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Ogni primavera alle latitudini settentrionali si ripete la risalita dei fiumi da parte dei salmoni che sono cresciuti a valle. Un percorso guidato dalla natura, perché in quello specifico momento le condizioni migliori per la riproduzione si trovano proprio laddove i pesci sono nati.

Anche in economia esistono flussi periodici simili, determinati dal mercato. Il cosiddetto reshoring, cioè la rilocalizzazione produttiva negli Stati d’origine, è infatti una tendenza ormai visibile in quasi tutti i Paesi di vecchia industrializzazione. Le prime imprese a risalire virtualmente il fiume sono state quelle statunitensi, richiamate in patria dal basso costo dell’energia e dal pacchetto di incentivi fiscali e di servizi all’impresa varato dall’amministrazione Obama. Molte altre aziende non sono tornate esattamente a casa ma si sono stabilite “nei dintorni”, trasferendo in Messico gli impianti produttivi fino a ieri localizzati in Cina: nel Paese asiatico, infatti, il costo del lavoro è triplicato rispetto a 10 anni fa.

Anche in Germania e in Italia si verificano casi di ritorno di imprese che avevano delocalizzato nell’Europa orientale. In Italia oltre un centinaio di imprenditori sono tornati soprattutto dalla Romania, dove oggi i costi sono aumentati ed è difficile reperire manodopera qualificata, perché l’emigrazione l’ha portata altrove. L’ultimo Paese che registra ritorni di imprese è il Giappone: qui colossi come Panasonic e Honda stanno riportando a casa intere linee produttive dalla Corea del Sud e dal Vietnam. Parallelamente, l’industria cinese sta cominciando a delocalizzare in Cambogia o Vietnam inseguendo il costo della manodopera inferiore. Una parabola fulminea, quella della Cina: da Paese meta della delocalizzazione degli anni ’90, quando ospitava le imprese in fuga dall’Occidente, a Paese che delocalizza anch’esso per motivi di costo del lavoro. Lo stesso vale per l’India, che ha delocalizzato una parte della sua industria tessile in Bangladesh.

Questo capitolo della globalizzazione segna un cambiamento notevole rispetto a quello precedente. Se, fino a 10 anni fa, i Paesi “centrali” producevano in quelli emergenti per poi vendere i prodotti sui propri mercati, ora chi investe in Cina o in Indonesia lo fa per vendere proprio in questi Stati. Diventa cioè “produttore locale”, anche se con una un’identità e una presenza globale. Nel frattempo, infatti, il mercato mondiale è diventato più vasto, perché gli operai dei Paesi emergenti sono diventati anche consumatori. Cina, India, Corea o Brasile investono (e a volte producono) negli Stati dai quali, fino a poco tempo fa, partivano i capitali per industrializzarli.

In questo scenario radicalmente mutato, l’unico soggetto economico che non registra scossoni sono le multinazionali: imprese che erano globali ancor prima che ci fossero le condizioni per operare a pieno regime sull’intero pianeta. Le aziende che impongono brand mondiali, gusti e modalità di consumi, producono ovunque ci sia un mercato consumatore promettente.

Le nostre imprese salmone, che tornano a casa dopo l’ubriacatura della manodopera a costo quasi zero, non sono però al sicuro: come lungo i torrenti del Canada o dell’Alaska, sono in agguato gli orsi, pronti a catturare i pesci mentre risalgono il fiume. Il mercato che le aziende avevano abbandonato è stato nel frattempo colonizzato dai grandi gruppi multinazionali, e addirittura a fare concorrenza compaiono operatori provenienti dai Paesi nei quali avevamo delocalizzato. Insomma, il ritorno in uno scenario radicalmente cambiato non garantisce il futuro: la vacanza all’estero, costata agli Stati milioni di posti di lavoro e miliardi di euro in welfare, ha lasciato tracce profondissime, che soltanto il tempo potrà cancellare.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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I grandi volani della globalizzazione degli anni ’90 sono state da un lato le certezze giuridiche sui capitali investiti all’estero e la possibilità di rimpatriare i profitti, dall’altro le legislazioni ambientali inesistenti o troppo permissive dei Paesi che attiravano investimenti e, soprattutto, il costo del lavoro. Dalle maquiladoras del Messico ai giganteschi impianti di assemblaggio di Shanghai, le imprese per vent’anni hanno portato la produzione dove c’erano le migliori opportunità in materia salariale e poche grane sindacali.

Le storie di sfruttamento minorile e femminile, le condizioni inumane delle catene di montaggio malesi o cinesi hanno scandito la cronaca degli ultimi vent’anni. Oggi però la situazione sta velocemente cambiando. L’equazione “produco e vendo dove mi conviene”, quasi sempre in Paesi diversi, pare reggere sempre di mano. E ciò perché nei Paesi emergenti i salari sono aumentati e il costo dei trasporti e della logistica pure; perché i sindacati sono nati o sono riusciti a entrare dove prima era vietato; perché ormai tutti si stanno dotando di una legislazione ambientale.

Il vero motore del cambiamento passa però da un’altra grande “scoperta” del turbo-capitalismo contemporaneo: se gli operai perdono il lavoro perché è stata portata via la fabbrica, prima o poi escono dal mercato consumatore. Se una società “ricca” si impoverisce, i prodotti di alta fascia, anche se costruiti a basso costo, non li compra più nessuno. Non basta dire che, nel frattempo, nei Paesi emergenti sono entrati nel mercato consumatore centinaia di milioni di nuovi impiegati e operai strappati all’agricoltura, perché per quel mercato si produce in loco.

A questo punto la logica alla base della globalizzazione anni ’90 viene meno. Non si parla più di un mercato globale, ma di un mercato segmentato e servito da una produzione sempre più “nazionale”. Un esempio è il nuovo modello di iPod in plastica, destinato al mercato orientale a un prezzo dimezzato rispetto all’originale in alluminio. Gli Stati Uniti, patria delle aziende che per prime hanno delocalizzato, sono oggi invece la capitale del backshoring, tecnicamente il ritorno in patria delle imprese che se ne erano andate.

E questo non solo per la minore convenienza a produrre all’estero, ma anche perché il governo Obama e alcuni Stati particolarmente colpiti dalle delocalizzazioni, come la California, hanno cominciato sia ad aumentare la pressione fiscale sui prodotti manufatti all’estero sia a offrire incentivi e facilitazioni alle imprese che reinvestono sul suolo americano. La California ha incentivato l’industria creando 350.000 nuovi posti di lavoro nel 2012. Obama ha più volte minacciato di colpire fiscalmente le aziende americane che non abbiano nei loro piani di investire negli USA e, come nel caso della Chrysler , è intervenuto finanziariamente per impedire il trasloco del marchio all’estero.

Queste nuove caratteristiche della globalizzazione offrono maggiori possibilità di competere alle imprese di dimensioni nazionali, ma soprattutto permettono il consolidamento di tante lotte per i diritti dei lavoratori sacrificate in questi anni sull’altare dei costi “stracciati”.  In Europa come in Asia, il costo sociale dell’arricchimento di chi vendeva a 100 euro in Occidente un paio di scarpe costato 5 in Oriente non è più sostenibile. La globalizzazione può davvero diventare una grande opportunità: soprattutto se perderà del tutto le caratteristiche che si sintetizzano nell’aggettivo “selvaggia”.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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