I nodi al pettine dell’Europa

Pubblicato: 14 ottobre 2014 in Europa
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Con cadenza giornaliera organismi multilaterali e giornali economici ci forniscono numeri sull’Europa che dipingono una situazione tutt’altro che positiva. Gli stessi analisti che prima la difendevano, oggi considerano errata la diagnosi “tedesca” sulla crisi del 2008: quella nella quale volutamente si confondeva la crisi dei mercati mediterranei, dovuta anche al costo dell’euro, con una crisi del debito sovrano. E che portò a somministrare una medicina sbagliata, cioè l’austerity “senza se e senza ma”.

Sull’onda emotiva del momento, in alcuni Paesi come l’Italia si è arrivati a introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione – nonostante ciò non fosse un obbligo imposto dall’Unione Europea – come dimostrazione di fede nel credo dell’austerità di bilancio, che avrebbe dovuto condurci fuori dalle secche della crisi. Oggi sappiamo che queste politiche di bilancio e di spesa hanno avuto tre effetti: hanno congelato ogni aspettativa di crescita economica, spingendo verso la deflazione una parte del continente; non solo non hanno ridotto il debito pubblico, ma lo hanno fatto crescere percentualmente per via del calo del PIL; e hanno sostanzialmente favorito la Germania e qualche Paese del Nord.

Infatti la Germania, che ha visto crescere il suo prodotto industriale, ha tenuto alta l’occupazione e si è confermata la prima potenza economica del continente, godendo di una grande stabilità monetaria, di un euro sottovalutato rispetto alla sua economia, e di vasti serbatoi di manodopera a basso costo sia all’Est sia attraverso i “mini-jobs”, cioè i rapporti di lavoro pagati non più di 450 euro al mese e pressoché esentasse. Addirittura, con fondi comunitari, la Germania è riuscita a far rientrare l’esposizione delle sue banche nei confronti dei Paesi in difficoltà, incassando fior di miliardi di euro di interessi pagati da questi ultimi per i prestiti ricevuti.

Si direbbe un grande affare, ma la cecità della classe politica tedesca rischia di far saltare in aria l’intero percorso dell’UE. Perché un’Europa nella quale il principio di solidarietà è scomparso e nella quale il destino dei Paesi mediterranei è mandare i propri giovani a lavorare altrove, e che non interviene davanti alla crisi che colpisce la maggioranza dei soggetti nazionali solo per fare gli interessi di uno Stato, è un’Europa che non ha futuro.

Tra le due visioni storiche che si sono confrontate sul futuro dell’Unione – quella britannica che voleva solo un’area di libero commercio senza intaccare sovranità né moneta, e quella tedesca che tendeva alla costruzione di uno Stato sovranazionale – quest’ultima pareva quella più favorevole agli Stati più deboli e soprattutto quella più europeista. In realtà, dopo l’entrata in vigore dell’euro, con una Germania nel ruolo di arbitro e gestore dell’area, l’interesse nazionale ha prevalso sul disegno europeista. A Francoforte, infatti, si sono trovati a gestire il futuro monetario, e di conseguenza in buona parte economico, dell’intera area euro. Il risultato è che hanno prevalso gli interessi della Germania, e oggi i nodi sono venuti al pettine.

Sono svaniti velocemente gli ideali di solidarietà, di allargamento dei diritti, di protagonismo dell’Unione come blocco a livello mondiale, di condivisione di un destino comune. La nuova Commissione ripropone la stessa frittata di quella precedente: una politica commissariata dai falchi dell’economia. Al netto del bisogno urgente di riforme del sistema Italia, al netto del problema del debito pubblico che, pur non essendo più solo una prerogativa italiana, riguarda prioritariamente il nostro Paese, c’è da capire se l’Europa sia tutta qui. Se pensiamo di sì, allora è meglio prepararci per il ritorno disordinato, caotico, doloroso alla solitudine degli Stati nazionali. Per alcuni è un sogno, ma con molta più certezza sarà un incubo.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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