenos Aires, portavoce del peronismo progressista, il mattino dopo il voto presidenziale ha pubblicato un editoriale spiegando che “il popolo ha sbagliato”. Il problema non è il governo uscente, non è la disastrata economia: è l’elettorato che sbaglia. Un classico di chi, senza mai fare autocritica, prepara la propria parte politica a nuove sconfitte. Ieri Bolsonaro in Brasile, oggi Milei in Argentina, senza dimenticare i candidati “impresentabili” arrivati fino al ballottaggio in Colombia e in Cile: le destre storiche del continente sudamericano diventano marginali di fronte all’emergere dei nuovi tribuni del popolo, in genere ultraconservatori, che riescono a fiutare il malcontento popolare e a tradurlo in proposta politica, giusta o sbagliata che sia. È una capacità che 25 anni fa ebbero i Lula, i Chávez e i Morales, spesso scivolati nel populismo di segno opposto. Oggi occorrono abilità mediatica e la capacità di scuotere le persone perché vadano a votare. Viviamo una nuova era, a cui ancora ci dobbiamo abituare, nella quale chi fa politica deve saper interpretare gli umori, le sofferenze e le aspirazioni della gente non studiando sui trattati di sociologia, ma vivendo tra le persone. E nella quale alla “predica” deve seguire un comportamento personale coerente, perché la politica di oggi è fatta da fedeltà temporanee.  

C’è dappertutto, dalle cime delle montagne alle profondità degli oceani. E anche nell’organismo degli animali, esseri umani inclusi. Sua maestà la plastica ha rivoluzionato il nostro mondo: oggi è il terzo materiale prodotto  dopo acciaio e cemento. La prima materia sintetica nacque in laboratorio subito dopo la metà dell’Ottocento, era un tipo di celluloide; di poco successiva fu l’invenzione della “seta artificiale” derivata dalla cellulosa, il rayon, materiale prodotto industrialmente già alla fine del XIX secolo. Attorno al 2000 sono nate le bioplastiche, elaborate con il mais e altri prodotti naturali. In mezzo c’è stata l’invenzione di PVC e PET, diventati parte essenziale della nostra vita quotidiana: materiali duttili, leggeri, durevoli e soprattutto economici, adatti a mille usi diversi. Ma i problemi creati dalla diffusione capillare delle plastiche stanno proprio nel concetto di “durevole”, oltre che nell’utilizzo delle materie prime necessarie per fabbricarle: soprattutto cellulosa, carbone, gas naturale e tanto petrolio.

Il “boom” della plastica si deduce facilmente dai numeri. Nel 1964 se ne producevano in tutto il mondo 15 milioni di tonnellate; nel 2017 le tonnellate prodotte erano 310 milioni. Secondo i dati del WWF, ogni anno finiscono negli oceani circa 8 milioni di tonnellate di plastiche: si stima che in acqua ve ne siano già più di 150 milioni di tonnellate. Se si confermasse l’attuale tendenza, nel 2025 avremo nei mari una tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesce, mentre tra vent’anni la plastica supererebbe la fauna marina. Nel corso del tempo, la plastica si degrada rilasciando le cosiddette microplastiche, cioè minuscole particelle che vengono ingerite dalla fauna marina e poi anche da noi, quando mangiamo pesce o semplicemente quando beviamo acqua potabile, perché entrano nel ciclo dell’acqua.

La plastica è però anche un materiale democratico, che permette di vendere a basso costo tantissimi prodotti che in molti Paesi, soprattutto per le classi sociali più basse, sono gli unici a portata d’acquisto: dalle ciabattine ai secchi per trasportare l’acqua, dai vestiti ai contenitori del cibo, la plastica è sempre presente nella vita dei più poveri della Terra. Difficilmente se ne potrà fare a meno, ma bisognerebbe regolamentarne l’uso e soprattutto lo smaltimento. È il compito che si è dato il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), che dal 13 al 19 novembre ha organizzato un incontro a Nairobi per cercare di far approvare un trattato globale sull’uso della plastica. È un percorso lento, che ha già avuto due tappe in Uruguay e in Francia, e che si prevede di concludere entro il 2025. La bozza attorno alla quale si sta lavorando si articola su tre punti fondamentali per quanto riguarda la produzione di plastica: fissare un obiettivo di riduzione, sulla scia del Protocollo di Montréal sull’ozono; fissare dei target globali definendo tabelle di marcia per ogni singolo Paese, come nel Trattato di Parigi sul Clima; evitare che siano i singoli Governi a fissare gli obiettivi, perché potenzialmente ricattabili da parte dell’industria del petrolio. Per le compagnie del comparto oil, infatti, il progressivo calo del consumo di idrocarburi fossili nel settore energetico, dovuto all’uso di energie rinnovabili, dovrebbe essere “compensato” anche dall’aumento della fabbricazione di plastiche. È l’ennesimo collegamento tra temi apparentemente lontani che racconta la complessità e soprattutto l’interconnessione dei problemi della Terra. Più energie rinnovabili si usano, più plastica si rischia di fabbricare: questo perché si continua a rimandare il confronto sul tema centrale, quello del nostro modello di sviluppo, impostato ancora sull’utilitarismo. Tutti sappiamo quanto siano utili le plastiche, ma al contempo evitiamo di fare i conti con le ricadute sull’ambiente e sulla salute umana.