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Forse per scaramanzia, in questi lunghissimi 4 anni, da quando cioè è scoppiata la crisi economica, nemmeno negli scenari più neri si è presa in considerazione l’eventualità che la Cina potesse fermarsi. Che la sua performance, il più forte traino per la crescita dell’economia globale dell’ultimo decennio, potesse scendere sotto l’8% annuo di aumento del PIL. Questo non solo perché il gigante asiatico  garantisce ogni anno l’entrata di milioni di nuovi soggetti sul mercato dei consumi, a casa sua e nei Paesi poveri. Ma anche perché il grandioso surplus commerciale di Pechino foraggia il debito occidentale, a partire da quello statunitense.

Infatti la Cina, ultimo grande Paese al mondo nominalmente comunista, non è solo la “fabbrica del mondo”, ma anche la sua banca. E una banca molto ambita, come testimoniano i big dell’Unione Europea che premono perché, dopo avere comprato per anni bond del tesoro USA, i cinesi comprino titoli dei Paesi semi-falliti del Mediterraneo. Tuttavia anche per la Cina c’è un limite, e i 1200 miliardi di dollari di debito americano, sommati ai 400 miliardi in bond degli Stati europei che già si trovano nei loro forzieri, pare siano un tetto che Pechino non vuole superare. Il timore degli economisti cinesi riguarda i tentennamenti occidentali rispetto alle urgenti riforme da introdurre nei mercati finanziari: si sospetta che molti Paesi non andranno fino in fondo con i pesanti sacrifici che hanno annunciato. In questo caso, la Cina si ritroverebbe con giganteschi crediti inesigibili.

Certo, parliamo di uno scenario apocalittico, ma ormai è lecito prendere in considerazione situazioni estreme per ragionare anche circa rimedi estremi. Le sole banche USA hanno in deposito i famigerati derivati per un controvalore di 231mila miliardi di dollari (su un totale mondiale stimato in 650 mila miliardi). Una cifra che equivale a 14 volte la capitalizzazione di tutti i listini di borsa mondiali e a 9 volte il PIL del mondo intero. La galassia dei derivati, che il presidente della Consob italiana definisce simpaticamente “innovazione finanziaria”, è formata da diversi strumenti, come quelli che dovrebbero assicurare un investitore dal fallimento di una società o di uno Stato, ma spesso sono acquistati da chi nulla rischia da quell’evento, ma vuole solo speculare sul fallimento. O i future che scommettono, come se fosse un gioco, sul prezzo che avranno il petrolio o il mais dopo un periodo di tempo.

La Cina, che pure non è sicuramente estranea a questi giochi di prestigio della finanza, rimane un Paese che i soldi se li guadagna producendo beni tangibili: comprando materie prime, trasformandole e vendendole. Rimane cioè un Paese a forte vocazione industriale, come si sarebbe detto una volta. Il denaro che investe in titoli americani o greci nasce dal lavoro, non dalla speculazione. Ma si vede condannata a sostenere coloro che sono i suoi principali clienti, riversando nelle loro casse quanto ha guadagnato un minuto prima vendendo loro televisori, auto o telefonini.

Questo perché il “resto del mondo”, quello che con la bolla speculativa non c’entra nulla, non è ancora in grado di sostituire i mercati occidentali. Ma è solo questione di tempo: la storica scelta cinese di fare diventare l’Africa un mercato consumatore, allargando la platea dei suoi clienti del futuro, è solo una delle prime mosse. Oggi la Cina  non può permettersi la fine della globalizzazione, che traina la crescita economica e ridistribuisce il suo lavoro e i suoi capitali, ma a Pechino, da 4000 anni, sono abituati a ragionare e lavorare sul lungo periodo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)