Sono stati numerosi (anche se poco considerati) i segnali sul futuro della seconda potenza mondiale emersi dal Congresso del Partito Comunista cinese che si è tenuto la settimana scorsa. Due di essi meritano un approfondimento particolare. Il primo riguarda la ridefinizione della strategia economica finalizzata a mantenere alti i tassi di crescita anche nella nuova situazione internazionale, segnata da un rallentamento globale. La conclusione, tanto ovvia quanto dirompente, è che l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni è stata sì il volano dello sviluppo economico dagli anni ’80 in poi, ma oggi deve essere progressivamente ridimensionata a favore di un maggiore peso della domanda interna. In sostanza anche la Cina, come prima gli Stati Uniti e l’Europa, comincia a fare i conti con un modello di globalizzazione basato sul declino della delocalizzazione competitiva, e quindi scopre il mercato interno. I cinesi potranno finalmente consumare ciò che producono… ma prima dovranno conseguire la possibilità economica di farlo.
La seconda considerazione è di natura etico-politica. Riguarda la dichiarazione effettuata da uno dei dirigenti uscenti, il quale ha affermato che non si vede la ragione di cambiare modello politico, dato che la Cina finora è andata così bene: anzi, molto meglio di tanti Paesi cosiddetti “democratici”.
Quando si analizza la politica cinese si usa spesso e volentieri la lente occidentale, dando un’importanza centrale a temi che in Cina rasentano la marginalità: è il caso della causa tibetana e della questione della democrazia, con tutto il suo corredo di dritti individuali e di libertà di opinione. Da noi, è scontato accostare la libertà di impresa e di proprietà alle libertà democratiche; nella visione della gerarchia comunista cinese, invece, il rapporto tra i due argomenti è interpretato in senso opposto. Può uno Stato guidare lo sviluppo del proprio popolo in modo armonioso e senza conflitti né strappi, se il sistema permette la moltiplicazione delle posizioni e la critica aperta? Per Pechino la risposta è no.
D’altra parte lo Stato più antico dell’umanità, forte di una continuità territoriale e culturale che dura da 4000 anni, non ha mai conosciuto né sperimentato alcuna forma organizzativa che non fosse la centralizzazione totale dei poteri, con gli imperatori o dopo la rivoluzione. La rivoluzione maoista è stata anzi il momento più significativo di democrazia in Cina, se per democrazia si intende la possibilità di partecipazione alla “cosa pubblica” da parte di qualsiasi cittadino, indipendentemente dalla nascita. Esattamente quanto è bastato per liberare le enormi potenzialità del “gigante-nano” che fino ad allora aveva solo subito gli attacchi di un mondo esterno ostile.
La Cina è il motore della globalizzazione da circa 30 anni. Oggi ha capito che è il momento di cambiare marcia: dopo aver trasformato in operai centinaia di milioni di cittadini, ora vuole farli diventare anche consumatori, e non solo braccia. Per quanto la politica cinese in materia di diritti umani e di libertà ci possa apparire criticabile, e per quanto oggettivamente lo sia, c’è un dato sottovalutato ma centrale che ci permette di capire il futuro di questa potenza. Nei millenni, lo Stato cinese ha costruito una nazione, unificato la lingua e la cultura, stabilito e difeso i confini. Oggi, sempre lo stesso Stato ha deciso di costruire la cittadinanza attraverso i consumi, dando a ciascuno l’opportunità di realizzare il proprio sogno di benessere. Una strategia economica che consolida quella politica (e viceversa), un binomio che sarà molto difficile scardinare.
Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)