Dalla pandemia in poi, l’agenda del mondo è stata sconvolta. Soprattutto per quanto riguarda la consapevolezza che si era diffusa negli anni precedenti su una serie di temi che, si pensava, avrebbero migliorato la convivenza e la vita sul nostro pianeta. Lotta al cambiamento climatico, diffusione globale dei diritti umani, allargamento delle pratiche di commercio equo e solidale alle imprese, miglioramento dei diritti dei lavoratori e, soprattutto, pace: erano i capisaldi del pensiero positivo degli anni Duemila che, pur criticando gli aspetti negativi della globalizzazione, ne metteva in risalto soprattutto quelli costruttivi. Poi tutto è cambiato. La pandemia non solo ha obbligato tutti a una quarantena inedita, ma ha reso di attualità le differenze abissali tra i Paesi del mondo. Alcuni hanno potuto garantire più dosi di vaccini di quelle necessarie ai suoi abitanti, altri hanno dovuto arrangiarsi senza supporto medico. Alcuni avevano una sanità pubblica efficiente e uno Stato in grado di sostenere il mondo della produzione e del lavoro, in altri si moriva per strada perché senza lavorare non era possibile nemmeno a comprare il cibo. Appena usciti da questo incubo, ecco che in rapida successione si verificano il primo conflitto europeo dagli anni ’90 e la riapertura, con furia inaudita, dello scontro armato tra Israele e Palestina. E qui cambiano quasi tutte le priorità, a partire da quella della transizione energetica, con la riaccensione in molti Paesi delle centrali a carbone, il rinnovato investimento sul nucleare e, in Europa, la sostituzione delle forniture russe con gas naturale liquido importato dall’altro capo del mondo, su navi alimentate con combustibili fossili. Ma il conflitto russo-ucraino, destabilizzando il mercato dei cereali, ha comportato anche il grande ricatto sulla sopravvivenza alimentare dell’Africa; e ha sancito il ritorno trionfale della spesa militare, aumentata in tutto il mondo, e in particolare in Europa, dove nel 2023 si registra un incremento del 13% rispetto all’anno precedente. Con il conflitto mediorientale è riemersa anche la paura del terrorismo, che dopo la sconfitta dell’Isis in Siria si era molto ridimensionata.

L’insieme dei grandi eventi degli ultimi 5 anni, insomma, non ha cambiato solo le priorità ma anche le speranze sui nuovi traguardi. Oggi si torna a invocare pace, pane e lavoro, come agli inizi del Novecento. E nel frattempo ci si arma fino ai denti, perché il mondo fuori dai propri confini, dall’essere la terra promessa dei narratori della globalizzazione, per molti è tornato a essere un incubo. È come se la geopolitica, impazzita a causa delle smanie di protagonismo di Paesi che aspirano allo status di potenze, avesse spazzato via sogni e illusioni. Ma è proprio nei momenti di crisi che bisogna provare a immaginare il futuro. Come fecero Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che dal confino imposto dal regime fascista a Ventotene, in piena guerra, sognarono un’Europa unita scrivendo un manifesto diventato una pietra miliare lungo il percorso che ha portato all’Unione Europea. Nel 1941 imperversava la guerra, era in atto la Shoah, le carestie colpivano indiscriminatamente, i soldi degli Stati finivano in armi mentre soldati e civili morivano a milioni. Eppure, qualcuno sognava una soluzione che permettesse di dire basta alle guerre, gettando le basi per un futuro migliore.

I Paesi che hanno creduto in quell’intuizione non si sono più fatti la guerra e le loro popolazioni hanno sperimentato un miglioramento delle condizioni di vita che non si è mai visto altrove. Se oggi confrontiamo la nostra situazione con quella del 1941, stiamo certamente meglio: ma guerre, carestie, disperazione esistono eccome, se solo allarghiamo lo sguardo al resto del mondo. Mancano però gli Spinelli e i Rossi che ci diano la speranza di poter risalire dopo aver toccato il fondo, indicandoci un traguardo, un domani che sia migliore dell’oggi. Ma forse non è vero che mancano, semplicemente ancora non li conosciamo: dopotutto, vivere in pace e prosperità è sicuramente il desiderio della stragrande maggioranza dell’umanità.

È difficile analizzare la situazione internazionale odierna quando si perde di vista il quadro di riferimento globale. Pur restando alla larga da qualsivoglia teoria del complotto, non è difficile osservare che diversi fatti di inaudita gravità degli ultimi anni, da leggersi ciascuno nel suo specifico contesto geografico e storico, sono legati da uno stesso filo conduttore. Che rimanda alla difficile transizione dalla globalizzazione degli anni Novanta del secolo scorso, subentrata alla Guerra Fredda creando nuovi assetti geopolitici, verso un multipolarismo a blocchi variabili. Non c’è più lo schieramento ideologico della Guerra Fredda: ora si tratta degli interessi contingenti di Paesi che vorrebbero acquisire un ruolo dirimente a livello mondiale, o almeno regionale, accanto alle potenze occidentali che di quel ruolo sono storicamente detentrici. Non si spiegherebbe altrimenti la sintonia tra Iran, e Hamas, via Hezbollah: sciiti e sunniti, storicamente nemici, che trovano un comune denominatore nello scontro con Israele. Più in generale, pare delinearsi un avvicinamento tra Iran e Arabia Saudita che potrebbe porre fine a secoli di ostilità intra-musulmana, elemento che ha storicamente indebolito il mondo islamico nei confronti dei nemici esterni. Anche l’alleanza, soprattutto economica e politica, tra Cina e Russia è un inedito, rispetto a decenni – se non secoli – di reciproca diffidenza. Ancora, la neutralità di grandi potenze del Sud globale come India e Brasile è un dato nuovo, rispetto al tradizionale allineamento quasi automatico con gli Stati Uniti. Vanno distinte, però, le aspirazioni geopolitiche alimentate attraverso la forza militare, come l’invasione russa dell’Ucraina, dalla volontà di emancipazione politica sulla scena internazionale attraverso la diplomazia, come tenta di fare il Brasile di Lula.

La massima dimostrazione della grande mobilità rispetto ai blocchi del passato è forse l’avanzato dialogo condotto da Israele e Arabia Saudita per normalizzare i loro rapporti. Stabilire uno scambio di ambasciatori equivale, nel diritto internazionale, al reciproco riconoscimento della sovranità e quindi dell’esistenza stessa degli Stati. È l’ultima cosa che Hamas vorrebbe, perché se l’Arabia Saudita, punto di riferimento religioso del mondo sunnita, riconoscesse il diritto all’esistenza di Israele, vacillerebbe la linea di Hamas, che predica l’eliminazione dello Stato ebraico. È questo uno dei motivi, se non il principale, della scelta di compiere l’attacco criminale del 7 ottobre contro i civili israeliani. La risposta di Israele contro i civili di Gaza, ingiustificabile secondo il diritto internazionale, ha avuto come conseguenza il congelamento delle trattative tra Riyad e Tel Aviv e rischia di far saltare tutta la rete di relazioni tra lo Stato ebraico e il mondo arabo. Non lontano da questo scenario, nel Nagorno-Karabakh, regione popolata in maggioranza da armeni, si sta consumando l’ennesimo pogrom contro questo popolo, ancora una volta obbligato a fuggire per salvarsi la vita, nonostante sia teoricamente “difeso” da forze armate russe, ma Mosca ha scelto di stare con l’Azerbaigian, che pure è filo-turco da sempre.

Più che a una “terza guerra mondiale a pezzi”, siamo di fronte a scosse di assestamento dopo il terremoto che ha portato a un notevole ridimensionamento del peso degli Stati coinvolti nella globalizzazione. Le apparenze possono ingannare: non esiste un fronte che si oppone all’Occidente, ma semplicemente una coincidenza temporanea di interessi tra Paesi tra loro molto distanti, da tutti i punti di vista, come Russia, India, Cina, Brasile, Turchia e Iran. Gli Stati Uniti da tempo si stanno adeguando a un mondo “liquido”. Resta invece spaesata l’Europa, da un lato arroccata a difesa dei suoi passati privilegi e dall’altro ancorata a un discorso generico sulla difesa dei diritti umani, reso poco credibile dalle politiche coloniali e post-coloniali nei confronti, ad esempio, del continente africano. A proposito di Africa, anche le migrazioni sono figlie del disordine globale, e non armi contro l’Occidente, come proclama qualche imprenditore della paura. In realtà, al resto del mondo interessa molto poco ciò che succede all’interno degli Stati europei: al centro del gioco ci sono territori considerati marginali fino a poco tempo fa, diventati oggi terreno di scontro tra Paesi che aspirano a diventare nuovi punti di riferimento a livello globale.   

Nelle elezioni presidenziali argentine del 2023 saranno tre candidati a contendersi la massima carica politica. Soltanto due passeranno al secondo turno, che viene dato quasi per certo. Il paradosso, in un Paese che di paradossi è particolarmente ricco, è che i tre candidati sono tutti ascrivibili al campo del populismo, sia pur con sfumature e intensità diverse. Sergio Massa è il candidato peronista, sostenuto cioè dal partito fondato da Juan Domingo Perón a metà del Novecento, considerato un caposaldo del populismo a livello internazionale. Massa però non arriva dal peronismo bensì dalla destra liberale, ed è attualmente il ministro dell’Economia di uno Stato che veleggia attorno al 130% di inflazione annua e con il 44% della popolazione in condizioni di povertà. In nessun Paese al mondo un ministro corresponsabile di questa situazione potrebbe pensare di candidarsi, ma in Argentina la logica spesso viene sovvertita. Le ricette del populismo peronista-massiano prevedono un welfare clientelare di sopravvivenza, che non viene erogato dallo Stato ma da intermediari ormai diventati soggetti politici informali, finanziato stampando moneta come se non ci fosse un domani. L’inflazione ormai cronica, infatti, non è dovuta a un surriscaldamento dell’economia ma all’incessante produzione di denaro. Del resto, il cambio con il dollaro USA è controllato dallo Stato, che dichiara ufficialmente un tasso fasullo, pari alla metà di quello praticato nella realtà dal fiorente mercato del cambio illegale. Il populismo erogatore di pesos svalutati, “mangiati” dall’inflazione nel giro di un mese, è la cifra degli ultimi anni di governo del presidente Alberto Ángel Fernández, così impopolare che nemmeno si ricandida.

L’altro fronte politico, quello dell’alleanza tra liberali e radicali che nel 2015 portò al potere Maurizio Macri, candida Patricia Bullrich, rampolla di una delle famiglie più importanti del Paese e vicina, da giovane, al gruppo armato dei Montoneros. Lei sì proviene dal peronismo, ma lo ha abbandonato da almeno 15 anni. È stata ministra della Sicurezza di Macri e il suo populismo non passa dall’economia bensì dalla promessa di una svolta securitaria. L’Argentina ha da tempo un serio problema di sicurezza, dovuto da un lato alle conseguenze di una povertà crescente e, dall’altro, al radicamento del narcotraffico nei quartieri più poveri. La ricetta proposta da Patricia Bullrich per combattere questa situazione non accenna minimamente agli aspetti sociali, al ruolo della scuola e alla prevenzione, ma ripete il modello che Nayib Bukele sta portando avanti nel Salvador. Costruire cioè un gigantesco carcere “smart” nel quale rinchiudere e isolare i detenuti. Una prigione moderna, dove non si prenda Internet e lavori personale ben pagato e incentivato. Il modello del Salvador è nel mirino degli organismi che si preoccupano del rispetto dei diritti umani, ma ha reso molto popolare il suo presidente. Il populismo della Bullrich si caratterizza quindi per la promessa di stroncare la delinquenza soltanto attraverso la repressione e il carcere, lasciando nell’ombra la proposta economica e sociale.

E poi c’è lui, il candidato a sorpresa che rischia di diventare presidente: l’economista Javier Milei, una versione estrema di Trump e Bolsonaro. Ripropone, radicalizzandole, le ricette elaborate dall’economista Domingo Cavallo e applicate da Carlos Menem negli anni ’90 del secolo scorso, che cambiarono per sempre (e non in meglio) lo Stato argentino. Milei ha promesso di chiudere la Banca Centrale, eliminare il peso adottando il dollaro, licenziare migliaia di dipendenti pubblici che sono stati nominati dalla “casta”, chiudere i ministeri “inutili” quali l’Ambiente o il Welfare, rompere le relazioni diplomatiche con qualsiasi Paese comunista, Cina inclusa, e cambiare la linea internazionale dell’Argentina schierandola sempre e solo con gli Stati Uniti. Il populismo di Milei è quello della “sparata”: promette ciò che sa benissimo che non potrà fare, soprattutto perché, anche vincendo, non avrebbe la maggioranza parlamentare. Ma crea aspettative, si scaglia contro i politici, anche se lui stesso lo è, e convince persone che non hanno gli strumenti per giudicare ciò che dice. Dopotutto, nasce come personaggio televisivo: ha una capacità di usare i media superiore a quella di tutti gli altri candidati.

Alle primarie obbligatorie del mese di agosto, i tre candidati si sono divisi l’elettorato in fette quasi uguali. Un terzo di voti a testa per ciascuna sfumatura di populismo. Forse, ancora una volta, l’Argentina anticipa i tempi rispetto al futuro che ci aspetta. Abbiamo già conosciuto gli Orbán, i Bolsonaro, i Trump, ma in contesti dove c’erano forze responsabili in grado di contrastarli. In Argentina non è così. L’intera offerta politica ha il marchio di fabbrica del populismo, che non è sinonimo di una politica “popolare”, non lavora per elevare la condizione economica e culturale della gente, ma usa il popolo per raggiungere i propri obiettivi, assecondando e amplificando gli umori della strada. In Argentina vincerà chi sarà in grado di lisciare il pelo degli elettori con le promesse, vere o false, che faranno più rumore, che sembrino più rivoluzionarie e facciano sognare, almeno per quei pochi giorni che passano tra l’insediamento di un presidente populista e la smentita delle promesse fatte in campagna elettorale.

Il cambiamento climatico incide sempre più sulla vita quotidiana delle persone in tutto il mondo. L’ultimo caso di cronaca viene dal Paese dove il riscaldamento anomalo del Pacifico fu battezzato con il nome di Niño: il Perù. Come in tutti i Paesi del Pacifico americano, in Perù si fa largo uso dell’agrume che chiamiamo lime. È un ingrediente essenziale del piatto nazionale, il ceviche, a base di pesce o molluschi crudi marinati, appunto, nel succo di questo frutto. Ma gli effetti dell’ultimo Niño costero, e cioè le anomale precipitazioni che si sono registrate sulle coste del Pacifico, hanno portato alla scarsa fioritura degli alberi di agrumi, favorendo una moltiplicazione delle altre piaghe che possono colpire queste colture e determinando un crollo della produzione di lime. Come sempre accade in casi simili, si è innescato anche un fenomeno speculativo con il risultato del raggiungimento di un prezzo record per l’agrume. Attualmente lo si sta vendendo a 25 soles al chilo, poco più di 6 euro, ma ha toccato punte di 80 soles (20 euro), cifra ragguardevole in Sudamerica. Questa fiammata dei prezzi è andata a intaccare la cultura gastronomica peruviana, rendendo costoso un cibo popolare come il ceviche: molti consumatori hanno aderito a un boicottaggio del lime che pare abbia provocato un lieve calo dei prezzi.

Sul tema, che rimane caldissimo in Perù, è intervenuto pubblicamente il ministro dell’Economia Alex Contreras, che ha distribuito consigli ai cittadini. Per la precisione, consigli su cosa mangiare: aggiornando la celebre frase sulle brioche attribuita a Maria Antonietta, in realtà un clamoroso falso storico, Contreras ha suggerito di mangiare pollo ai peruviani che non possono più permettersi il ceviche. La vicenda ha del grottesco, se non fosse che ancora una volta vediamo emergere la nostra fragilità, e soprattutto quella delle nostre consuetudini, davanti al gigantesco problema del cambiamento climatico, aggravato da un modello di consumo che rende ancora più fragile la Terra. In Sudamerica, in Africa, nell’Asia meridionale si sta sempre più disboscando per produrre avocado, lime, mango, ananas, olio di palma, fiori, soia, foglie di coca. La deforestazione incide fortemente sull’anidride carbonica liberata in atmosfera, poiché di solito avviene incendiando i boschi per creare piantagioni, a loro volta destinate a essere pericolosamente esposte ai capricci di un clima impazzito. Siccità alternata a piogge alluvionali, aumento di eventi meteorologici estremi e nuove malattie pongono giganteschi punti interrogativi sulla sostenibilità di questo modello, utile soltanto agli interessi dei fornitori del grande circuito dei consumi globali: quelli che determinano i prezzi delle materie prime e che impongono le mode attraverso le serie TV, il cinema e la miriade di cuochi (o pseudo tali) che infesta la comunicazione social.

I peruviani passeranno forse al pollo, allevato in modo intensivo e creando gravi danni all’ambiente. Il pollo inevitabilmente subirà un aumento del prezzo e il circolo vizioso ripartirà. La grande industria dell’agrobusiness riesce sempre a compensare le perdite causate dai cambiamenti climatici, mentre la politica si limita ai consigli su cosa mangiare ed esclude a priori di regolamentare il settore, dal punto di vista sia produttivo che ambientale. A noi non resta che aspettare e sperare che il nostro cibo preferito non sparisca o non diventi troppo caro. Se succederà, dovremo provare a cambiare abitudini. Ma le brioche ormai sono finite.

La presenza di Joe Biden a un picchetto di scioperanti dell’industria automobilistica del Michigan non rappresenta solo una “prima volta” per un presidente degli Stati Uniti, ma anche una sterzata epocale per i progressisti nel mondo. Con un gesto che ha sorpreso gli osservatori, Biden ha riportato il Partito Democratico ai valori di un tempo, quando era chiaro quale settore della società rappresentasse e quale fosse la sua visione della società e dell’economia. Dopo decenni di allineamento con le idee scaturite dalla famosa “terza via” di Tony Blair e Bill Clinton, e cioè assecondare le richieste di minore tassazione e di contenimento salariale avanzate dai grandi gruppi economici, Biden prende atto delle enormi distanze sociali che si sono create a causa di un mercato deregolamentato, nel quale l’accumulo di ricchezza è avvenuto solo per i ceti più alti. Da un lato imprese che hanno registrato profitti record, amministratori delegati che negli ultimi 5 anni hanno visto aumentare i loro stipendi del 40%, e dall’altro operai sempre più poveri, con salari congelati e vittime dell’inflazione, che sta spingendo una vasta parte del ceto medio verso la povertà.

È la seconda ondata delle conseguenze della globalizzazione, che in un primo momento ha spostato posti di lavoro dall’Occidente all’Oriente in cerca di un minore costo del lavoro. Ora che le delocalizzazioni si sono fermate, si scopre che in Occidente non solo i lavoratori dell’industria sono notevolmente diminuiti, ma anche che quelli che hanno mantenuto un posto di lavoro sono scivolati nella povertà. La categoria dei lavoratori poveri, cioè le persone che non riescono a soddisfare i propri bisogni elementari malgrado abbiano un impiego, è apparsa per la prima volta in Occidente proprio negli Stati Uniti. Si trattava, in principio, di uomini e donne che svolgevano lavori non qualificati nella filiera dei servizi. Oggi però l’impoverimento è generalizzato. È come se si fosse rotto il patto sociale risalente al secondo dopoguerra, fondato su salari degni e un welfare di qualità. Questi ultimi anni hanno visto, invece, un veloce deterioramento sia dei servizi offerti dallo Stato sia dei salari, e non perché l’economia vada generalmente male. Semplicemente, l’accumulo di risorse al vertice della scala sociale è aumentato. La domanda che si sono posti gli scioperanti negli Stati Uniti è: per chi fabbrichiamo automobili, se noi stessi non possiamo più permettercele? Non è una domanda da poco, perché l’industrializzazione di massa dell’Occidente si sviluppò insieme al progressivo aumento del potere d’acquisto dei lavoratori. Lo stesso fenomeno si è verificato molto più recentemente in Cina, dove fin d’ora si pone la stessa questione. Se la crescita rallenta, la capacità di consumo interna ne soffre, e con essa interi comparti industriali dedicati a soddisfare le richieste dei ceti economicamente emergenti.

Questa situazione era stata letta finora solo con la lente del populismo di destra, che la attribuisce non alla grande sperequazione tra i ceti sociali e al mercato del lavoro, ma alla concorrenza di altri Paesi o degli immigrati. Donald Trump fece la sua fortuna elettorale nel 2016 dicendo di rappresentare i “bianchi impoveriti”, cioè il mondo operario colpito dalle delocalizzazioni. Oggi però è in imbarazzo perché lo sciopero del settore automobilistico porta alla luce problemi, come la concentrazione dei guadagni in poche mani, che un miliardario difficilmente riconoscerà. D’altra parte, Biden e i democratici dovranno fare molto di più di presenziare ai picchetti degli scioperanti. Andrebbero ridiscussi il salario minimo, le tutele, la tassazione dei profitti, gli investimenti industriali e sociali delle grandi multinazionali. Sicuramente, l’immagine del presidente democratico degli Stati Uniti col megafono in mano di fronte ai cancelli di una fabbrica entrerà nei libri di storia, perché segna un prima e un dopo nei processi di cambiamento che sta vivendo il mondo, in eterna transizione dalla fine della Guerra Fredda.

Il primo dicembre 1959 a Washington i rappresentanti di 19 Stati firmavano il Trattato Antartico, che regolava le attività sul continente bianco, vietando ad esempio lo sfruttamento economico e la creazione di basi militari e arsenali. Anche se diversi Paesi vi hanno costruito basi permanenti, l’Antartide è tuttora considerato un bene comune dell’umanità e, di conseguenza, nel continente sono autorizzate solo attività scientifiche. In questi anni si sta tentando di raggiungere un risultato simile al Trattato Antartico con i fondali sottomarini che sono situati fuori dalla giurisdizione degli Stati, così da impedirne lo sfruttamento minerario. Equivalgono al 60% dell’estensione totale degli oceani e fanno sempre più gola per la loro ricchezza di minerali e terre rare, presenti in quantità superiore a quanto estratto in tutta la storia dell’industria mineraria. I giacimenti si trovano quasi sempre a grandi profondità, ma l’innovazione tecnologica li rende ogni giorno più a portata di mano. Anzi, già oggi si sta iniziando a raccogliere croste ricche di cobalto, solfuri polimetallici e soprattutto noduli polimetallici, cioè concrezioni delle dimensioni di una palla da baseball che contengono manganese, ferro, rame, nichel e terre rare. L’estrazione avviene con giganteschi aspiratori che portano in superficie tutto ciò che riescono a risucchiare dai fondali, biodiversità compresa. Una società canadese, The Metals Company, ha annunciato che già nel 2024 darà il via all’estrazione di noduli dalle profondità del Pacifico.

L’autorità ONU che sta discutendo come regolamentare queste attività è l’ISA (International Seabed Authority), con sede a Kingston, in Giamaica. L’ISA venne delegata a gestire le questioni minerarie nel 1982 dalla Convenzione ONU sul Diritto del Mare (Unclos), che regola lo sfruttamento e la tutela degli oceani. Divenuta operativa nel 1994, conta 167 Stati aderenti più la UE; è governata da un Consiglio formato da 36 Paesi e da un gruppo di esperti che rilascia i permessi di sfruttamento, 31 finora. Attorno a questa agenzia dell’ONU si concentrano ultimamente molti interessi contrastanti. In teoria, i profitti del ricavato dalle attività minerarie in acque non territoriali dovrebbero essere redistribuiti tra “l’intera umanità”, idea che è ovviamente osteggiata dalle grandi compagnie multinazionali minerarie. D’altra parte, la campagna lanciata da WWF e Greenpeace per difendere i fondali trova la simpatia di diversi gruppi industriali che fanno largo uso di metalli, ma anche dal gigante del web Google. Tutti temono la perdita di biodiversità legata allo sfruttamento dei fondali in una situazione da Far West, senza regole né freni. Per questo l’ISA viene sollecitata anche da diversi Stati europei, capeggiati da Germania e Francia, affinché stabilisca regole definitive per le attività di deep sea mining. Non tutti i Paesi sono però concordi. Gli Stati Uniti, che non hanno mai aderito all’Unclos e nell’ISA sono solo osservatori, non si sbilanciano sulle concessioni minerarie. La Cina attualmente è il paese che ha ottenuto più licenze di sfruttamento minerario oceanico da parte dell’ISA, insieme alla Russia e alla Norvegia, che da parte sua ha autorizzato estrazioni nell’Artico.
Nell’incertezza giuridica circa un bene comune dell’umanità, ancora una volta, anziché ripensare un modello di sviluppo che continua a consumare risorse non rinnovabili senza preoccuparsi delle ricadute ambientali, si fa melina, per lasciare aperti quegli spazi all’attività estrattiva che già sulla terraferma ha causato danni giganteschi. 

FILE PHOTO: Greenpeace activists from New Zealand and Mexico confront the deep sea mining vessel Hidden Gem, commissioned by Canadian miner The Metals Company, as it returned to port from eight weeks of test mining in the Clarion-Clipperton Zone between Mexico and Hawaii, off the coast of Manzanillo, Mexico November 16, 2022. REUTERS/Gustavo Graf

Ormai quando si parla di colpi di Stato non si pensa più all’America Latina, ma all’Africa. Non che in passato l’Africa sia stata immune dai golpe, ma raramente i media si degnavano di prestare attenzione, perché i colpi di Stato avvenivano per ordine di qualche ex metropoli coloniale o tra regimi militari. Le statistiche ci dicono che da sempre esiste un “primato africano” in materia, con ben 214 colpi di Stato tentati tra il 1950 e il 2022, di cui 106 riusciti e 108 falliti, contro i 146 totali dell’America Latina. Sull’altra sponda dell’Atlantico, la maggior parte delle irruzioni al potere da parte dei militari era dovuta alle modalità di svolgimento della Guerra Fredda nel continente americano, che prevedeva l’eliminazione di qualsiasi esperienza politica anche moderatamente riformista. In Africa, anche se non sono mancati episodi ascrivibili alla Guerra Fredda, la maggior parte dei colpi di Stato nasceva da rivolte intestine all’esercito e, soprattutto, erano strumenti per insediare al potere politici favorevoli a Parigi o a Londra. Ma gli otto colpi di Stato che si sono verificati negli ultimi tre anni fanno capire che il golpismo africano sta cambiando natura. Anzitutto, la regione dove si sono concentrate le principali fratture della legalità democratica è il Sahel, la sponda sud del Sahara. Quel pezzo centrale della France-Afrique, cioè della comunità di ex colonie francesi legate ancora a doppio filo a Parigi, non solo per la moneta storicamente ancorata al franco, e ora all’euro, ma anche per la cooperazione internazionale, il commercio con l’estero, gli investimenti e la cultura. I militari hanno presso il potere in Mali, Burkina Faso e Niger sottolineando la loro distanza da Parigi. Ma storici alleati di Parigi sono stati spazzati via anche nell’Africa centrale francofona, in Gabon e Guinea.

Molto si è scritto sul ruolo giocato dai mercenari del Gruppo Wagner, che in qualche caso hanno davvero fornito assistenza militare ai golpisti. I motivi profondi di questa ondata golpista vanno però cercati nella fine di un modello: quello degli Stati indipendenti sulla carta, ma di fatto a sovranità limitata e ancora dipendenti dalle potenze ex coloniali. Un modello che non ha portato benefici economici alla popolazione e che ha soffocato la democrazia sostenendo dinastie di predoni, come il clan Bongo, al potere in Gabon per decenni. Quel modello ben si sposava con il dettato ideologico della Guerra Fredda, perché quei regimi erano lontani da Mosca, ma è entrato in crisi con lo sbarco in Africa della Cina e dei suoi comprimari russi e turchi. La presenza cinese ha spezzato lo storico monopolio economico e politico francese e, nella nuova situazione, per la prima volta i Paesi africani hanno avuto la possibilità di scegliere come posizionarsi.

Se a tutto ciò si aggiungono la debolezza dell’Europa e la presenza massiccia della Russia, attraverso le compagnie di mercenari, si comincia a comprendere il quadro generale. Nelle rivolte che hanno portato ai colpi di Stato civico-militari di questi mesi ci sono forti elementi anti-francesi, parole d’ordine storiche della lotta anticoloniale, richieste di democrazia e partecipazione. Sono soprattutto i giovani che stanno dicendo basta allo storico allineamento con un’Europa preoccupata soltanto di tamponare l’espansione dello jihadismo e di frenare le migrazioni: un programma valido solo per una delle parti in causa, l’Europa, che non è abituata alla contestazione delle sue politiche da parte degli africani. L’Africa chiede di più, molto di più. Sicurezza alimentare e ambientale, opportunità di impresa e di lavoro, libertà di parola e democrazia, istruzione e sanità. Che questi temi possano essere soddisfatti dai momentanei vincitori sino-russi è molto dubbio. Che la voglia di democrazia e partecipazione rischi di essere velocemente soffocata appare molto probabile. Ma va registrato che, almeno per una volta, Paesi modellati dal colonialismo europeo dicono basta, mandando un messaggio chiaro a tutti. L’Africa non è solo emergenza, non è solo un problema, è anche e soprattutto un’opportunità e una risorsa per chi la vuol cogliere. Una risorsa che però non deve essere più predata, ma coltivata e condivisa.

Il G20 di New Delhi ha fotografato il momento storico che stiamo vivendo. I protagonisti dell’incontro sono stati la Cina, assente però il suo presidente, la Russia che è rimasta alla finestra, l’India che ospitava l’evento e gli Stati Uniti, impegnati nel tentativo di sottrarre spazio politico alla Cina. E poi qualche comprimario, come il Brasile, che ora presiederà il gruppo. L’Europa, che come sempre si presentava divisa, non è pervenuta. La vera posta in gioco di questo G20 è stato il bisogno delle nuove potenze di segnare il campo, di farsi rispettare per ciò che rappresentano nell’economia e nella demografia del XXI secolo, superando la logica tradizionale dei “blocchi”. Le relazioni tra nuove e vecchie potenze sono infatti fluide. C’è un fronte dichiaratamente antioccidentale, ovviamente capeggiato dalla Russia e sostenuto nell’ombra dalla Cina. C’è un fronte che gioca su due sponde, con l’India in testa: un po’ terzomondista, un po’ amico degli Stati Uniti in chiave anticinese. E c’è anche un blocco che ricorda i “non allineati” di un tempo, guidato dal Brasile, che rivendica una politica di mani libere per scegliere con chi e come fare affari.

In queste diverse geometrie che hanno misurato le proprie forze a New Delhi, di occidentale restano solo gli Stati Uniti, punto di riferimento inevitabile sia come alleati sia come nemici. Per il resto, siamo già entrati nell’era post-globale, in cui vengono alla luce le geopolitiche dei Paesi del cosiddetto “Sud del mondo”. Per Pechino, il mondo è ormai del tutto frammentato e rappresenta perciò un campo di gioco ideale nel quale far valere la propria potenza economica. Per l’India, invece, il mondo è ancora guidato da logiche post-coloniali e per governarlo è necessario associarsi alla potenza globale americana, pur restando indipendenti.

Il comunicato finale del G20 è stato un esempio di pragmatismo: a forza di mediare, alla fine si sono dette solo cose ovvie, che nessuno poteva rifiutare di sottoscrivere. E infatti il comunicato è stato firmato sia dagli Stati Uniti sia dalla Russia, con grande soddisfazione del vero vincitore del summit, il premier indiano Narendra Modi.

Al di là del braccio di ferro tra le nuove potenze asiatiche, questo vertice ha lasciato molto poco: forse l’unico dato positivo è stata l’inclusione dell’Unione Africana in quello che ormai è un G21. L’agenda del mondo sulla quale si doveva discutere è sfumata o è rimasta in sospeso. Cambiamenti climatici, disparità di genere, transizione energetica, finanza globale, multilateralismo. Temi centrali sui quali si aspettavano parole di indirizzo, se non veri piani di azione, e che invece sono stati rimandati al prossimo vertice. Perché in questa fase il punto è come garantirsi un posto di rilievo nella cabina di regia del nuovo mondo, come comportarsi da potenze globali senza avere una tradizione alle spalle. Che l’India, fino a 75 anni fa una colonia inglese, si candidi a guidare la globalizzazione insieme a Cina e Stati Uniti può apparire clamoroso. Ma questo perché gli analisti non hanno saputo registrare, e hanno sempre sottovalutato, ciò che stava succedendo nel mondo dalla fine della Guerra Fredda in poi.

Il G20 di New Delhi ha fotografato il momento storico che stiamo vivendo. I protagonisti dell’incontro sono stati la Cina, assente però il suo presidente, la Russia che è rimasta alla finestra, l’India che ospitava l’evento e gli Stati Uniti, impegnati nel tentativo di sottrarre spazio politico alla Cina. E poi qualche comprimario, come il Brasile, che ora presiederà il gruppo. L’Europa, che come sempre si presentava divisa, non è pervenuta. La vera posta in gioco di questo G20 è stato il bisogno delle nuove potenze di segnare il campo, di farsi rispettare per ciò che rappresentano nell’economia e nella demografia del XXI secolo, superando la logica tradizionale dei “blocchi”. Le relazioni tra nuove e vecchie potenze sono infatti fluide. C’è un fronte dichiaratamente antioccidentale, ovviamente capeggiato dalla Russia e sostenuto nell’ombra dalla Cina. C’è un fronte che gioca su due sponde, con l’India in testa: un po’ terzomondista, un po’ amico degli Stati Uniti in chiave anticinese. E c’è anche un blocco che ricorda i “non allineati” di un tempo, guidato dal Brasile, che rivendica una politica di mani libere per scegliere con chi e come fare affari.

In queste diverse geometrie che hanno misurato le proprie forze a New Delhi, di occidentale restano solo gli Stati Uniti, punto di riferimento inevitabile sia come alleati sia come nemici. Per il resto, siamo già entrati nell’era post-globale, in cui vengono alla luce le geopolitiche dei Paesi del cosiddetto “Sud del mondo”. Per Pechino, il mondo è ormai del tutto frammentato e rappresenta perciò un campo di gioco ideale nel quale far valere la propria potenza economica. Per l’India, invece, il mondo è ancora guidato da logiche post-coloniali e per governarlo è necessario associarsi alla potenza globale americana, pur restando indipendenti.

Il comunicato finale del G20 è stato un esempio di pragmatismo: a forza di mediare, alla fine si sono dette solo cose ovvie, che nessuno poteva rifiutare di sottoscrivere. E infatti il comunicato è stato firmato sia dagli Stati Uniti sia dalla Russia, con grande soddisfazione del vero vincitore del summit, il premier indiano Narendra Modi.

Al di là del braccio di ferro tra le nuove potenze asiatiche, questo vertice ha lasciato molto poco: forse l’unico dato positivo è stata l’inclusione dell’Unione Africana in quello che ormai è un G21. L’agenda del mondo sulla quale si doveva discutere è sfumata o è rimasta in sospeso. Cambiamenti climatici, disparità di genere, transizione energetica, finanza globale, multilateralismo. Temi centrali sui quali si aspettavano parole di indirizzo, se non veri piani di azione, e che invece sono stati rimandati al prossimo vertice. Perché in questa fase il punto è come garantirsi un posto di rilievo nella cabina di regia del nuovo mondo, come comportarsi da potenze globali senza avere una tradizione alle spalle. Che l’India, fino a 75 anni fa una colonia inglese, si candidi a guidare la globalizzazione insieme a Cina e Stati Uniti può apparire clamoroso. Ma questo perché gli analisti non hanno saputo registrare, e hanno sempre sottovalutato, ciò che stava succedendo nel mondo dalla fine della Guerra Fredda in poi.

Nell’ultimo anno, sulla scena internazionale sono state confermate alcune tendenze e si sono affacciate nuove questioni. L’affanno per l’uscita dalla pandemia è stato prolungato dal conflitto ancora in corso in Ucraina: un fallimento militare dal punto di vista della Russia, che non ha raggiunto nessuno degli obiettivi annunciati al momento dell’invasione. La Crimea non è in sicurezza, i territori del Donbas sono ancora in bilico e il governo di Kiev è saldamente insediato. L’onda lunga del conflitto si è però abbattuta con forza anche molto lontano dallo scenario bellico. La sicurezza alimentare dell’Africa continua a essere in pericolo, l’inflazione dovuta all’aumento del prezzo delle materie prime preoccupa soprattutto l’Europa. E il mondo si è diviso in due, non tanto sull’interpretazione del casus belli, quanto sul come uscire dalla guerra. I Paesi della NATO, guidati nel conflitto da Stati Uniti e Regno Unito, hanno scommesso sulla vittoria di Kiev; i Paesi del Sud globale fin dal primo momento si sono posti come priorità la ricerca del dialogo tra le parti, ritenendo che non fossero possibili vittorie nette sul campo. L’Organizzazione degli Stati Africani, il Brasile di Lula e l’India di Narendra Modi, la Cina e addirittura il Vaticano da mesi fanno la spola tra Russia e Ucraina per provare a far ripartire il dialogo.

Nel frattempo, lo stallo ha confermato diverse cose che si potevano intuire da tempo. La prima è che i conflitti post-Guerra Fredda hanno forse una minore capacità distruttiva globale, ma sono più complicati da risolvere a causa del forte intreccio tra i diversi Paesi che si è creato nell’economia globale. La Russia non è più l’Unione Sovietica, che poteva contare sulla “sua” metà del mondo e, soprattutto, non dipendeva dai rapporti economici con l’Occidente; e i Paesi occidentali non possono più pensare di dettare linea al resto del mondo pretendendo un allineamento che nei fatti non esiste più. Il G7 è ormai depotenziato, ma il G20 non è ancora il suo successore. Prevale la competizione tra i diversi blocchi che aspirano ad avere le stesse armi, tecnologiche ed economiche, per affermarsi. I campi sui quali va in scena questo nuovo confronto sono quelli delle materie prime strategiche, come le terre rare e il litio, ma anche l’acqua e i beni alimentari, sui quali da anni sta investendo la Cina. Su questo fronte l’Occidente è impreparato, avendo basato il suo storico dominio sulla forza militare e tecnologica.

L’obiettivo evidente dei tanti Paesi che vorrebbero entrare nel gruppo dei BRICS è fare una scelta di posizionamento rispetto al nuovo bipolarismo che si va delineando. Nel suo discorso al “summit” per la nuova finanza, tenutosi a Parigi il 22-23 giugno, Lula ha chiesto il superamento degli Accordi di Bretton Woods che disegnarono l’economia mondiale del dopoguerra, e di conseguenza il ridimensionamento del dollaro statunitense quale moneta mondiale. Su questo fronte le armi non servono: serve invece la politica, una dimensione abbandonata da molto tempo.

In qualche modo l’estate del 2023 sancisce la fine del lungo periodo inaugurato dalle cannoniere che in epoca vittoriana piegarono l’Asia e l’Africa, e in America dalla “politica del cortile di casa” attuata da Washington nei confronti dell’America Latina. Le distanze restano siderali, è evidente, ma l’interdipendenza tra Stati e continenti è arrivata a un livello tale da non lasciare spazio per operazioni “fuori dal sistema”. Nei prossimi mesi la capacità di fare buona politica sarà cruciale per chiudere il conflitto in Europa, disinnescare le tensioni nel mar della Cina e, soprattutto, affrontare il tema del cambiamento climatico, applicando le misure necessarie ad arginarlo e a farci convivere con le sue conseguenze: è la priorità numero uno del pianeta Terra. In caso contrario, la paralisi attuale può lasciare spazio solo a un peggioramento della situazione. Un orizzonte per il quale però il tempo è scaduto, e da molto.