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In un mondo disarticolato, qualsiasi politica che richieda uno sforzo multilaterale naufraga. È quello che sta accadendo anche a Dubai, emirato cui è stata assegnata l’organizzazione della COP28: la Conferenza delle Parti di fine 2023 deve fare i conti con i progressi nulli, dopo l’Accordo di Parigi del 2015, di un mondo nel quale sugli interessi generali prevalgono gli interessi particolari, che non trovano contrappesi nella politica. Un mondo nel quale, per giunta, i conflitti d’interesse contaminano in profondità la vita pubblica, a partire dalla posizione particolare dello Stato ospite dell’evento: gli Emirati Arabi Uniti, cassaforte dei profitti ottenuti con la vendita del gas e del petrolio del Golfo. Ma non è questo l’unico fronte dove si tocca con mano l’attuale fase improntata al “si salvi chi può” e alla difesa degli interessi di parte. Le guerre in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza si avvitano su loro stesse, in una totale mancanza di idee, proposte e atti autorevoli che antepongano una risoluzione negoziata al ricorso alle armi. E non solo: l’accordo sul nucleare con l’Iran è saltato, l’impunità del dittatore Kim Jong-un è ormai conclamata e la Corea del Nord continua a lanciare missili, per ora disarmati, sulle teste dei vicini, i golpe in Africa e Asia si moltiplicano sostenuti da potenze “amiche”, e le disuguaglianze anziché diminuire aumentano.

Insomma, il mondo alla fine del 2023 non offre un bel panorama. Forse, la cosa più grave è che è andata persa la speranza, in passato motore di grandi slanci ideali e pratici. Si affievolisce l’idea stessa di una pace raggiungibile, della lotta alla povertà, della giustizia e della salvaguarda ambientale. Più che le idee, oggi ci restano i ricordi: l’agenda mondiale è tornata tristemente cupa. Alla politica è subentrata la rincorsa alle emergenze, che sono la drammatica conseguenza proprio della mancanza di politica, cioè della capacità di prevedere e di adoperarsi per tempo in modo da evitare che le situazioni si facciano emergenziali. Parliamo di emergenza climatica perché 30 anni fa, quando già la tendenza era chiara, non l’abbiamo aggredita con politiche lungimiranti; di emergenza bellica, perché si sono abbandonati i tavoli negoziali e accumulate le armi; di emergenza povertà e migrazione, temi discussi dagli organismi internazionali senza autentica volontà di risolverli già alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Il tema che al suo interno contiene tutti gli altri, soprattutto se ci proiettiamo verso il futuro, è la sfida del clima, che è all’origine di conflitti, povertà e migrazioni, drammi economici e umani. È questo il vero banco di prova per la rinascita del multilateralismo, come ha sottolineato papa Francesco nel suo discorso alla COP28: come tante volte si è detto, nessun Paese da solo può risolvere il problema e il dramma è che si continua a pensare che ci sia ancora tempo, che ci siano altre emergenze più urgenti. Per ora, a Dubai il dibattito sta portando soltanto alla nascita del tanto richiesto fondo di compensazione sui danni provocati dal cambiamento climatico nei Paesi più poveri. Se questa sarà l’unica novità, il vertice sarà stato un fallimento e il seguito si complicherà molto. Se l’unica cosa sulla quale si troverà un accordo sarà agire sulle conseguenze nei Paesi più poveri e non sulle cause, sarebbe un tradimento rispetto a quanto deciso nel 2015 a Parigi. Ma c’era da aspettarselo: viviamo in un mondo assetato di energia, da qualsiasi fonte provenga, dove si finge di volere la transizione energetica acquistando un bel po’ di batterie al litio e di pannelli fotovoltaici made in China che sono stati prodotti con elettricità ricavata dal carbone. Sono le contraddizioni in cui si cade quando si pretende di tutelare gli interessi collettivi senza intaccare quelli privati. Dalla crisi nella quale ci stiamo infilando si può uscire soltanto con misure radicali: ma purtroppo sappiamo che questo accade soltanto quando si è, letteralmente, con l’acqua alla gola.

Il mondo disegnato dall’ultima ondata di globalizzazione degli anni ’90 è come un organismo vivente. I gangli che garantiscono il suo funzionamento sono distribuiti ovunque. Molto diverso da quello del periodo precedente, quando la divisione internazionale del lavoro era piuttosto rigida e la mobilità delle persone limitata. Diverse e profonde sono state le riforme che hanno riconfigurato il corpo dell’economia, fino a renderlo interconnesso: la possibilità di delocalizzare le produzioni e spostare i capitali, l’emergere di nuovi mercati consumatori, la rivoluzione tecnologica (alimentata da nuove materie prime strategiche), la deregolamentazione del traffico aereo. Anche i flussi migratori si sono per così dire liberalizzati. Dopo la fine dell’emigrazione europea vi erano stati forti innesti di manodopera dai Paesi ex coloniali verso l’Occidente e le possibilità di migrare per motivi economici si sono moltiplicate, anche come conseguenza del crollo demografico dei Paesi di vecchia industrializzazione.

Il mondo odierno funziona appunto come un organismo vivente che si alimenta di materie prime ma anche di industria di trasformazione, alta tecnologia, logistica, intermediazione e marketing. Tutto sparso in giro per i continenti, senza escludere praticamente nessun Paese. L’utopia dell’autosufficienza economica è tramontata da un pezzo e i nostalgici dell’autarchia sono sparute minoranze. E questo è stato possibile non solo per le grandi imprese transnazionali, che in prima battuta hanno cercato manodopera a basso costo per poi lanciarsi a conquistare anche i mercati dove avevano delocalizzato, ma anche per il segmento dell’economia sociale: il commercio equo e solidale è stato possibile grazie ai meccanismi che hanno permesso di spostare merci e investire in Paesi fino a ieri chiusi, fino a conquistare un proprio mercato consumatore mondiale, per quanto piccolo.

La globalizzazione dell’economia ha anticipato il bisogno di una globalizzazione delle regole, dei diritti e delle risposte collettive alle sfide mondiali. Tutti i problemi che oggi dovrebbero essere affrontati dalla politica internazionale richiedono una risposta multilaterale, che si tratti di cambiamento climatico, di moderne pandemie o di regolamentare il commercio. Resta aperto anche il capitolo della pace, con decine di conflitti più o meno dimenticati che continuano a provocare morte e distruzione davanti all’impotenza, o meglio all’arroganza, di chi vorrebbe risolverli senza coinvolgere tutti gli attori. Lo dimostrano il caso palestinese e quello libico, in cui i tentativi di mediazione escludono ora una delle parti in causa, e cioè i palestinesi, ora l’intera comunità, come accade in Libia.

La mancanza di consapevolezza, l’incapacità di capire che sarebbe ora di fermarsi per ripartire da regole e sforzi condivisi spinge la comunità mondiale verso l’impotenza. E si tratta di una sensazione motivata, perché senza unità di intenti nulla si può fare per reindirizzare l’andamento globale. La politica si divide tra chi resta muto, o al massimo ripete formule di circostanza, e chi invece pensa a come trarre vantaggio dal caos geopolitico. Alla fine sono tutti perdenti, perché in un clima così instabile ed emergenziale vi sono pochi spazi per ricavare benefici sostanziali. Ma tanto vale. Il termometro della Terra segna un pericoloso aumento della febbre ma i medici facenti funzione non se ne curano. È come se stessimo vivendo un dopoguerra traumatico, ma senza lo slancio che ha sempre caratterizzato i periodi di ricostruzione: e in questo clima le pubblicità dei consumi di lusso, l’esaltazione della banalità, il rifugio psicologico nei social network stridono più che mai. Il gioco si è fatto duro per tutti, ma al momento i duri non stanno giocando. O peggio, non hanno intenzione di farlo.

 

C’è un collegamento fra la notizia, molto amplificata dalla stampa, della causa vinta da 25 ragazzi contro lo Stato colombiano che non protegge come dovrebbe l’Amazzonia e i dati inquietanti dell’AIE, l’Agenzia Internazionale dell’Energia, sull’aumento delle emissioni di CO2 a livello globale. Notizie positive, come quella colombiana, servono a rassicurarci e a far dimenticare la realtà dei fatti. Che sono impietosi. Secondo l’AIE, nel 2017 le emissioni responsabili del cambiamento climatico sono tornate a crescere: +1,4%, dopo tre anni in cui erano rimaste stabili. L’aumento ha fatto raggiungere alle emissioni il record storico di 32,3 miliardi di tonnellate emesse in un anno. Si tratta per giunta di un dato parziale, perché l’AIE misura solo le emissioni generate dalla produzione di energia e non l’incremento di CO2 dovuto all’agricoltura, all’allevamento di bestiame e alla deforestazione.

I motivi di questa crescita sono riconducibili in buona parte alla ripresa dell’economia mondiale e all’aumento dei consumi in India e in Cina. Ma il principale indiziato rimane la nostra dipendenza, ancora strettissima, dall’energia fossile. L’anno scorso il consumo di carbone è tornato ad aumentare, mentre quello di petrolio ha raddoppiato il ritmo di crescita rispetto a 10 anni fa. Questo grazie al boom del fracking e alle maggiori possibilità di sfruttare il greggio offshore. Gli obiettivi di riduzione fissati alla Conferenza sul Clima di Parigi restano un ricordo sfuocato rispetto alla sete di energia che si manifesta non appena il ciclo economico si rimette in moto.

Il dato dell’aumento delle emissioni non è omogeneo. Gli Stati Uniti, grazie ancora ai provvedimenti della precedente amministrazione e all’uso massiccio di shale gas, segnano mezzo punto in meno rispetto al 2016. India e Cina sono cresciute del 2%, che significa molto in termini assoluti, pur rallentando rispetto agli anni precedenti. La sorpresa vera arriva dall’Europa, che dopo essere stata la prima della classe negli anni 2000, nel 2017 ha aumentato le sue emissioni dell’1,5%. Complessivamente un dato inquietante, che porta l’AIE a scrivere nel suo rapporto che gli sforzi per combattere il cambiamento climatico sono insufficienti. L’allarme è confermato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, agenzia dell’ONU che ha constatato come gli ultimi tre anni siano stati i più caldi nella storia, preannunciando che il 2018 seguirà questa tendenza.

La concentrazione di CO2 nell’atmosfera, 400 parti per milione, va oltre qualsiasi variazione naturale che si sia registrata negli ultimi 800.000 anni. L’agenzia meteorologica dell’ONU stima che la situazione resterà su questi livelli per generazioni a venire. E qui torniamo ai ragazzi colombiani che hanno denunciato con successo lo Stato per i danni inflitti all’Amazzonia, in quanto ha leso i loro diritti generazionali: le future generazioni, anche se dovessero lavorare insieme per ridurre le emissioni di CO2, pagheranno comunque le conseguenze dell’uso dissennato di combustibili fossili fatto dalle generazioni precedenti. E non c’è da riporre grandi speranze, almeno sul breve periodo, nella cosiddetta rivoluzione delle rinnovabili, che resta ancora marginale e non fa la differenza. Senza dubbio la direzione resta quella del ridimensionamento dei consumi e della moltiplicazione della capacità installata di rinnovabili, ma ancora a lungo sarà il petrolio ad accompagnarci, insieme al carbone. Costano relativamente poco e ce n’è a sufficienza per portarci dritti nell’apocalisse climatica.

Immaginare un futuro diverso, e fare di conseguenza gli investimenti necessari, è uno sforzo sistematicamente rimandato a tempi migliori. Per questo fa tanto rumore la notizia dei bravissimi ragazzi che hanno vinto la causa contro uno Stato in nome dei diritti delle prossime generazioni, e così poco si parla di quei dati che implacabilmente ci ricordano che le cose, per ora, non sono affatto cambiate.