Il tema delle migrazioni è oggi al centro dell’agenda mondiale. Le notizie che arrivano da diverse regioni del mondo si concentrano sul respingimento dei migranti, sulla chiusura ai richiedenti asilo, sull’ipotesi di deportare interi popoli. Non si tratta soltanto delle politiche del presidente statunitense Donald Trump, che vede come priorità l’espulsione dei clandestini e la blindatura delle frontiere, ma anche dell’Unione Europea che ha iniziato a percorrere soluzioni finora impensabili: ad esempio, la delocalizzazione dei richiedenti asilo in Paesi terzi. È stata l’Australia l’apripista, nel 2001, con le deportazioni a Nauru, poi il Regno Unito ha progettato una delocalizzazione dei migranti in Ruanda, fino ad arrivare al ben noto campo di detenzione italiano in Albania. Non bastano più i lager in Libia e Turchia, finanziati direttamente o indirettamente dall’UE o dal governo di Roma, che hanno il vantaggio di nascondere da occhi indiscreti soprusi e violenze di ogni tipo e, soprattutto, di non farne ricadere le responsabilità sugli Stati sponsor. Oggi si teorizza apertamente la delocalizzazione anche per risolvere conflitti antichi, come l’idea di Trump di trasferire l’intera popolazione palestinese di Gaza in Giordania ed Egitto per porre fine al conflitto.

Ovviamente, in tutto questo, si parla sempre di immigrati o rifugiati che vivono o hanno chiesto protezione negli Stati Uniti e in Europa. Ma l’80% dei rifugiati che cercano salvezza da conflitti e drammi di ogni sorta vive in Paesi confinanti con quello d’origine in Asia, America Latina e Africa. Evidentemente, si tratta di realtà che non rientrano nella narrazione dell’invasione o della sostituzione etnica. Seguendo questo pensiero illogico, i 4 milioni di rifugiati che vivono in Turchia, il milione e mezzo in Pakistan e in Uganda, i 3 milioni del Sudan non mettono in discussione l’integrità di questi Paesi. Lo farebbero, invece, i 200mila uomini e donne che hanno trovato riparo in Italia, i 230mila degli Stati Uniti, i 400mila della Francia, il milione della Germania. 

La centralità oggi attribuita ai fenomeni migratori è un fenomeno relativamente recente. Mai, nei passati secoli, ci si era interrogati sugli effetti dell’immissione di decine di milioni di immigrati europei nelle Americhe, ad esempio, o sul peso delle migrazioni tra gli Stati europei, per non parlare di quelle interne ad altri continenti. Spesso si sente dire che, in quei casi, gli immigrati portavano un grande patrimonio di risorse professionali e umane, che in buona sostanza quella era un’immigrazione “civilizzatrice”; oppure, che gli immigrati andavano a colonizzare spazi vuoti, o ancora, che erano necessari per lo sviluppo dei Paesi di accoglienza. Tutto questo era in parte vero, ma lo è anche oggi. La differenza è che oggi non si vuole ammettere che i Paesi di accoglienza necessitano di flussi immigratori: migranti per stimolare l’economia, per sopperire al crollo demografico ed equilibrare i sistemi previdenziali, per dare un futuro al Paese. In questa percezione distorta, chi emigrava nell’800 o nella prima parte del ’900 lo faceva legittimamente e sulla base del diritto a cercare migliori condizioni di vita; i migranti attuali, invece, lo fanno per approfittare del welfare altrui e vivere di rendita, oppure per delinquere.

Questa visione è figlia diretta del passato coloniale, strettamente connessa all’idea della superiorità e della supremazia di una civiltà, quando non di una presunta “razza”, su tutte le altre. Non basterà certo una spolverata di politically correct per superarla. Il colonialismo condizionò a lungo la vita di milioni e milioni di persone, non solo imponendo loro uno sfruttamento sistematico, ma anche creando divisioni culturali profonde e legittimando una doppia morale, sempre a favore del più ricco e potente. Oggi, gli ideologi del sovranismo battono sullo stesso tasto: non tutti gli uomini hanno pari dignità, non tutti hanno gli stessi diritti; chi è riuscito ad affermarsi deve tenersi stretto il suo successo, che lo autorizza a chiudere la porta in faccia all’altro… anche quando quest’ultimo gli assomiglia moltissimo: l’aumento del voto latino per i repubblicani negli Stati Uniti ne è la dimostrazione. Se anche chi ha superato la frontiera di notte, una volta sistemato, condivide la narrazione dell’invasione, allora è fatta…  

L’inizio della seconda presidenza di Donald Trump, che coincide con la presidenza di turno brasiliana dei Paesi BRICS, potrebbe segnare un cambiamento nelle dinamiche internazionali rispetto agli ultimi anni. La prassi ormai datata dell’allineamento automatico tra Europa e Stati Uniti potrebbe saltare per divergenze su diversi punti, dalla questione della lotta al cambiamento climatico alle strategie per la risoluzione dei conflitti in corso, e bisogna mettere in conto anche una possibile guerra commerciale a colpo di dazi e un aumento delle tensioni circa il finanziamento della NATO. In questo scenario, gli Stati Uniti sceglieranno uno per uno i loro nuovi alleati strategici, non in virtù dell’appartenenza comune al “vecchio” Occidente ma sulla base dell’allineamento con il nuovo corso della Casa Bianca.

Simultaneamente, la presidenza brasiliana dei BRICS dovrebbe riportare il gruppo su posizioni meno antagonistiche nei confronti del blocco occidentale, caratterizzate dalla ricerca di alleanze trasversali per condurre alcune battaglie su scala globale. Brasile e India, per esempio, puntano a far progredire la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che invece è osteggiata da Cina e Russia, Stati che oggi godono entrambi di diritto di veto; sul clima, la Cina è disponibile a continuare gli sforzi per rispettare l’Accordo di Parigi del 2015 molto più di quanto non lo siano altri membri dei BRICS, e soprattutto intende lavorare per evitare il ritorno ai mercati nazionali chiusi. L’Europa, a meno di cambiamenti radicali nella guida politica dei maggiori Paesi, si troverà spesso più vicina a queste posizioni rispetto alle linee d’azione annunciate da Donald Trump. E lo schema di alleanze globali potrebbe quindi mutare.

Molto dipenderà della conclusione, ormai evidente, della fase militare dell’aggressione russa all’Ucraina che dovrebbe rendere più stabile lo scenario internazionale, almeno sul mercato dell’energia e della produzione agricola. Ma sono diversi i nodi e le contraddizioni che arriveranno al pettine nei prossimi mesi. Il Regno Unito, alleato “naturale” di Washington, con la mossa della Brexit ha assecondato l’aspirazione statunitense a rapportarsi con un’Europa divisa in Stati poco influenti, ma al momento è lontanissimo dall’amministrazione Trump. Tuttavia, nei nuovi equilibri Londra potrebbe essere chiamata a esercitare un ruolo importante su altre aree del mondo, in particolar mondo nel Pacifico. L’Italia, che pensa di ottenere vantaggi dalla vicinanza tra la presidente del Consiglio e il presidente degli Stati Uniti, difficilmente potrà concludere accordi al di fuori di quanto deciderà l’Unione Europea. L’UE, che nemmeno è considerata come interlocutore da Trump, potrebbe concludere invece un accordo globale con la Cina anche su temi sensibili come l’intelligenza artificiale.

Il resto del mondo si adeguerà in ordine sparso a questo nuovo ordine in costruzione. Sfruttando posizione di forza, come la Turchia, ormai Paese-chiave per la stabilizzazione in Medio Oriente, ma anche Israele e l’Arabia Saudita, che sono destinati a tornare a dialogare. Se il governo Trump confermerà o meno la discontinuità finora solo annunciata rispetto al passato è tutto da vedersi: ma sono bastati gli annunci per accelerare processi già in corso, come la maggiore dipendenza del Sudamerica dalla Cina, il progressivo abbandono delle velleità da potenza regionale dell’Iran, la calma cinese rispetto a Taiwan. La superpotenza americana ha votato e, come in tutte le elezioni, gli elettori hanno scelto in base alle priorità nazionali: ma le conseguenze dei cambiamenti di linea politica a Washington coinvolgono anche altri 7 miliardi e mezzo di persone, senza diritto di voto per la scelta dell’inquilino della Casa Bianca.

Non è certo una novità che un Paese rivendichi il diritto a occupare territori non suoi accampando la scusa della “sicurezza”. Senza andare troppo lontano nel tempo, negli ultimi decenni hanno occupato territori in modo permanente Israele nel Golan, la Cina nel Tibet, la Turchia sull’isola di Cipro. Negli ultimi anni, sempre dietro la giustificazione dei motivi di sicurezza o anche della tutela di minoranze etniche, si sono però moltiplicate le azioni belliche che non si sono tradotte in occupazione permanente o per le quali l’esito è ancora incerto: basti pensare agli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, alla Turchia in Siria, alla Russia in Crimea e Ucraina. È una sconfitta della diplomazia, un ritorno alla “politica delle cannoniere”, ai tempi in cui il Regno Unito si arrogava il diritto di stabilire basi navali ovunque lo ritenesse opportuno e gli Stati Uniti occupavano senza troppi problemi isole caraibiche o Paesi del Centroamerica.

Il neopresidente statunitense Donald Trump, anziché rifarsi all’alibi consolidato della sicurezza militare, ha estratto dal cassetto degli attrezzi la motivazione della sicurezza economica: ha minacciato di invadere o annettere altri Paesi perché strategici per i collegamenti marittimi statunitensi, come Panama con il suo canale, oppure per le sue forniture di risorse minerarie, come la Groenlandia, territorio autonomo della Corona danese. Senza dimenticare il consiglio non richiesto dato al Canada di diventare il 51° Stato degli USA. Quello che immagina Trump è un super-Stato di 22 milioni di chilometri quadrati, che sarebbe più vasto della Russia e che occuperebbe tutto il Nordamerica geografico con l’eccezione del Messico, considerato Paese vassallo, ma controllando più a sud il Canale di Panama che collega per via marittima la sponda atlantica con quella pacifica del continente. Siamo sicuramente nel campo della fanta-geopolitica, ma così facendo si legittimano altri appetiti in giro per il mondo, non solo quelli russi ma anche quello cinese su Taiwan. 
In un mondo dove il “doppio standard” a favore degli Stati Uniti – cioè tu non puoi fare ciò che invece è concesso a me – sta passando velocemente di moda, una simile politica da parte di Washington equivarrebbe a un rompete le righe destinato a far esplodere decine e decine di conflitti latenti. Ogni potenza continentale o regionale, come nell’800, potrebbe ridisegnare la geografia politica a partire dai propri interessi nazionali, in una giungla senza legge, anzi, sotto la legge della sola potenza militare.

Questa tendenza, sommata all’aumento esponenziale delle spese militari che si sta registrando in tutto il mondo, non fa certo ben sperare e ci racconta per l’ennesima volta la fine di un “sogno”, quello del mondo non più governato dagli Stati ma dal mercato. Nella retorica degli anni ’90, l’intero pianeta si sarebbe dovuto aprire al libero scambio di capitali e di merci e questo avrebbe garantito la fine dei conflitti, poiché i Paesi sarebbero diventati tutti soci dello stesso grande business. Smaltita la sbornia, anche quegli Stati che davvero sono diventati partner in affari, come gli Stati Uniti e la Cina, stanno tornando indietro e pensano a rafforzare gli arsenali. Che cos’è fallito? Sicuramente era un’illusione pensare che eliminando la politica si sarebbe costruito un nuovo ordine mondiale; l’errore imperdonabile è stato depotenziare le istanze multilaterali, come l’ONU e il WTO, e umiliare il diritto internazionale. Il prezzo da pagare è un mondo sempre più litigioso, dove nessuna potenza da sola riesce a imporre un qualsiasi ordine e, anzi, dove ciascuno tenta di affermarsi tornando a fare ricorso alle armi. È uno scenario che ricorda il naufragio della Società delle Nazioni, nata dopo la Prima guerra mondiale per evitare che si ripetesse un simile massacro, che poi puntualmente arrivò. Dovremo aspettare un altro conflitto di quella portata perché si torni a negoziare anziché a spararsi? Impossibile dirlo, ma è doloroso ammettere che solo le grandi tragedie hanno fatto fare passi avanti alla comunità mondiale.

La seconda presidenza Trump potrebbe infliggere un colpo definitivo alla globalizzazione iniziata negli anni ’90 del secolo scorso. Ma, al suo interno, l’amministrazione che si sta per insediare a Washington sta covando contraddizioni che potrebbero smentire questo pronostico. Per ora, il presidente eletto ha parlato solo di dazi da applicare in modo punitivo praticamente a tutti i principali fornitori degli Stati Uniti. Messico e Canada, i primi due partner economici del gigante americano, sono stati minacciati con dazi del 35% sulle loro merci perché non farebbero abbastanza per contrastare narcotraffico e immigrazione verso gli USA. Accusa ridicola se si pensa al Canada, meno per il Messico. Tuttavia, come ha ricordato la presidente messicana Claudia Sheinbaum, le merci esportate dal suo Paese sono per la maggior parte prodotte da aziende statunitensi che, negli anni, hanno delocalizzato oltreconfine. L’effetto boomerang è quindi garantito. Lo stesso si può dire circa i dazi minacciati contro la Cina, una politica già intrapresa da Trump nella sua prima presidenza. Peccato che, alla fine, con la ritorsione cinese a rimetterci siano stati proprio gli Stati Uniti. Poi c’è l’Europa, che ha una bilancia in attivo negli scambi con gli USA, malgrado l’aumento dell’import di gas liquefatto a stelle e strisce per sostituire le forniture russe. Ma con il Vecchio Continente si pone un’altra questione vitale: riguarda la NATO, che Trump vorrebbe fosse maggiormente finanziata dai Paesi europei.

Sono numerosi, dunque, i fronti che confermano la cultura isolazionista e protezionista del nuovo inquilino della Casa Bianca, una cultura che cozza con le regole che gli stessi Stati Uniti hanno imposto al mondo negli ultimi decenni per favorire la globalizzazione. A questo punto, l’elefante nello studio ovale è rappresentato dagli oligarchi dell’high-tech statunitense, multimiliardari a capo dei maggiori gruppi economici mondiali, a partire dal fido Elon Musk. Il mondo nel quale questi imprenditori hanno potuto costruire la loro posizione dominante, arrivando in alcuni casi a stabilire veri e propri monopoli, è l’opposto di quello chiuso e isolazionista che sogna Trump.

Bezos, Zuckerberg, Musk hanno potuto crescere in mancanza di regolamentazione grazie alle caratteristiche del mondo modellato da Washington alla fine della guerra fredda. Nessun problema per spostare capitali, nessun problema per eludere il fisco locale, nessun dazio o barriera a penalizzare i loro prodotti. Come potrebbero mantenere il loro primato in un mondo che, inevitabilmente, risponderebbe alle chiusure statunitensi con altre chiusure? Quante automobili venderebbe ancora Musk, quanti contratti per i suoi servizi di internet satellitare potrebbe firmare, quanto tempo ci metterebbero i Paesi colpiti dai dazi di Washington a ostacolare, fiscalmente parlando, le attività di Amazon o di Meta?

Insomma, se Trump pensa di favorire il suo elettorato chiudendo l’economia statunitense, i suoi grandi finanziatori la vedono diversamente. Si potrebbe aggiungere che colpire con dazi l’import cinese andrebbe a svantaggio dei ceti più deboli negli Stati Uniti, che spesso possono permettersi soltanto i beni a basso costo in arrivo da Pechino.

Sono tempi difficili per i populismi di ritorno, che culturalmente vorrebbero tornare all’autarchia e allo statalismo, ma che devono fare i conti con un mondo che è cambiato nel quale le contraddizioni sono immense, a cominciare dalla prevalenza dell’economia sulla politica. La mano invisibile del mercato, per tanti anni presentata come l’unico strumento di regolamentazione dell’economia e della società tutta, non può sostituire la politica e non può avere gli stessi interessi e le stesse priorità; ma gli strumenti finora adoperati dai governanti per recuperare spazio sono risultati goffi, datati e spesso inapplicabili.

Molti analisti avevano decretato che il G20 del 2021 sarebbe entrato nella storia. In quell’occasione, per la prima volta i governanti dei Paesi che producono l’85% del PIL globale decidevano di stabilire un parametro fiscale internazionale da applicare all’industria digitale e a tutte quelle imprese che vendono servizi in un Paese ma pagano altrove le tasse sul profitto. Nasceva la Global Minimum Tax con un’imposizione pari al 15% (gli Stati Uniti avevano chiesto addirittura il 20%), messa a punto dall’OCSE e adottata nel 2022 anche dall’Unione Europea perché considerata giusta, un primo piccolo passo per raggiungere l’equità fiscale. La riforma, nella sua veste definitiva, prevedeva in realtà due “pilastri”. Il primo era stato pensato per i giganti del web, che se hanno ricavi annui superiori a 20 miliardi di euro devono pagare le tasse nella giurisdizione in cui effettuano le vendite per una quota equivalente al 25% dei profitti sopra il margine del 10%. Il secondo pilastro, più noto, era appunto quello che stabiliva che le multinazionali con un fatturato annuo globale di oltre 750 milioni di euro fossero soggette a un’aliquota fiscale minima globale effettiva del 15%, a prescindere dalla giurisdizione fiscale d’appartenenza. Pur trattandosi di una percentuale abbastanza modesta, appariva sempre meglio di niente, anche perché avrebbe reso giustizia alle imprese di medie e piccole dimensioni che non possono dirottare i loro utili nei paradisi fiscali.

A distanza di tre anni, la situazione non appare più così rosea. I Paesi che hanno ratificato l’accordo e che applicano la Minimum Tax sono quelli dell’UE più Regno Unito, Svizzera e Norvegia, Canada, otto Stati asiatici tra cui Giappone e Corea del Sud, tre latinoamericani e altrettanti africani. Non lo hanno implementato, e nemmeno pensano di farlo, Cina e USA, le due potenze globali che generano oltre il 25% degli scambi commerciali mondiali. Dunque gli Stati Uniti di Joe Biden, che avevano chiesto un’aliquota maggiore, non si sono adeguati ed è improbabile che lo faccia la nuova amministrazione Trump.

Le difficoltà emerse nell’applicazione concreta di quanto deciso in sede multilaterale sulla tassazione globale ci riporta drammaticamente al tema chiave, che sempre si evita di commentare: gli Stati adottano due politiche diverse quando si tratta di negoziare e di sottoscrivere accordi internazionali. La prima, di natura strategica e mediatica, al momento della firma di intese e trattati, mira a lasciar intendere che un problema, più o meno sentito dall’opinione pubblica, è stato risolto alla luce di un consenso internazionale; la seconda, di natura pragmatica e amministrativa, si traduce nel ritardare il più possibile la ratifica e l’entrata in vigore degli impegni sottoscritti, allo scopo di tutelare interessi nazionali o di settore. Lo si è visto chiaramente con gli Accordi di Parigi sul clima, lo stiamo vedendo di nuovo con la Minimum Tax e, localmente, con la vicenda dell’accordo tecnico tra Mercosur e UE, raccontato come il punto d’arrivo di 25 anni di negoziati, ma che non è affatto scontato venga ora ratificato dai Paesi comunitari.

Principali responsabili di questa situazione sono sempre le due potenze che oggi hanno l’onore e l’onere di indirizzare la comunità internazionale, anche con il loro esempio. Stati Uniti e Cina perseguono la stessa priorità economica e geopolitica: prevalere sulla potenza rivale in una competizione senza esclusione di colpi, si tratti di sanzioni, dazi o minacce militari. Siamo di fronte a una strana coppia di contendenti, entrambi artefici della globalizzazione e dotati di sistemi produttivi, finanziari e commerciali ormai reciprocamente integrati. Nulla di paragonabile allo schema della Guerra Fredda, nel quale ogni potenza aveva un circuito economico quasi del tutto indipendente dall’altro. Per questo una doppia politica fa comodo a tutti. L’ipocrisia continuerà a regnare a lungo sul piano multilaterale, tra le sorridenti foto di riti scattate quando si annunciano nuovi traguardi collettivi e la fredda realtà dei fatti che emerge quando si va a verificare se quelle promesse siano state effettivamente mantenute.

La caduta della dinastia Assad rimette in discussione l’assetto geopolitico del Medio Oriente, ma l’instabilità mediorientale non è certo una novità. Da decenni la regione è caratterizzata dalla volatilità delle alleanze: dei tempi dei nazionalisti laici panarabi non resta ormai quasi nulla. Proprio la fine del potere degli Assad chiude la storia del Baath, il partito panarabo radicato in Iraq e Siria che avrebbe dovuto modernizzare questi Paesi, perseguendone gli interessi nazionali dopo l’epoca coloniale. In realtà, entrambi i governi del Baath divennero macchine di corruzione e repressione, al servizio della famiglia Assad in Siria e di Saddam Hussein in Iraq. La loro agonia ha trascinato i due Paesi in lunghi conflitti, non solo intestini ma anche con altri Stati, con la partecipazione diretta di potenze mondiali e regionali, e ha favorito l’affermazione dell’“asse sciita” con a capo Teheran. Così viene chiamato il lungo corridoio geografico costruito pezzo su pezzo dall’Iran che, passando attraverso Iraq e Siria, si estende dallo Yemen fino al Libano e al Mediterraneo: una novità per il mondo musulmano dove gli sciiti, anche se maggioranza in due Paesi importanti come Iraq e Iran, sono stati quasi sempre marginali negli equilibri regionali.

L’ultima “acquisizione” dell’Iran era stata l’intestazione della lotta di liberazione palestinese, ottenuta offrendo supporto ad Hamas, emanazione sunnita dei Fratelli Musulmani egiziani, che pure sono teoricamente nemici di Teheran. Ed è stata forse quella mossa politica, potenziata dalla strage del 7 ottobre, che ha spinto Israele non soltanto a prendere il controllo di Gaza, con una rappresaglia che si è trasformata in una delle più grandi carneficine di innocenti degli ultimi decenni, ma anche a intraprendere una serie di azioni volte a scardinare l’asse sciita. Prima colpendo militarmente Hezbollah in Libano, e cioè la lunga mano di Teheran ai confini settentrionali del Paese, poi favorendo la conclusione della guerra civile in Siria, durata quasi 15 anni. L’offensiva lampo condotta dal gruppo salafita Hayat Tahrir al-Sham, già parte della rete di al-Qaeda e fortemente dipendente dalla Turchia, è stata preparata per tempo. In parte sfruttando il ritorno in Libano di molti combattenti di Hezbollah che in precedenza operavano in Siria e il richiamo dei soldati russi spediti al fronte ucraino, in parte intessendo un grande accordo politico per il dopo-Assad. Accordo al quale hanno partecipato Turchia, USA e Arabia Saudita.

Non era mai accaduto, nelle passate rivolte e rivoluzioni mediorientali, che il primo ministro del regime sconfittonon solo non fosse giustiziato, ma addirittura conservasse il proprio ruolo ad interim fino alla nomina del suo successore, come accaduto in Siria a Mohammed Ghazi al-Jalali. Già nei video dell’assalto alla dimora di Assad si può cogliere una netta differenza con altre situazioni analoghe: abiti e suppellettili vengono rimossi quasi con delicatezza, senza nemmeno sporcare il pavimento. Come se tutto fosse stato ben organizzato, compresa le rassicurazioni a cristiani e alauiti sul rispetto delle minoranze. E a una regia attenta fanno pensare anche la copertura aerea statunitense che ha supportato l’offensiva dei ribelli e i blitz di quella israeliana, che prima ha colpito le basi di Hezbollah in Siria e poi i luoghi più intimi e rappresentativi del potere degli Assad, a dimostrarne la vulnerabilità.

Per la Russia e l’Iran è stata una sconfitta senza mezzi termini. Gli interessi di Mosca ora si riducono al mantenimento della base militare di Tartus, per l’Iran invece l’insediamento di un governo ostile in Siria compromette la strategia libanese e, di conseguenza, anti-israeliana. I siriani oggi festeggiano la caduta del regime criminale di Assad, ma il loro futuro è ancora incerto. Joe Biden può mettersi una medaglietta al petto, Israele ottiene una vittoria sull’Iran, la Turchia assume un ruolo ancora più importante in Medio Oriente e nel Mediterraneo. Questo il bilancio di un’offensiva durata solo 12 giorni ma che inciderà a lungo sugli equilibri di tutta la regione.

L’autogolpe tentato dal presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, con motivazioni incomprensibili, si iscrive in una lunga tradizione di tentativi di prevaricazione estrema dell’esecutivo sul legislativo nelle democrazie deboli, ma non solo. In Perù è successo due volte negli ultimi tre decenni, la prima volta, riuscita, con Alberto Fujimori nel 1992, la seconda, fallita, nel 2022 con Pedro Castillo. Tornando più indietro nel tempo, nel 1973 la dittatura militare in Uruguay era iniziata con l’autogolpe del presidente democratico Bordaberry. In tutti questi casi, la minaccia paventata era quella del terrorismo, vero o presunto, sia in versione Sendero Luminoso o Tupamaros, sia in versione nordcoreana. Ma i tentativi di chiudere i conti in modo radicale con il Parlamento si è manifestato anche aizzando la folla perché irrompa nelle aule parlamentari affinché non venga ad esempio confermata l’elezione di un nuovo presidente, come abbiamo visto a Capitol Hill nel 2021 e a Brasilia nel 2023. Sia Donald Trump sia Jair Bolsonaro hanno negato di essere responsabili di cosa avevano fatto i loro sostenitori, anche se le inchieste giudiziarie smentiscono entrambi. La radice di queste frizioni, che possono diventare in taluni casi veri e propri tentativi di colpo di Stato, risiede nella costruzione contemporanea della leadership. Sempre di meno il capo di Stato, nei paesi dove questa viene scelta direttamente dal corpo elettorale, sopporta che un potere legislativo, che magari non controlla, possa ostacolare la sua azione. È la consueta parabola dell’uomo solo al comando, che diventa sempre più tossica per la democrazia. L’ascesa di leadership carismatiche, anche grazie ai social media, crea l’illusione che effettivamente quella persona, da sola, possa governare senza ostacoli. Nella complessa macchina dello Stato e dei rapporti tra i poteri invece questo non è quasi mai vero. Per questo Milei in Argentina non ha eliminato la moneta locale come promesso e Trump non è riuscito a finire il muro che separa il suo paese dal Messico. Avrebbero potuto farlo in un paese come la Russia o l’Iran, dove il regime al potere non deve rendere conti a nessuno e parlamento e giustizia sono sottomessi all’esecutivo. La diffusione della tecnica dell’autogolpe, annunciato o eseguito, è un ulteriore imbarbarimento della vita politica, un gradino in più rispetto alle democrazie illiberali dell’Europa dell’Est. Qui non si tratta soltanto, e già non è poco, di zittire la stampa e le ONG o condizionare il potere giudiziario, ma di tentare il controllo del legislativo con la forza, chiudendolo quando non si adegua ai desiderata del capo. Chi non accetta le regole del gioco non dovrebbe giocare, si potrebbe concludere, ma ovviamente nessuno di questi aspiranti autocrati dichiara le sue intenzioni prima di essere eletto, anche se quando tentano di forzare la mano, usano come alibi l’essere stati legittimati dal popolo.  

Una dopo l’altra, le tradizioni consumistiche create dagli inventori di eventi commerciali sono diventate ricorrenze mondiali. Negli Stati Uniti, la spettacolarizzazione dell’evento commerciale allo scopo di indurre ad aumentare i consumi ha una lunga storia. Si sono perfino cambiati i simboli e la natura stessa di importanti feste tradizionali, per esempio trasformando Babbo Natale in un testimonial della Coca-Cola, oppure facendo dell’antica celebrazione celtica di Halloween il momento clou dell’anno per i produttori di maschere horror e dolciumi. Ma il massimo lo si è raggiunto negli anni ’50 con l’invenzione del cosiddetto Black Friday, ricorrenza puramente commerciale: “cade” il giorno successivo alla Festa del Ringraziamento, quando gli statunitensi dovrebbero ricordare e ringraziare i nativi amerindi che salvarono i padri pellegrini da un inverno altrimenti destinato a cancellarli dal Nuovo Mondo, insegnando loro a coltivare mais e allevare tacchini. È un paradosso della storia, i salvatori non solo sono stati eliminati fisicamente, ma sono anche scomparsi dalla memoria collettiva: quasi nessuno sa che il giorno del Black Friday sarebbe anche il Native American Heritage Day.

Il Black Friday segna ufficialmente l’apertura delle vendite natalizie, con una logica rovesciata rispetto all’Europa: da noi i saldi si fanno alla fine della stagione, negli Stati Uniti all’inizio. Pare che l’aggettivo “nero” che colora questa giornata sia dovuto all’imbottigliamento del traffico che si produsse a Filadelfia in una delle sue prime edizioni. Oggi la sagra del consumo dura più di un fine settimana, si conclude infatti con il Cyber Monday, dedicato al mondo dell’informatica, e ha raggiunto confini globali. Non c’è nessuna particolare affinità culturale, sociale o politica che accomuni i consumatori dei vari Paesi che si lanciano alla ricerca di offerte nei negozi o su internet: è la sublimazione del consumo puro ed effimero, indotto e trasversale a ogni altra categoria.

Idealmente, il Black Friday è anche complementare alle strategie di “invecchiamento precoce” dei prodotti elettronici. Smartphone, computer, tablet sono progettati per non durare più di tanto e, soprattutto, in modo che non sia facile o conveniente ripararli. Se questi (e altri) beni non devono avere una vita lunga, ecco che il Black Friday e il Cyber Monday divengono acceleratori del ricambio. Solo molto recentemente si è cominciato a mettere in discussione la cosiddetta “obsolescenza programmata”, ma ancora senza intaccare un ciclo di consumi sempre più veloce, che non vuole fare i conti né con la limitatezza delle risorse naturali né con i problemi ambientali legati alla produzione e allo smaltimento delle merci. È una corsa antica che ormai ha superato ogni limite, per quanto la retorica aziendale faccia un uso indiscriminato dell’aggettivo “sostenibile”.

Per un weekend, il Black Friday riesce a cancellare i sensi di colpa anche dei consumatori minimamente consapevoli perché, alla fine, la tentazione di fare il classico “affarone” diventa irresistibile.

Per tutte queste ragioni, il Black Friday è la festa consumistica che meglio racconta i nostri tempi. Una volta si era più poveri e si consumava molto meno, ma non c’era solo un’austerità obbligata: c’era anche una scala di valori che rifiutava lo spreco, a partire da quello alimentare, e lo scarto di beni che potevano ancora essere utili. Gli oggetti vivevano a lungo, accompagnavano intere esistenze e spesso si tramandavano da una generazione all’altra. Quale nostro oggetto di consumo potrà essere utilizzato da un nostro figlio? Probabilmente nessuno. L’ex presidente dell’Uruguay José “Pepe” Mujica ha detto qualche anno fa: «Quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli». E il tempo di ciascuno di noi, quello che spesso dilapidiamo, è la misura della nostra libertà.

Negli ultimi dieci anni, il caffè e il cacao hanno registrato una crescita straordinaria, non solo come merci, nei prezzi e nei valori di scambio, ma anche come fenomeni culturali e motori di sviluppo economico. La loro crescente popolarità è alimentata dalla continua evoluzione dei gusti dei consumatori e, insieme, dagli impegni per la sostenibilità e da nuove strategie di mercato. Il consumo di caffè ha subito una trasformazione, bere un espresso non è più un semplice gesto finalizzato a darsi la “carica” ma è diventato esperienza sofisticata. Quello cosiddetto “premium”, ottenuto da chicchi di alta qualità con meticolosi metodi di estrazione, dai profili aromatici unici, sta diventando sempre più rilevante. La generazione dei Millennials e la Gen Z, ponendo grande enfasi sull’autenticità e sull’esperienza, hanno aumentato la domanda di caffè monorigine, ma anche di pratiche sostenibili e tostature artigianali. Di conseguenza, la cultura globale del caffè si è diversificata notevolmente. Le caffetterie non propongono più solo una tazza di caffè ma viaggi sensoriali, con baristi che agiscono come guide nella scoperta dei sapori.

Questo approccio ha elevato lo status del caffè, trasformandolo in un simbolo di artigianalità e creatività. E con lo status sono saliti anche i prezzi, per i consumatori così come per i produttori: nell’ultimo biennio, complice anche il cambiamento climatico, il prezzo pagato per la materia prima si è triplicato. Sul fronte economico, il caffè rimane una fonte di sostentamento per milioni di agricoltori nei Paesi emergenti e in via di sviluppo, soprattutto in America Latina e Africa. Stati come Brasile, Colombia, Vietnam ed Etiopia hanno aumentato la produzione, mentre i produttori più piccoli stanno ritagliandosi nicchie puntando su chicchi “unici”. Le imprese sociali continuano a promuovere il commercio equo, attirando consumatori etici e migliorando le condizioni di vita degli agricoltori.

L’ascesa del cacao segue quella del caffè e ne ricalca il percorso di “premiumizzazione”. Il cioccolato di qualità, realizzato con cacao pregiato e tecniche spesso innovative, sta guadagnando popolarità: i consumatori sono sempre più consapevoli della complessità dei sapori e attenti alle origini della materia prima. Come i caffè, anche i cioccolati monorigine sono diventati un biglietto da visita per tutto il settore. Intanto, i cioccolatieri artigianali stanno sperimentando combinazioni di sapori uniche e creano prodotti di lusso: che si tratti di un fondente arricchito con spezie esotiche o di una tavoletta al latte con l’aggiunta di un pizzico di sale marino, queste offerte soddisfano un pubblico esigente disposto a pagare un prezzo più alto. L’industria del cacao, però, è stata oggetto di critiche per il degrado ambientale causato dalle colture e per le pratiche di lavoro non etiche. In risposta, grandi aziende e produttori più piccoli stanno adottando certificazioni di sostenibilità come Fair Trade e Rainforest Alliance, ma restano per ora inefficaci le iniziative per combattere il lavoro minorile, migliorare i salari e promuovere l’agroforestazione, soprattutto in Africa, dove si concentra la maggior produzione delle fave di cacao.

Caffè e cacao sono sempre più intrecciati con la nostra cultura e la nostra identità. Il loro futuro è garantito, ma non privo di sfide. Innovazioni continue, unite a pratiche etiche e sostenibili, ne definiranno il percorso. Tuttavia, restano d’attualità due problemi: la deforestazione che precede l’allargamento delle piantagioni in Paesi della fascia climatica tropicale e il prezzo effettivo incassato dal produttore, tema che si lega a quello del lavoro mal retribuito e dell’impiego di minori, soprattutto in Africa. Per ora, questi due prodotti raffinati e di gran moda, per noi d’uso quotidiano, rimangono molto lontani dal poter essere considerati sostenibili per l’ambiente e per le comunità agricole dei produttori.

I rapporti tra Europa e Africa risalgono alla notte dei tempi, a quando cioè i primi sapiens originari dal continente africano colonizzarono quella che oggi chiamiamo Europa. Rapporti storicamente sempre molto stretti, spesso di scontro, con il mar Mediterraneo al centro. La svolta nelle relazioni tra i due continenti avviene con il colonialismo, prima con la tratta degli schiavi gestita dalle potenze europee, che deportano milioni di africani in America, e successivamente durante la “corsa all’Africa” della fine del XIX secolo, che vede Stati come Regno Unito, Francia, Belgio, Italia e Germania stabilire colonie più o meno estese in tutto il continente. Da allora, per decenni l’Europa ha sfruttato le risorse naturali dell’Africa, controllato i suoi sistemi politici e imposto cambiamenti culturali, impattando profondamente sulla sua struttura socio-politica.

Oggi, però, il rapporto tra Africa ed Europa sta attraversando un cambiamento significativo, caratterizzato da un costante declino dell’influenza europea (e più in generale occidentale). Diversi fattori contribuiscono a questa trasformazione, dal mutare delle dinamiche di potere globali all’aumento del sentimento anticoloniale in Africa, dall’espansione di partnership alternative a quelle con i Paesi europei all’emergere di una leadership africana decisa a promuovere l’indipendenza economica. Infatti, nonostante la narrazione della stampa attribuisca il declino dell’influenza europea quasi solo alla forte presenza russa e soprattutto cinese, non va sottovalutato il ruolo della nuova generazione di leader e intellettuali africani, sempre più lontana – anche per ragioni generazionali – dal retaggio culturale delle colonie. In diversi Paesi dell’Africa occidentale e centrale, come Mali, Burkina Faso, Guinea e Ciad, la presenza europea è stata messa in forte discussione. I presìdi militari francesi, inizialmente accolti con favore dai governi della regione per combattere il terrorismo jihadista, sono diventati elemento di tensione, poiché le popolazioni locali li percepiscono sempre più come una perpetuazione del controllo coloniale. Questo sentimento si riflette in una generalizzata richiesta di rimpatrio delle truppe francesi, nel rifiuto della moneta post coloniale, ossia il franco CFA, e nello smantellamento delle istituzioni educative e culturali francesi.

Negli ultimi decenni, nuovi attori globali hanno fatto il loro ingresso nei panorami economici e politici dell’Africa, in particolare Cina e India, che si sono ormai affermate come importanti partner economici. Nel 2022 l’Asia è stata la destinazione del 32% dell’export africano mentre l’Europa ne ha assorbito solo il 23,5%. Cifre analoghe si riscontrano nell’import, il 32% proviene dall’Asia, il 23% dall’Europa. Si tratta di un sorpasso storico: per oltre due secoli tutti i principali partner economici dell’Africa sono stati Paesi europei; ancora trent’anni fa, il 50% circa degli scambi commerciali africani avveniva con l’Europa. L’approccio della Cina, caratterizzato da consistenti investimenti in infrastrutture, ha offerto ai governi africani opzioni di finanziamento senza l’imposizione delle condizioni tipiche degli aiuti europei. Altri Stati, come Turchia e Russia, stanno aumentando il loro coinvolgimento nel continente focalizzandosi sull’assistenza allo sviluppo nel caso turco, sulla sicurezza nel caso russo. Altro tassello nella ricerca di autonomia da parte dell’Africa è stata la ratifica del Trattato di Libero Commercio Continentale Africano (AfCFTA), che mira a creare un mercato unico in tutto il continente.

L’Europa fatica a adattarsi a queste nuove dinamiche. Per molti Paesi europei, le pratiche tradizionali di aiuto e commercio sono così radicate nei quadri di politica estera da rendere difficile la transizione verso un modello più equo e orientato alla partnership. Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha cercato di ridefinire il suo rapporto con l’Africa attraverso iniziative come il Partenariato UE-Africa, enfatizzando la cooperazione in materia di migrazione, sicurezza e sviluppo sostenibile. Questi sforzi, però, spesso sono visti con scetticismo dagli africani, che non li considerano sufficientemente discontinui rispetto dalle pratiche neocoloniali del passato. Di certo, mentre l’Africa ridefinisce la sua posizione sulla scena globale, anche la natura del suo rapporto con l’Europa è destinata a evolversi. Con ogni probabilità i Paesi europei rimarranno partner sia economici sia diplomatici, tuttavia dovranno passare da un approccio paternalistico a uno di autentica partnership se vorranno rimanere rilevanti. I concorrenti non mancano e sono già ben presenti sul campo.