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La maxi-stangata nei confronti di Meta, il colosso di Mark Zuckerberg, arrivata dopo che la Commissione irlandese per la protezione dei dati personali ha accertato una sistematica violazione del regolamento europeo sulla privacy, è la più grande multa mai comminata a un soggetto del mondo high-tech in Europa: ben 1,2 miliardi di euro. L’attività giudicata illegale, che Meta dovrebbe cessare entro sei mesi, è il trasferimento dei dati degli utenti europei dei social della compagnia sui server ubicati negli Stati Uniti. Potrebbe sembrare una questione marginale, invece riguarda il core business di social come Facebook e Instagram che vivono, commercialmente parlando, proprio dell’accumulo, del trasferimento e della vendita a scopo pubblicitario dei dati che ogni giorno gli utenti “donano” loro, più o meno consapevolmente. Una massa di dati che tocca ogni aspetto della vita privata delle persone, dai gusti culinari alle idee politiche. Informazioni che mai prima d’ora erano state raccolte in modo così dettagliato e in tale quantità, per giunta senza spendere un dollaro, e traendone poi grandi guadagni.

La diatriba tra la Commissione e i colossi che gestiscono i social risale a qualche anno fa, quando per la prima volta, dopo le rivelazioni di Edward Snowden, si cominciò a parlare del trasferimento dei dati negli USA e del conseguente utilizzo che ne fa anche l’intelligence di Washington. Intanto gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra al colosso cinese Huawei perché sospettato di compiere un’operazione analoga: raccogliere i dati degli americani che usano i suoi device e renderli accessibili alle autorità cinesi.

Proprio questa è stata la rivoluzione che i social hanno portato nel mondo dello spionaggio: più che indagare per procurarsi dati specifici, relativi alle persone o alle società che si intende controllare, oggi basta sapersi muovere in una massa enorme di dati, cercando quelli che questi soggetti riversano volontariamente in rete.

C’è poi anche il tema della pubblicità, sempre più mirata perché tarata in base ai nostri gusti e preferenze, e che già si annuncia come un altro terreno di sbarco dell’intelligenza artificiale. Senza dimenticare la questione dei meccanismi che queste società hanno oliato per pagare poche tasse – se non nessuna – a fronte di immensi profitti. È quasi paradossale che l’Irlanda, Paese chiave nella strategia di “evasione legale” elaborata a livello europeo dai giganti dell’high-tech, oggi sia lo Stato chiamato a comminare la maxi-stangata a Meta: ma è anche inevitabile, trovandosi in Irlanda la sede europea dell’azienda.

Questa vicenda andrà avanti nei tribunali finché durerà il negoziato tra Washington e Bruxelles sul trattamento dei dati, regolamentato diversamente sui due lati dell’Atlantico. Visto l’errore compiuto scommettendo sul successo commerciale del metaverso, che invece ancora annaspa, Meta ora si concentrerà sulla riduzione dei costi e sugli introiti della pubblicità sui social network. Quest’ultima è già aumentata esponenzialmente su Facebook, al punto da far allontanare molti utenti perché bombardati di pubblicità mirata.

Per il settore si tratta di una crisi di crescita, nel senso che social come Facebook hanno ormai quasi esaurito il bacino potenziale di utenti, e c’è sempre un nuovo competitor, come accaduto con TikTok, che erode la posizione acquisita negli anni. In ogni caso, non sono tempi facili per chi aveva promesso una rivoluzione nella storia della comunicazione tra gli esseri umani e, alla fine, ci vende un “new media” infestato di pubblicità. Forse, più che nuovo, questo mondo è già vecchio, si è logorato con la stessa velocità con cui i social fanno invecchiare le notizie. E forse siamo pronti per qualcosa di nuovo, che però ancora non conosciamo.

The massive blow to Meta, the Mark Zuckerberg giant, came after the Irish Data Protection Commission found systematic violations of the European privacy regulation, resulting in the largest fine ever imposed on a high-tech entity in Europe: a whopping 1.2 billion euros. The illegal activity, which Meta is expected to cease within six months, involves the transfer of European users’ data from the company’s social platforms to servers located in the United States. It may seem like a marginal issue, but it affects the core business of social platforms like Facebook and Instagram, which thrive commercially by accumulating, transferring, and selling user data for advertising purposes—data that users “donate” to them, more or less knowingly. This mass of data encompasses every aspect of people’s private lives, from culinary tastes to political ideas. Such detailed and extensive information has never been collected before, let alone at such a scale, without spending a dollar and yielding significant profits.

The dispute between the Commission and the social media giants dates back a few years, when, for the first time, after Edward Snowden’s revelations, discussions began about data transfers to the US and the subsequent use by Washington’s intelligence agencies. Meanwhile, the United States has declared war on the Chinese giant Huawei, suspecting it of carrying out a similar operation: collecting data from Americans using their devices and making it accessible to Chinese authorities. This has been the revolution that social media brought to the world of espionage: rather than investigating to obtain specific data on individuals or societies they intend to monitor, today it is enough to navigate through a massive amount of data, searching for what these individuals willingly share online.

There is also the issue of increasingly targeted advertising, tailored to our tastes and preferences, which is already being heralded as another area for artificial intelligence to land. Not to mention the mechanisms these companies have devised to pay minimal taxes, if any at all, despite their immense profits. It is almost paradoxical that Ireland, a key player in the “legal evasion” strategy devised at the European level by high-tech giants, is now the country tasked with imposing this massive blow on Meta. However, it is also inevitable, considering that Ireland hosts the company’s European headquarters.

This matter will continue in the courts as long as the negotiation between Washington and Brussels on data treatment, which is regulated differently on both sides of the Atlantic, persists. Given the mistake made by betting on the commercial success of the metaverse, which is still struggling, Meta will now focus on cost reduction and advertising revenue on social networks. Advertising revenue has already exponentially increased on Facebook to the point of driving many users away due to targeted advertising bombardment.

For the industry, this is a growth crisis in the sense that social media platforms like Facebook have nearly exhausted their potential user base, and there is always a new competitor, as seen with TikTok, eroding their established position over the years. In any case, these are not easy times for those who promised a revolution in the history of human communication and, in the end, offer us a “new media” infested with advertisements. Perhaps, more than new, this world is already old, worn out as quickly as social media ages news. And perhaps we are ready for something new, which we still do not know.

L’Irlanda sta pianificando la creazione di un fondo sovrano nel quale far confluire le tasse pagate dalle multinazionali high-tech statunitensi che sono domiciliate nell’isola. Società che fanno utili nei Paesi comunitari ma non versano localmente le tasse sui loro profitti, preferendo invece pagarle nelle loro sedi di comodo irlandesi. Questo per via del regime fiscale di favore, pari al 12,5%, applicato in Irlanda contro una media europea ben più alta, dal 28% della Svezia al 37% dell’Italia.

Dublino si trova così al centro di una enorme fuga di capitali che sarebbero dovuti ad altri Stati comunitari. Profitti realizzati in Europa ma che, grazie a trucchi legali, le grandi multinazionali riescono a trasferire fino ai paradisi fiscali, rimbalzando tra l’Irlanda e i Paesi Bassi per poi finire nei Caraibi, e sfuggendo alla tassazione nei Paesi dove quegli stessi profitti sono stati generati.

I numeri sono stati forniti dallo stesso governo irlandese, che nel 2022 è stato l’unico in Europa a chiudere il proprio bilancio con un attivo rilevante, un surplus di 8 miliardi di euro equivalente all’1,6% del PIL. A questo risultato hanno contribuito in modo notevole le tasse versate dalle corporation non solo high-tech, ma anche farmaceutiche. Nel complesso si tratta di circa 22 miliardi di euro, pagati da società che solo in minima parte hanno svolto le loro attività in Irlanda. Soldi facili per Dublino, che per avere questo ritorno economico non ha dovuto sostenere spese.

Secondo le autorità irlandesi, il fondo sovrano che ora si vorrebbe creare, simile a quello norvegese del petrolio, entro il 2035 arriverà ad accumulare più di 140 miliardi di euro. Una manna per l’Irlanda, che avrebbe un fondo liquido per risolvere eventuali problemi di bilancio, fare investimenti, sovvenzionare il welfare. Una manna a discapito del resto dell’Europa, però. Perché, se quella cifra corrisponde a una tassazione del 12,5%, significa che la somma che le multinazionali avrebbero dovuto versare al fisco dei Paesi in cui operano sarebbe stata due o tre volte superiore. Contro questa erosione della base fiscale generalizzata, qualche Paese ha già fatto ricorso, contestando cifre milionarie che avrebbero dovuto essere versate localmente.

Oltre all’aspetto fiscale, la possibilità di far migrare il pagamento delle tasse dove più conviene comporta un’ulteriore stortura, e cioè il consolidamento di posizioni che diventano quasi monopolistiche, violando la libera concorrenza. La capacità di investimento, sviluppo di prodotto e promozione che hanno i gruppi che pagano un terzo (se va bene) di tasse rispetto ai concorrenti è sproporzionata, ed è alla base dell’espansione di un settore industriale che non sottostà alle regole nazionali, bensì a quelle di una globalizzazione deregolamentata.

Tutto legale, ma tutto sbagliato. E per i governi nazionali è difficile opporsi, anche perché, nel mondo attuale, queste aziende controllano i flussi dell’informazione: diventerebbero nemiche potenzialmente molto pericolose, in tempi in cui con un tweet si può distruggere un politico o un partito. La buona notizia per l’Irlanda diventa una cattiva notizia per il resto dell’Europa anche perché le proiezioni fatte da Dublino preannunciano la continuità nel tempo di questa versione fiscale del gioco delle tre tavolette. Neanche l’obbligo di alzare la tassazione fino a un minimo del 15%, come deciso dall’OCSE a partire dal 2024, pare poter incrinare questi privilegi.

Il meccanismo di scatole cinesi creato dalle società multinazionali per trasferire i profitti verso l’Irlanda e poi verso i Caraibi è lo stesso utilizzato da sempre dalla criminalità organizzata per depositare denaro nei forzieri delle Cayman, delle Bahamas e di altre isolette. La differenza con le multinazionali high-tech è che i riciclatori di soldi sporchi, o derivati dall’evasione fiscale, non ci hanno mai raccontato che avrebbero reso il mondo migliore.


Ireland is planning to establish a sovereign fund where taxes paid by US-based high-tech multinational companies domiciled on the island will be pooled. These companies earn profits in European countries but avoid paying local taxes on their profits by choosing to pay them in their Irish tax haven offices, thanks to Ireland’s favorable tax regime of 12.5%, compared to a higher European average, ranging from 28% in Sweden to 37% in Italy.

Dublin is at the center of a huge capital flight that should have gone to other EU states. The profits made in Europe are transferred to tax havens by large multinationals using legal tricks, bouncing between Ireland and the Netherlands before ending up in the Caribbean, and escaping taxation in the countries where those profits were generated.

The Irish government provided the numbers, and in 2022, it was the only European government to close its books with a significant surplus of €8 billion, equivalent to 1.6% of GDP. This was significantly contributed to by taxes paid not only by high-tech corporations but also by pharmaceutical companies, amounting to approximately €22 billion, paid by companies that only conducted a small portion of their activities in Ireland. It was easy money for Dublin, which did not have to incur any expenses to receive this economic return.

According to Irish authorities, the sovereign fund that they now want to establish, similar to Norway’s oil fund, will accumulate more than €140 billion by 2035. This would be a blessing for Ireland, which would have a liquid fund to solve any budgetary problems, make investments, and subsidize welfare. However, this would be at the expense of the rest of Europe. If that amount corresponds to a tax rate of 12.5%, it means that the amount that multinationals should have paid to the tax authorities of the countries where they operate would have been two or three times higher. Some countries have already challenged this generalized erosion of the tax base, disputing the millions that should have been paid locally.

In addition to the tax aspect, the ability to migrate tax payments to where it is most convenient creates an additional distortion, namely the consolidation of positions that become almost monopolistic, violating free competition. The investment, product development, and promotion capabilities of groups that pay a third (at best) of taxes compared to competitors are disproportionate and form the basis for the expansion of an industrial sector that does not comply with national rules, but rather those of deregulated globalization.

It’s all legal, but it’s all wrong. And for national governments, it is difficult to oppose, also because, in today’s world, these companies control the flows of information: they could become potentially dangerous enemies, at a time when a tweet can destroy a politician or a party. The good news for Ireland becomes bad news for the rest of Europe because the projections made by Dublin herald the continuity over time of this fiscal version of the shell game. Not even the obligation to raise taxation to a minimum of 15%, as decided by the OECD starting in 2024, seems to be able to crack these privileges.

The Chinese box mechanism created by multinational companies to transfer profits to Ireland and then to the Caribbean is the same one used by organized crime for depositing money in the coffers of the Cayman, Bahamas, and other islands. The difference with high-tech multinationals is that money launderers, or those who derive their funds from tax evasion, have never told us that they would make the world a better place.

L’entusiasmo del Parlamento Europeo che, in nome della lotta al cambiamento climatico, sta decidendo lo stop alla vendita di auto a combustibili fossili a partire dal 2035 non fa i conti con la realtà dell’estrazione e della lavorazione delle materie prime necessarie per costruire le batterie, parte essenziale dell’elettrico. Materie prime che si trovano in pochi luoghi al mondo, con punte del 50% per le riserve globali di cobalto concentrate in un unico Paese, la Repubblica Democratica del Congo. Va poco diversamente per il litio: oltre metà di quello disponibile sulla Terra si trova nella regione sudamericana a cavallo tra Cile, Argentina e Bolivia. Altri tre Stati – Turchia, Brasile e Cina – si spartiscono il 70% delle riserve di grafite, mentre quattro Paesi – Sudafrica, Ucraina, Australia e lo stesso Brasile – possiedono tre quarti del manganese presente sul pianeta.

Visti i pochi fornitori, tra l’altro non sempre esenti dal rischio di conflitti, il primo punto debole di questo mercato emergente è la sicurezza dei rifornimenti. Poi si pone il tema della sostenibilità economica locale dello sfruttamento delle risorse: per questi minerali, quasi tutto il valore aggiunto della lavorazione va a beneficio di Paesi diversi da quelli di estrazione. Clamoroso è il caso della Repubblica Democratica del Congo, il cui cobalto  viene lavorato e raffinato al 100% all’estero, ma lo stesso accade per gran parte del litio sudamericano.

Ugualmente gigantesco è il problema delle ricadute ambientali e sociali delle attività estrattive. Il 25% del cobalto fornito dal Congo proviene da miniere “artigianali”, nelle quali, secondo Amnesty International, lavorano persone in stato di semi-schiavitù; mentre per l’estrazione del litio cileno, boliviano e argentino si usa la tecnica detta “della salamoia”, che consuma grandi quantitativi di acqua in ecosistemi desertici, ambienti tra i più secchi al mondo, andando quindi ad esaurire le acque sotterranee, inquinando le poche falde superstiti e obbligando i pastori che tradizionalmente vivono in quella regione ad abbandonare le proprie terre.

Se proiettiamo nel futuro questi problemi già presenti, moltiplicandoli alla luce dei 250 milioni di auto che oggi circolano in Europa e che, tra 20 anni o poco più, dovrebbero essere sostituiti da veicoli elettrici, otteniamo una situazione ingestibile. Ma dobbiamo aggiungere ancora un’altra criticità, rispetto al cambiamento climatico: e cioè considerare da quale fonte si ricava l’elettricità che dovrà alimentare un numero enorme di mezzi. In Cina e India, Paesi dove la rivoluzione delle macchine elettriche è iniziata, rimane fondamentale il carbone. In misura limitata il carbone continua a essere usato perfino in Europa, ma nel nostro continente, soprattutto in Italia e Spagna, per generare energia elettrica si usano enormi quantità di gas naturale. Per far fronte all’aumento della domanda di elettricità, la rete di distribuzione dovrà essere rinnovata e la produzione rapidamente potenziata, ma ciò avverrà senza che sulle rinnovabili siano stati elaborati piani di sviluppo concreti, che richiedono investimenti parametrati alle necessità.

Sono questi i nodi irrisolti della tanto annunciata “rivoluzione verde europea”. Più ideologica che realistica e, anzi, spesso campata per aria rispetto alle reali disponibilità di materie prime. Soprattutto, volutamente ignara del fatto che questa rivoluzione ambientalista e smart è destinata ad alimentarsi con i soliti meccanismi di sfruttamento della terra e delle persone. Materie prime a basso costo, violazione dei diritti sociali e umani, distruzione ambientale, fuga di agricoltori e pastori, valore aggiunto spostato sulla trasformazione. Non c’è nulla di moderno in tutto ciò. È una storia che ogni volta viene narrata diversamente, ma che in fondo rimane sempre la stessa.

Sta cambiando velocemente l’atteggiamento dell’Unione Europea rispetto alla ratifica dell’accordo commerciale con il Mercosur, il mercato comune tra Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Dovrebbero essere aboliti i dazi per il 93% delle merci esportate dal Mercosur in Europa e per il 91% delle merci europee nel Mercosur.

L’accordo era stato concluso nel 2019, dopo 20 anni di negoziati, durante il vertice del G20 di Osaka, ma i toni trionfali dei negoziatori non erano riusciti a nascondere le difficoltà che si sarebbero trovate per la ratifica di quel documento, che infatti non è mai avvenuta. Se la Spagna spingeva, la Francia frenava platealmente, a partire dal suo presidente Emmanuel Macron, che ancora alla vigilia dell’ultimo voto in Brasile si era detto contrario all’accordo, senza sottovalutare le campagne della società civile tutte puntate sui rischi ambientali connessi all’aumento degli scambi tra Sudamerica ed Europa. Ma da quando il nuovo presidente del Brasile è Lula le cose stanno cambiando velocemente, anche per motivi geopolitici. La linea di Lula è chiudere subito la partita dell’accordo con l’Unione Europea per negoziare successivamente un trattato con la Cina. Questa “deferenza” nei confronti dell’Europa da parte del leader della sinistra brasiliana sta riuscendo a far cadere velocemente i pregiudizi verso l’accordo. Lula, inoltre, è in grado di offrire garanzie sul piano ambientale nell’ambito della grande iniziativa di protezione dell’Amazzonia e dei suoi popoli, annunciata in campagna elettorale e confermata dopo la vittoria.

Da parte europea, la pandemia e la guerra in Ucraina hanno introdotto variabili che all’epoca dei negoziati non esistevano. Il concetto di sovranità alimentare, l’accesso ai rifornimenti strategici di materie prime, l’idea di costruire mercati allargati di consumatori ben si sposano con l’accordo con un’area del pianeta culturalmente omogenea, ma anche ricca di quelle commodities alimentarie e minerali che risultano strategiche nel mondo d’oggi. Concetto ribadito dal cancelliere tedesco Scholz, reduce da un viaggio in Brasile, Argentina e Cile, dove ha firmato importanti accordi in base ai quali la Germania parteciperà all’estrazione di litio e alla costruzione di impianti per la produzione di idrogeno “verde”.

Tanto entusiasmo potrebbe però essere raffreddato dai soci “minori”, come l’Argentina, che ritiene ci siano discriminazioni nell’accordo sul suo biocarburante, ottenuto dalla soia, a vantaggio invece di quello prodotto in UE usando la colza. In realtà, i contrasti tra Europa e Sudamerica nell’ambito dell’agricoltura e della trasformazione alimentare sono molti e spesso annosi. Altro ostacolo che rende difficile il negoziato sono le denominazioni d’origine, che l’accordo tutelerebbe soltanto per 357 specialità a fronte di circa 1500 DOP e IGP riconosciute in Europa. Rispetto ad altri accordi, in questo caso il tema è particolarmente sentito perché sono decine e decine le specialità “europee” che si producono anche nei Paesi del Mercosur, a opera dei discendenti dei milioni di immigrati approdati in Sudamerica nell’ultimo secolo e mezzo. Formaggi, vini, salumi che ormai sono diversi da quelli prodotti in Italia, ad esempio, ma ne conservano il nome e l’aspetto. Sarà interessante capire se in questa fase storica, con un’Europa accerchiata e in difficoltà, l’offerta di Lula di stringere velocemente i rapporti commerciali, anche per stoppare l’avanzata cinese, sarà colta. In sostanza, la questione è se conta di più la politica globale dell’Unione o la tutela del Camembert.

Sono passati circa vent’anni da quando l’Unione Europa ha imposto una certificazione per il legname utilizzato per le costruzioni e l’industria del mobile. L’idea era contribuire ad arrestare, in Europa e nel mondo, i processi di deforestazione finalizzati ad alimentare l’industria del legname. Ma la deforestazione non è diminuita, anzi: non potendo più commerciare in Europa i legnami pregiati non certificati, i predatori di foreste ora li vendono alla Cina e all’India. E il problema non è certo solo questo. La situazione è peggiorata soprattutto perché oggi le foreste non si tagliano ma si bruciano: accade per fare posto alle coltivazioni di palme da olio, di soia e cacao, o per ricavare pascoli per allevare bestiame. Su scala globale, tutte queste attività agricole sono cresciute esponenzialmente per via del miglioramento delle condizioni di vita in Oriente, che ha portato a una maggiore domanda di cibo, e anche per il diffondersi di alcune “mode” del settore alimentare. Basti pensare al caso della soia, usata sempre più come foraggio per il bestiame e nella panificazione, e all’andamento del mercato dell’olio di palma, ormai impiegato in tutta la filiera della pasticceria: dal 2000 al 2020, la quantità commerciata nel mondo è quasi quadruplicata.

Ora la Commissione e il Parlamento dell’UE hanno raggiunto un accordo per imporre certificazioni di sostenibilità ambientale e sociale anche a una serie di prodotti “responsabili” di deforestazione come cacao, soia, caffè, gomma, olio di palma: tali prodotti non potranno più essere acquistati da operatori europei se coltivati in terreni che sono stati deforestati dopo il 31 dicembre 2021. In pratica, si condona tutto il degrado delle foreste tropicali che è stato prodotto fino a un anno fa: un degrado di cui l’Unione è responsabile quasi per il 20%. Indipendentemente da queste valutazioni, l’accordo ha un valore quasi solo politico e simbolico. Di sicuro farà felici le società di certificazione e avrà ripercussioni sui prezzi ai consumatori, mentre sul piano concreto applicare la legge sarà difficilissimo e le possibilità di aggirarla saranno alte. Questo perché, ad esempio, soia, caffè e olio di palma vengono raccolti in silos o cisterne usati da più produttori, che fanno perdere le tracce della provenienza, e anche perché, non esistendo registri degli incendi o delle deforestazioni, è impossibile accertare se un appezzamento agricolo sorge in un’area disboscata due anni fa o l’altro ieri.

L’Unione Europea, in realtà, da un lato vorrebbe che il mondo fosse a sua immagine e somiglianza, dall’altro ha bisogno che le materie prime una volta chiamate “coloniali” continuino ad arrivare a basso prezzo. Questo il motivo che spiega, ad esempio, la grande contraddizione dell’aver escluso dall’elenco il mais, che si coltiva anche in zone tropicali deforestate. Il tema che resta tabù è quello dei consumi: non tanto della loro qualità ma della quantità, argomento che è collegato sia allo spreco sia a una serie di disturbi dell’alimentazione. Per quanto riguarda questa certificazione, è certamente giusto voler capire come sono state prodotte le merci che consumiamo, ma è ridicolo pretendere che i prodotti coltivati in zone di foreste primarie non siano cresciuti grazie alla deforestazione, compiuta un anno o dieci anni prima. La vera rivoluzione sarebbe invece limitare le importazioni di queste materie prime, lavorando per una riduzione del consumo degli alimenti collegati alla distruzione delle foreste. Ad esempio, regolamentare o tassare le catene di fast food che spuntano come funghi proponendo carne bovina low-cost da animali foraggiati a soia sarebbe più utile che “certificare” la soia, cosa già in sé improbabile. Ma sappiamo che alla fine le aspirazioni ambientali si infrangono sul totem del consumo e della libertà di consumare come se non ci fosse un domani: prospettiva che, pian piano, sta diventando sempre più realistica. 

La tempesta perfetta che, dalla pandemia in poi, si è abbattuta sul mondo costerà all’economia globale circa 2.800 miliardi di dollari. Secondo le proiezioni OCSE rilasciate a fine settembre, a causa del conflitto in Ucraina, dell’inflazione, dell’impennata dei prezzi delle materie prime e della stretta delle banche centrali si perderà il 2% del PIL mondiale. A tutti questi problemi si va ad aggiungere la strozzatura della catena mondiale di rifornimenti di manufatti e semilavorati causata dall’insistenza della Cina nelle sue politiche “zero Covid”, come se ancora fossimo nella prima fase della pandemia. D’altra parte, la corsa galoppante degli Stati verso l’indebitamento ha raggiunto quota 300 trilioni di dollari, il 351% del PIL mondiale. Se una volta erano i Paesi emergenti quelli più esposti, ora l’epicentro della crisi debitoria è l’Europa, che sta pagando il caro energia come nessun’altra area al mondo. Sull’inflazione, tolti i “campioni” Argentina e Turchia, vicini al 100% annuo, troviamo in testa l’Eurozona con la media dell’8,8%.

Questi dati raccontano più cose insieme. Innanzitutto evidenziano le fratture che negli ultimi anni si sono create all’interno delle catene mondiali di valore: il mondo globalizzato, con la sua divisione internazionale del lavoro, è entrato in crisi; pandemia, conflitti e cambiamento climatico hanno provocato strozzature, carestie e scarsità di materie prime, aumenti spropositati dei combustibili fossili, dell’energia e dei derivati, come i fertilizzanti. La globalizzazione, si è detto più volte in questi mesi, non sarà mai più uguale a prima; ma poco si sa di come si ristabilizzeranno i rapporti tra Paesi che ormai sono parte integrante di un’economia-mondo, e che da soli non potranno certo conservare il proprio status. È questo il caso dell’Europa, potenza dalle mille dipendenze: dipendenza energetica, dipendenza alimentare, dipendenza industriale, dipendenza dal lavoro immigrato. Di fatto l’Europa, grande potenza culturale ed economica, deve buona parte del suo benessere a rapporti di dipendenza nei confronti del resto del mondo. Fu infatti il colonialismo a consentire il protagonismo militare e finanziario di un continente piuttosto povero di risorse. In seguito la globalizzazione, impostata dagli Stati Uniti, ha permesso all’Europa di continuare a governare il proprio mercato combinando la protezione dei propri settori strategici con delocalizzazioni e aperture liberiste laddove la convenienza era più tangibile.

Oggi quello schema è saltato e, per la prima volta da molto tempo, si tocca con mano il peso reale delle varie dipendenze. Di conseguenza emergono tutte le differenze tra l’Europa e le altre potenze mondiali. Sulle materie prime strategiche, ad esempio, l’Europa non ha mai reagito al progressivo passaggio dei minerali africani e sudamericani sotto controllo cinese: l’Africa, che per l’Europa è solo un problema legato all’immigrazione, è stata interpretata dalla Cina come un’occasione, la maggiore opportunità per arrivare a controllare i mercati mondiali. Gli Stati Uniti hanno perseguito ostinatamente politiche finalizzate a raggiungere l’indipendenza energetica; tra mille polemiche e scempi ambientali, ciò ha permesso a Washington, già da qualche anno, di non dovere più sottostare ai ricatti mediorientali. Nel frattempo, l’Unione Europea non è riuscita nemmeno a darsi una politica comune sull’acquisto del gas.

La morale di questa situazione è che oggi solo le potenze di grande calibro, e cioè Stati Uniti e Cina, riescono a gestire una politica globale e a mettersi al riparo dalle pesanti crisi in corso, mentre per i Paesi del Vecchio Continente, che singolarmente nel panorama globale sono dei nani, l’unica soluzione sarebbe quella di accelerare la costruzione di un soggetto politico europeo. Ma questo resta un tema tabù perché la politica locale crede ancora, o almeno finge di credere, che da soli si possa avere un futuro.

Per il Regno Unito, il bilancio dei primi sei anni da Paese extracomunitario non è di sicuro positivo. Contrariamente a quanto dicevano nel 2016 i sostenitori dell’uscita dall’Europa, l’export con gli Stati comunitari è crollato: -40,7% in media, con punte del -63% nel settore alimentare. Nel frattempo l’export verso altri Paesi è cresciuto di un misero 1,7%, mentre l’import dall’UE è calato del 28,8%. A questi dati si sommano i numeri negativi dovuti alla pandemia e alla guerra in Ucraina. Il governatore della Banca d’Inghilterra, la banca centrale del Regno Unito, recentemente ha definito “apocalittico” lo scenario che va delineandosi per i cittadini britannici: calo del PIL, calo della sterlina rispetto al dollaro, aumento dei prezzi alimentari, inflazione al 9% su base annua. Intanto da vari sondaggi emerge il dramma sociale di un Paese nel quale un quarto della popolazione salta i pasti per risparmiare e due terzi non possono permettersi di tenere acceso il riscaldamento quanto vorrebbero.

Ovviamente si tratta di problemi comuni a molti Paesi in questa fase. Oltremanica, però, le criticità sono amplificate dalla solitudine del Regno Unito in campo internazionale e dalla sua autoesclusione dal mercato più ricco al mondo, quello comunitario. Come facilmente prevedibile, la perdita della posizione di privilegio garantita dall’appartenenza a un mercato con regole comuni, e senza dazi interni, è difficilmente recuperabile attraverso le aperture ad altri mercati esteri. Soprattutto perché la produzione britannica ha standard molto elevati e ciò determina prezzi più alti rispetto a quelli praticati dai concorrenti esterni all’UE, statunitensi o asiatici.  Londra aveva sottovalutato questi due fattori: da un lato l’avvenuto adattamento della sua produzione ai bisogni, alle regole e ai costi dell’Unione Europea, dall’altro i tempi lunghi che servono per costruire una rete di accordi e regole condivise con altri Paesi del mondo, e anche con l’UE stessa, dovendo ora interagire da Paese extracomunitario.

Il sogno tardo-imperialista alla base della Brexit, cioè rimettere la Gran Bretagna al centro del mondo, come ai tempi della regina Vittoria, appariva già in sé un obiettivo ridicolo. Guardando poi le valutazioni alla base di quel progetto, erano evidentemente fuori luogo l’importanza attribuita al Commonwealth e la fiducia nella reale consistenza di questa organizzazione: si è scambiata per un’opportunità economica quella che, in realtà, è poco più di una semplice concessione alla nostalgia di Londra. Hanno prevalso, invece, l’arroganza del pensarsi ancora come un impero capace di imporre agli altri le proprie regole e i propri tempi, e soprattutto il sognare che da soli sarebbe stato possibile ottenere vantaggi maggiori di quelli garantiti dal mercato comune.

Nel frattempo, il prezzo pagato dai britannici ha raffreddato gli animi sovranisti in Europa. E probabilmente proprio le difficoltà di Londra fuori dall’Unione hanno fatto sì che, per la prima volta, a Bruxelles si sia deciso emettere debito comune, come sta accadendo per il programma Next Generation EU. Tuttavia, non è detto che quegli Stati che ieri usavano lo scetticismo inglese come alibi per giustificare i loro tentennamenti, ora si dimostrino pronti a compiere passi concreti verso un maggiore coordinamento europeo. Che andrebbe invece programmato, anche a rischio di perdere per strada altri Paesi oppure di ipotizzare, come ha abbozzato Emmanuel Macron, un’Unione “a due velocità”: e cioè con un nucleo di Stati che intraprendono una strada comune e un altro nucleo di Stati collegati da accordi commerciali. L’esempio della deriva del Regno Unito, che in tempi di globalizzazione si era illuso di potercela fare da solo, dovrebbe spronare tutti i Paesi membri verso la ricerca di nuove formule di convivenza più avanzate. Solo così, in un mondo nel quale le potenze stanno tornando sulla scena in modo aggressivo, l’Europa potrà trovare un suo ruolo. Oppure, rompendo le righe, tutti i 27 Stati potrebbero tornare a essere come la Gran Bretagna: isole ai margini.  

A due mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, il conflitto bellico che si è generato resta sostanzialmente una guerra europea, anche se non mancano le ripercussioni sull’economia globale. È sempre più palese come il tentativo delle potenze occidentali di collocarlo al centro dell’attenzione e della solidarietà mondiali sia fallito. Fuori dalla cerchia dei Paesi aderenti alla NATO, al di là dei rari Paesi che presentano strette relazioni politiche ed economiche con la Russia, l’atteggiamento dominante è per la stragrande maggioranza quello della semplice indifferenza. Questa situazione si può leggere, almeno in parte, nel quadro del progressivo logoramento del diritto internazionale avvenuto negli ultimi decenni. Il rispetto delle regole, ad esempio l’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite che vieta il ricorso agli eserciti per regolare i problemi tra gli Stati, non solo è stato clamorosamente violato dalla Russia di Putin nel 2022, ma anche dagli Stati Uniti di George W. Bush nel 2001 in Afghanistan e nel 2003 in Iraq. Per molti Paesi, anche gli interventi militari dei paesi NATO in Libia nel 2011 e in Kosovo nel 1999 rappresentavano forzature interventiste.

La questione è che siamo di fronte a un diritto internazionale à la carte, che serve per condannare il nemico ma mai per mettere in discussione le proprie azioni. Per i Paesi indifferenti al conflitto ucraino, la Russia sta esercitando il suo “diritto” di potenza tanto quanto altre potenze hanno fatto in passato. Questo a prescindere dalle farneticazioni con cui Vladimir Putin cerca di giustificarsi. Semplicemente assistono in modo neutrale a uno scontro che non sentono loro, e che considerano sulla scia di quanto le potenze mondiali – USA, Regno Unito, Francia, URSS e oggi Russia – hanno sempre fatto per tutelare i propri interessi: se necessario, combattendo guerre al di fuori del diritto internazionale. Questa alterazione del quadro della convivenza tra Stati risale ai tempi del colonialismo: forse non troppo paradossalmente, oggi sono anche alcuni Paesi ex coloniali a “giustificare” l’offensiva della Russia perché utile a difendere, anche se in modo maldestro e sanguinoso, i suoi interessi vitali di fronte ai Paesi NATO. I quali, in questo frangente, sono diventati legalisti.

Pochi, insomma, credono sinceramente nel diritto dell’Ucraina a essere uno Stato indipendente che decide in autonomia il proprio futuro; molti invece sondano la capacità militare russa, la debolezza di un’Europa assetata di risorse energetiche e l’efficacia degli armamenti utilizzati da entrambe le parti, in una partita di Risiko dove perderanno quasi tutti. Ma non tutti. Nella tradizione cinese, il vero vincitore di una guerra è chi non la combatte: e alla fine saranno i grandi Paesi rimasti neutrali a dover ricostruire, quando le armi taceranno, un tessuto di relazioni saltato in aria. Quando l’auspicato cessate il fuoco avverrà, il compito sarà immane: anzitutto si dovrà discutere dell’assetto territoriale ucraino, in secondo luogo discutere finalmente di aree di influenza tra Europa e Russia. L’Unione Europea dovrà decidere se dotarsi di un proprio dispositivo di sicurezza oppure continuare a prendere ordini da Washington attraverso la NATO. Ci sarà anche da riflettere sul diritto internazionale e le sue istituzioni, se sono definitivamente da buttare via o invece è possibile rilanciare la riforma del Consiglio di Sicurezza. E infine bisognerà tornare all’agenda del vero problema che mette in dubbio il futuro della Terra, il cambiamento climatico. Un’emergenza che, se non sarà affrontata collettivamente, non potrà mai essere risolta. La divisione manichea del mondo tra virtuosi e fuorilegge, a geometrie variabili, non aiuta a trovare soluzioni ai grandi temi. Se si vuole il rispetto del diritto internazionale occorre metterlo in condizioni di funzionare efficacemente; se si vuole discutere seriamente di cambiamento climatico bisogna fare lo sforzo di mettersi nei panni degli altri. Dialogo, politica e diplomazia dovrebbero essere le tre parole d’ordine per il dopoguerra, se avremo imparato qualcosa.