La notizia è di quelle ghiotte per la stampa alla ricerca di notizie “di colore”: alla piccola tribù dei Marúbo, un popolo sperduto dell’Amazzonia, il sistema satellitare Starlink ha concesso il collegamento a Internet e in pochi mesi le abitudini degli indios sono cambiate, in peggio. La fonte è l’autorevole «The New York Times», che ha condotto un’indagine giornalistica come si deve, verificando nomi e fatti e andando sul posto, dunque nell’Amazzonia brasiliana, per parlare con i protagonisti. La riduzione acchiappa-click invece, Internet+indios=pigrizia e caos, è una manna dal cielo per la stampa internazionale che ha ripreso la notizia. Partiamo dai fatti allora. L’iniziativa di portare Internet nella foresta parte da una richiesta di aiuto della tribù Marúbo e di una cittadina statunitense di nome Allyson Reneau che si presenta come consulente spaziale, speaker motivazionale, autrice, pilota, cavallerizza, operatrice umanitaria e madre di 11 figli biologici. Raggiunta la cifra di 15.000 dollari attraverso donazioni, Allyson ha portato nel territorio dei Marúbo 20 antenne Starlink che hanno permesso il collegamento tra i diversi villaggi sparsi a distanza di decine di chilometri. E poi, secondo la stampa, è successo il pandemonio: dopo pochi mesi le ragazze si sono incollate ai telefonini per guardare video su TikTok mentre i maschi prediligono guardare film pornografici, e da allora nessuno lavora più in un luogo dove il cibo bisogna procurarselo da soli.

Sul «New York Times» si racconta che grazie a WhatsApp finalmente i Marubo possono restare in contatto con i parenti che vivono da altre parti e chiedere aiuto in casi di emergenza sanitaria, possono segnalare rapidamente alle autorità eventuali violazioni dei loro territori e i ragazzi hanno modo di seguire lezioni scolastiche a distanza. Ma per tutti la notizia è un’altra: gli indigeni dell’Amazzonia, appena possono, si perdono nei meandri di TikTok come adolescenti. C’è da chiedersi dove stia la novità. Anche in questo caso, infatti, emergono categorie profondamente radicate nella visione colonialista che considera gli indios, specie quelli che vivono nelle foreste, come inferiori o come “bizzarrie” dell’umanità. Se emergesse che gli indios si comportano come tutte le altre persone, i suprematisti (più o meno consapevoli) resterebbero stupiti. Ma il pregiudizio è anche di chi idealizza questi popoli e, parafrasando Rousseau che riteneva l’essere umano buono per natura, recupera lo stereotipo del buon selvaggio corrotto dalla civilizzazione, in questo caso da Internet. In ogni caso, per le tribù di nativi americani non può e non deve esistere una normalità: queste donne e questi uomini non possono essere semplicemente percepiti come persone che, vivendo in condizioni estreme, hanno sviluppato una cultura materiale e immateriale fortemente collegata alla natura nella quale vivono e dalla quale traggono sostentamento. Per molti latifondisti sono occupanti fastidiosi delle foreste, addirittura abusivi, da eliminare per fare crescere l’economia; per altri sono saggi-sciamani che vivono in una dimensione esotica in cui reale e fantastico si fondono, tra ambientalismo primitivo e rituali esoterici e misteriosi.

Dovrebbe essere l’etnologia, dopo aver studiato per decenni questi popoli con precisione entomologica, ad affermare con forza la loro condizione di “normalità”. E chiedere che si smetta di farne oggetto di curiosità e divertimento, come accadeva ai tempi degli “zoo umani” delle esposizioni internazionali in cui venivano esibiti per diletto degli abitanti delle metropoli europee, e come accade oggi quando li si tratta da cavie, esponendoli all’uso di Internet in modo improvviso, senza alcuna formazione. I giovani indios dell’Amazzonia corrono gli stessi rischi di tutti gli altri ragazzi del mondo che vengono catapultati nel mondo virtuale senza preparazione. Ma per gli altri questo è normale. Fa notizia solo nel caso dei ragazzi Marúbo che portano le piume in testa.

Una delle frasi fatte che ascoltiamo più spesso quando si parla dell’Europa comunitaria è quella che la descrive come eternamente “al bivio”. Ma tra quali possibilità? I punti di vista divergono sempre tra chi vorrebbe un rafforzamento delle istituzioni comuni, opzione che presuppone un maggiore trasferimento di sovranità a Bruxelles, e chi vorrebbe invece un recupero di sovranità da parte degli Stati su temi quali l’economia o le politiche ambientali, senza per questo chiedere lo smantellamento dell’Unione. A distanza di 67 anni dai Trattati di Roma, le due anime europee continuano a misurarsi senza mai approdare a una sintesi. L’anima che si ispira all’utopia di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli degli Stati Uniti d’Europa e l’anima nazionalista che è interessata solo ai vantaggi che l’Unione offre in quanto grande mercato interno. Per decenni quest’ultima posizione è stata apertamente sostenuta dal Regno Unito, ma in modo meno esplicito è stata condivisa anche dalle potenze continentali che hanno frapposto ostacoli a una reale trasformazione dell’UE da unione a federazione: soprattutto dopo i referendum franco-olandesi del 2005, responsabili dell’affossamento della Costituzione che avrebbe permesso la nascita di un “superstato”. Nel frattempo, l’Unione cresceva e l’aumento degli Stati membri ha allontanato sempre di più la possibilità di raggiungere l’unanimità necessaria per i passaggi cruciali.

Bisogna però ricordare che esiste già un meccanismo, quello della cooperazione rafforzata, che permetterebbe a un gruppo di Paesi europei di andare oltre i Trattati, ad esempio gestendo in comune la difesa e la politica estera. Ma sono temi molto sensibili. Per i 27 Stati mantenere il comando ciascuno del proprio esercito è sempre gratificante, per quanto il comando sia finto, essendo questi eserciti quasi tutti membri della Nato a trazione nordamericana. Parigi, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha rimesso al centro la questione della difesa comune, ovviamente costruita attorno alla Francia in quanto unica potenza nucleare dell’Unione. Delle altre materie non si parla: cittadinanza comune, gestione dei flussi migratori, welfare, fiscalità. I grandi nodi che potrebbero fare la differenza tra la realtà ibrida attuale e uno Stato sovranazionale. Abbiamo l’euro, anche se solo per 20 Paesi, l’unica moneta nella storia che non viene coniata da uno Stato ma è gestita da una Banca Centrale che deve fare i conti con 20 ministri dell’economia e 20 debiti sovrani, e quindi con lo spread, un fenomeno impossibile da immaginare con qualsiasi altra moneta. Questa anomalia doveva essere solo temporanea, invece sta diventando permanente. Questo lento galleggiare è diventato pericoloso. Nelle campagne elettorali, comprese quelle per le elezioni europee, ormai si parla solo di questioni interne e cresce il disinteresse dei cittadini per un’Unione che sembra molto lontana, ma che in realtà ormai da anni condiziona la nostra vita quotidiana. Volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, molte delle scelte fatte in campo ambientale, agricolo, economico e culturale sono state dettate dall’UE, che resta un bastione della democrazia e dei diritti a livello mondiale. Non esiste area al mondo dove gli indicatori economici, sociali e politici siano così alti. Ed è proprio questo punto che rende l’insipienza della politica europea un danno non solo per i cittadini comunitari ma anche per il resto dell’umanità. Manca drammaticamente sulla scena internazionale un protagonista con le caratteristiche dell’Unione. Diverso rispetto alle potenze governate da autoritarismi o totalitarismi quali la Russia, l’Iran o la Cina, ma anche diverso rispetto agli Stati Uniti dove la democrazia si sta rapidamente deteriorando ed è nato il “doppio standard” sui diritti in politica estera. Il vero bivio dell’Europa sta qui: deve scegliere se essere protagonista in positivo sulla scena mondiale oppure un semplice conglomerato per lo scambio di beni e servizi. Due posizioni diverse, entrambe rispettabili, sulle quali si spera che gli elettori diano un segnale chiaro. 

Tutti i populisti, anche se di segno politico diverso, presentano tratti in comune. Il primo, che da sempre spicca sugli altri, è l’attacco violento portato al rivale non solo sul piano politico ma anche, e soprattutto, su quello personale. Demolire l’avversario, accusarlo di essere corrotto o debole, anziano o poco avvenente, affermare che ha parentele o amicizie “pericolose”: fa tutto parte della retorica corrente dei populisti. Non importa, ovviamente, che le accuse di immoralità, di corruzione o di altri reati siano o meno fondate – anzi, spesso sono fake news di portata gigantesca – né che l’avversario mai si sognerebbe di compiere a sua volta attacchi che scendano sul piano dell’aspetto o della prestanza fisica. Invece Donald Trump può daredel “vecchio rimbambito” a Joe Biden, malgrado i suoi 77 anni abbondanti (e portati piuttosto male); Javier Milei seminare in pubblico sospetti sulla moglie del primo ministro spagnolo in base ad acclarate fake news; e Vladimir Putin affermare che le istituzioni ucraine sono in mano a una classe politica interamente nazista. Hitler, del resto, costruì la sua criminale ascesa politica “spiegando” che certi tratti somatici degli ebrei confermavano il loro essere colpevoli di tutti i mali della Germania. Venendo a noi, su un livello diverso e assai meno pericoloso, un certo comico italiano prestato alla politica iniziò il suo percorso dando del “nano pelato” o dello “psiconano” all’avversario.

Il populismo, infatti, non punta a vincere sul piano delle idee, come è normale in democrazia, ma si spinge ben oltre. Punta a demonizzare e demolire il pensiero avverso, ad attaccare fisicamente coloro i quali ostacolano un percorso che mira, in sostanza, a costruire un regime. Per questo l’offesa al rivale, l’attacco che ne prende di mira la fisicità o l’età, è tipico del fascismo. Che non cerca il confronto ma solo la prevaricazione, soprattutto con la forza, perché non considera il dissenso un diritto né tantomeno una voce da ascoltare per migliorare il proprio operato, ma lo interpreta come un atto d’insurrezione, una ribellione contro l’ordine che si vuole costruire. Chi è contrario, allora, è una zecca”, uno “scarafaggio”, un “ratto”. 

Quanto pesino problematiche di salute mentale nel comportamento di diversi populisti è difficile da stabilire: il terreno è scivoloso, e non vorremmo rischiare di scendere sullo stesso piano. Quello che è evidente è che in tempi e scenari politici, culturali e politici diversi, l’insulto e la disinformazione funzionano sempre. E non soltanto perché i talk show televisivi sono una scuola di formazione che orienta al turpiloquio politico, “pollai” dove nessun tema viene mai approfondito e nessuna posizione espressa in modo da essere ben compresa: anche prima della comunicazione di massa moderna, quello della manipolazione del dibattito politico era un meccanismo ben oliato. Perciò, per ridurre i rischi, tra le regole auree di una vera democrazia ci devono essere la libertà di stampa e il rispetto delle idee di tutti. Rispetto perché è fondamentale mantenere il dibattito entro i limiti della civiltà, con toni che permettano di esprimersi e di capire; libertà di stampa perché i giornalisti hanno, o dovrebbero avere, il dovere di verificare le notizie e fare informazione corretta.

Nel 2023 sono stati uccisi nel mondo 99 giornalisti: tentavano di raccontare l’economia dei narcos in Messico, le violazioni dei diritti umani nelle Filippine e soprattutto le conseguenze dell’intervento militare israeliano a Gaza. La buona notizia potrebbe essere che per la prima volta da tanti anni la Russia non compare in questo elenco, ma ciò accade perché non sono rimasti più giornalisti da eliminare, dopo le purghe degli anni scorsi e le fughe all’estero. Lo specchio da osservare per provare a immaginare un mondo governato dai populisti, senza più stampa libera, lo offre proprio la Russia di Putin, dove è vietato pronunciare la parola guerra e si rimodella il passato fino a renderlo mitologico, dove chi critica il potere e il capo è un essere “decadente e degenerato” al soldo dell’Occidente.

Nella storia della monetazione il nichel è sempre stato importante: basti pensare al nichelino statunitense, in inglese semplicemente nickel, equivalente a cinque centesimi di dollaro, o al nichelino del Regno d’Italia, equivalente a 20 centesimi di lira, e quindi di poco valore. Come componente di leghe metalliche più o meno complesse, il nichel è presente anche in diverse monete moderne, incluse quelle da uno e due euro. Ma questo elemento ha trovato anche una seconda vita, che riguarda le batterie, da quando l’accumulatore nichel-cadmio ha rivoluzionato la durata delle pile di ogni dimensione. Per questo, un minerale storicamente “povero” è diventato un bene ambito, soprattutto da parte di chi controlla quasi tutti i minerali-chiave per la transizione energetica e per il funzionamento dei device del mondo digitale. Stiamo parlando della Cina. Pechino ormai esercita una posizione di monopolio sia sulle terre rare, ne controlla più o meno direttamente oltre l’80% del mercato globale, sia sul litio pronto all’uso per le batterie delle auto, di cui commercializza quasi il 90%. Ora vuole aggiungere il nichel, e lo fa attraverso una joint venture che vede in prima fila l’Indonesia. In questo grande Paese asiatico, che fino a poco tempo fa deteneva solo il 5% del mercato mondiale del nichel, la Cina ha iniettato 30 miliardi di dollari in investimenti diretti, oltre a trasferire tecnologia, per estrarre e raffinare nichel a un prezzo che nessun altro concorrente può eguagliare. Il risultato è che nel 2023 la quota dell’Indonesia sul mercato mondiale è balzata al 55% ed è destinata ad aumentare ancora, perché diversi giganti dell’industria mineraria stanno chiudendo impianti in Brasile e Australia, divenuti non più concorrenziali.

Insieme a LG e Hyundai, l’Indonesia si sta preparando all’apertura della sua prima megafactory, termine coniato da Elon Musk per indicare le fabbriche di dimensioni gigantesche pensate esclusivamente per fabbricare batterie. Ne sono previste altre tre. Intanto, per aumentare l’estrazione di nichel si scavano nuove miniere radendo al suolo intere foreste e per lavorare il minerale si adotta una tecnica basata sull’uso dell’acido solforico a temperature elevatissime, raggiunte con energia ricavata dal carbone. Ed è così che il nichel si va ad aggiungere alla schiera di materie prime vitali per l’economia green, come le terre rare, il litio e il cobalto, ottenute attraverso devastazioni ambientali e lavorate con energia ricavata dalla combustione di carbone, immettendo in atmosfera quantità enormi di anidride carbonica. Per non parlare delle condizioni in cui lavorano minatori e operai: a dicembre una fabbrica indonesiana di proprietà cinese è saltata in aria causando 13 vittime e decine di feriti, e non si tratta di un caso isolato.

Per la Cina l’operazione indonesiana è un nuovo tassello che si inserisce in una strategia precisa, che punta a controllare la transizione energetica da una posizione di forza, anzi, da quasi monopolista. Il paradosso oggi è che i Paesi che vogliono fare seri sforzi per riconvertire il loro parco automotore o per produrre energie rinnovabili devono per forza rifornirsi dalla Cina e dai suoi soci d’affari, acquistando beni ottenuti in violazione di ogni principio di salute ambientale e di rispetto dei diritti dei lavoratori. La cecità che colpì l’Occidente quando Pechino in solitaria si insediava in Paesi poverissimi e dimenticati da tutti, ma che nelle loro viscere celavano materiali destinati a diventare strategici, oggi si paga a carissimo prezzo. Soprattutto, resta sempre d’attualità la ricerca di alternative ai combustibili fossili che non si limitino semplicemente a delocalizzare il problema dell’inquinamento. Ecco perché parlare di rivoluzione green è prematuro, e lo sarà finché dovremo dipendere dai metodi predatori e devastanti con i quali si ricavano e lavorano i minerali che ci permettono di fingere di aver fatto un grande passo in avanti. Per molti aspetti, anche se fortunatamente non per tutti, siamo ancora alla linea di partenza.

Il canale di Panama, che taglia in due il continente americano, nacque da una mutilazione. Quella che strappò la provincia appunto di Panama dalla Colombia, lo Stato al quale apparteneva fino al 1903. Una separazione traumatica, con l’intervento dei marines statunitensi a garanzia del fatto che il nuovo governo “indipendente” concedesse agli imprenditori USA l’incarico di costruire quel canale bi-oceanico che aveva già visto il fallimento dei francesi. Il Canale, ultimato nel 1914 e ufficialmente inaugurato nel 1920, rimase sotto la piena giurisdizione statunitense fino al 1977, quando l’amministrazione Carter acconsentì alla sua restituzione a Panama, posticipando però l’effettivo passaggio di consegne fino al 31 dicembre 1999. Va ricordato che, oltre ad accorciare i tempi per la movimentazione di merci tra Asia ed Europa, quell’infrastruttura era vitale per il collegamento tra i poli industriali delle coste est e ovest degli Stati Uniti.

Ma Panama non è solo il Canale. Qui è nata l’economia offshore, uno spazio virtuale che tuttavia è saldamente ancorato ai confini nazionali dello Stato ospitante, dove registrare imprese e fissare la residenza di persone fisiche che mirano a evadere le tasse nei rispettivi Paesi, o dove spostare capitali di dubbia provenienza. Anche la marina mercantile è stata rivoluzionata dalla possibilità di registrare le navi sotto bandiera panamense, soluzione che ha permesso agli armatori di sottrarsi alle imposte dei Paesi d’origine: non a caso, da oltre mezzo secolo questo è uno degli Stati al mondo con più navi battenti bandiera nazionale, tutte (o quasi) di comodo.

La politica panamense non poteva che risentire pesantemente della circolazione di grandi ricchezze “facili” e delle condizioni di sovranità limitata dello Stato. Ne è derivata una storia di corruzione, locale e globale. Il governo nazionalista del generale Omar Torrijos, che nel 1977 era riuscito a strappare a Carter la restituzione del Canale ai panamensi, è stato una parentesi. Torrijos è morto nel 1981 in uno dei tanti incidenti aerei, odoranti di CIA, ai danni di leader progressisti. Negli anni Ottanta il suo successore, il comandante Manuel Noriega detto “faccia d’ananas”, è diventato un personaggio chiave negli intrighi di un’America centrale dilaniata dai conflitti armati.

Ecco perché Panama illustra perfettamente le contraddizioni, le connivenze pericolose, i doppi giochi e le doppie morali che hanno caratterizzato la globalizzazione dell’economia.  Uno degli ultimi casi di corruzione ai massimi livelli ha coinvolto Ricardo Martinelli, imprenditore panamense di origini italiane che è stato presidente del Paese tra il 2009 e il 2014. Martinelli, già coinvolto in indagini della magistratura italiana su casi di corruzione internazionale, nel febbraio 2024 è stato condannato in via definitiva dalla Corte suprema panamense per riciclaggio di tangenti. La sua via di fuga è stata la concessione di asilo politico da parte del Nicaragua di Daniel Ortega, ormai rifugio per latitanti di ogni tipo.

Il colpo di scena è stata la vittoria elettorale del suo erede designato, José Raúl Mulino, alle presidenziali di domenica 5 maggio. Questo inaspettato ritorno al potere del peggior mondo politico avviene in una fase di importanti cambiamenti per il Paese. Cambiamenti legati soprattutto al rapporto con la Cina. Panama, che soltanto nel 2017 ha chiuso i rapporti con Taiwan, è infatti diventato un forte alleato di Pechino, ricevendo massicci investimenti e scambiando merci per un valore di oltre un miliardo di dollari all’anno. Questa situazione ovviamente non piace agli Stati Uniti, che temono che la Cina possa prima o poi controllare il Canale da dove passa il 5% del traffico commerciale mondiale.

È una partita geopolitica dal peso non indifferente, perché la Cina, che finora in America aveva stretto legami solo con Paesi del Sud del continente, comincia a insinuarsi nel “cortile di casa” centroamericano e caraibico di Washington, prima a Cuba e ora a Panama. La globalizzazione è anche questo, piccoli Paesi senza peso militare né demografico si trovano a controllare passaggi cruciali per il funzionamento del sistema-mondo. Su questi snodi si concentra l’interesse strategico delle potenze che guidano la globalizzazione. E allora può succedere di tutto, ad esempio che una classe politica totalmente corrotta torni al potere, solo perché non ha mai disturbato il vero manovratore.

La folle corsa al rialzo del prezzo del cacao continua: con una quotazione dei future della materia prima grezza superiore ai 10.700 dollari USA alla tonnellata, nell’ultimo anno il cacao ha avuto sui mercati una performance superiore a quelle del rame e dei Bitcoin. Questo non perché siano aumentati a dismisura i consumi di cioccolata nel mondo, ma per via del cambiamento climatico. Il baricentro della produzione delle fave di cacao, quello che ai tempi dei Maya era considerato un dono divino, ormai da decenni si è spostato dal Centroamerica in Africa occidentale. Ghana e Costa d’Avorio da soli coprono circa la metà della produzione mondiale di cacao, ed è dunque in questi Paesi che si concentrano gli acquisti delle grandi multinazionali. Occorre aggiungere che il cacao africano è generalmente di qualità inferiore rispetto a quello tuttora prodotto in America Latina, perciò viene usato per i dolciumi che prevedono la presenza di cioccolato come copertura o farcitura, e raramente come cioccolato da degustazione.

In questi mesi, la capacità produttiva dei due giganti africani è crollata per via di precipitazioni sopra la media, dovute al fenomeno climatico del Niño, che come conseguenza hanno avuto anche la proliferazione di malattie che colpiscono gli alberi di cacao. La crisi climatica si somma a un calo della produttività dovuto all’abbandono della coltivazione da parte di molti piccoli agricoltori impoveriti: potrebbe sembrare un paradosso, date le quotazioni raggiunte dal cacao, ma quello che sui mercati internazionali si vende a 10.000 dollari, ai produttori viene pagato non più di 1.500. E ancora peggio va ai braccianti che lavorano nelle piantagioni: vengono pagati, secondo un’inchiesta di Fair Trade International, appena 78 centesimi di dollaro al giorno, molto lontano dai due dollari e mezzo considerati la soglia minima di sopravvivenza.

La produzione di una delle materie prime più apprezzate al mondo è segnata in partenza da sfruttamento della terra e delle persone, da quotazioni folli da un lato e stipendi di miseria dall’altro, e oggi si sommano le conseguenze del cambiamento climatico che rendono sempre più rischiosa la pratica delle monocolture.

Nel 2019 i governi di Costa d’Avorio e Ghana hanno introdotto per legge un sovrapprezzo di 400 dollari, da destinare agli agricoltori, per ogni tonnellata di cacao esportata verso i Paesi “ricchi”. Il provvedimento è entrato in vigore durante la stagione del raccolto 2020-21, ma la situazione non è cambiata di molto. Alcuni giganti del settore, come Olam, Mars e Hershey, sono stati accusati di aver eluso la tassa comprando meno cacao in Ghana e Costa d’Avorio, acquistando burro di cacao lavorato da trasformatori in Asia, e anche comprando la materia prima sul mercato dei future anziché direttamente dai venditori fisici. Altri grandi player, come Lindt e Nestlé, affermano invece di avere mantenuto immutati i loro volumi di acquisto in Africa. Si tratta comunque di polemiche che confermano la cecità dei grandi marchi della globalizzazione rispetto alla sostenibilità a lungo termine dei loro stessi affari. Anche se poi tutti ci raccontano di essere “sostenibili” ed “equi” nei rapporti con i produttori.

Tra speculazioni, rivendicazioni di un giusto prezzo e carestie provocate dal cambiamento climatico, quel che è certo è che i maggiori prezzi della materia prima ricadranno sulle tasche dei consumatori. Che molto probabilmente compreranno meno cioccolata, perché si può vivere benissimo senza cacao.

L’agricoltura globale presenta sempre più spesso situazioni simili a quella che si sta verificando in Africa occidentale. Molti Paesi che hanno messo a rischio la propria sicurezza alimentare coltivando quasi esclusivamente prodotti destinati al mercato internazionale oggi si trovano due volte penalizzati: i lavoratori e i bilanci pubblici stanno subendo seri danni economici e presto gli Stati non avranno risorse sufficienti per importare quegli alimenti di base che non sono più prodotti nel territorio nazionale. Così Ghana e Costa d’Avorio rischiano di passare da giganti nella produzione del cacao a Paesi dove bisogna fare i conti con la fame. Tutto per rifornire gli scaffali del supermercato globale, dove si recita la favola dell’abbondanza e della possibilità di acquistare senza limiti qualsiasi prodotto, 365 giorni all’anno.

Il referendum celebrato in Ecuador domenica 21 aprile ha smentito luoghi comuni e confermato una tendenza già evidente. I cittadini erano chiamati a rispondere a ben 11 quesiti, proposti dal presidente Daniel Noboa, che andavano a incidere sulla “Carta Magna” del Paese, ovvero sulla Costituzione promulgata nel 2008 sotto la presidenza progressista di Rafael Correa. Una Costituzione che da una parte tutela i beni comuni e garantisce la natura democratica del Paese ma dall’altra, secondo i critici, ostacola gli investimenti internazionali e lega le mani alla Giustizia.

L’Ecuador del 2008 era però molto diverso da quello di oggi. Negli ultimi anni le piccole gang criminali ecuadoriane sono state assoldate e potenziate dal cartello messicano di Sinaloa, trafficanti che hanno scelto questo Paese andino per farne una sorta di hub per la produzione e la commercializzazione della cocaina. Come in tutta l’America Latina, anche in Ecuador la realtà del narcotraffico, che esporta cocaina e distribuisce internamente soprattutto i sottoprodotti della lavorazione, come il crack nelle sue diverse varianti, è diventata incombente e ingombrante. Non solo ha inquinato la vita politica ed economica attraverso la corruzione e il massiccio “lavaggio” di denaro sporco, ma ha anche reso molto più pericolosa la vita delle persone che vivono nei quartieri più modesti, scelti dai criminali per gestire i loro traffici. Come in tutto il continente, dunque, anche in Ecuador la crescita della forza della criminalità si è saldata con il problema delle disuguaglianze sociali, rendendole ancora più profonde. Per i cartelli di narcotrafficanti è stato facile reclutare migliaia di giovani dei ceti poveri, con la promessa di farli uscire dalla miseria.

Il resto è cronaca. Nel referendum di domenica, 9 quesiti su 11 sono collegati all’emergenza-criminalità che il Paese sta vivendo. Il pacchetto include il permesso di affidare alle forze armate compiti di sicurezza interna, tema che riapre ferite risalenti al tempo delle dittature militari, ma anche la creazione di tribunali specifici per il crimine organizzato, la possibilità di estradare cittadini su richiesta di altri Stati, l’eliminazione delle misure cautelari alternative al carcere e l’aumento delle pene per reati connessi al narcotraffico e al terrorismo. Senza dubbio si tratta di una riforma ispirata a quanto sta accadendo nel Salvador di Nayib Bukele, che prevede anche la militarizzazione delle carceri con l’impiego dell’esercito. In Ecuador come nel Salvador, i cittadini diventati ostaggio della criminalità si sentono abbandonati dallo Stato. E perciò hanno votato massicciamente a favore del pacchetto referendario proposto da Noboa, come sarebbe accaduto in qualsiasi altro Paese latinoamericano chiamato a scegliere su questi temi.

Qualcuno sta già urlando alla vittoria delle destre. Tuttavia il risultato degli altri due quesiti referendari proposti agli elettori smentisce questa lettura superficiale. Noboa proponeva di sottomettere ad arbitrato internazionale le controversie tra lo Stato e le imprese e di introdurre il precariato con il lavoro a ore e intermittente: entrambe le riforme sono state bocciate dai cittadini. Ciò conferma che la richiesta di maggiore sicurezza non è un rigurgito autoritario e che in Ecuador i principi basilari che regolano i rapporti sociali restano quelli solidali consacrati dalla Costituzione del 2008. È una lezione per le sinistre latinoamericane, che raramente si sono occupate della sicurezza dei poveri in contesti gravemente permeati dalla criminalità organizzata, quasi sentendosi più vicine ai delinquenti, sempre giustificati, che alle vittime.

I principali eventi bellici degli ultimi anni sono stati incredibilmente anticipati dai servizi di intelligence, senza però che questo influisse più di tanto sul concretizzarsi di tali avvenimenti. L’11 febbraio 2022 il settimanale tedesco «Der Spiegel» citava fonti della CIA che prevedevano l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, precisando che sarebbe avvenuta cinque giorni dopo. La fonte citata dalla rivista spiegava infatti che Mosca aveva già completato lo schieramento militare al confine ucraino. L’unica imprecisione era che l’attacco non sarebbe stato sferrato il 16 febbraio ma il 24, pochi giorni più tardi.

Il «New York Times» ha invece esaminato un documento, girato tra le scrivanie dei capi dell’esercito e dell’intelligence israeliana già nel 2022, che descriveva per filo e per segno un possibile attacco terroristico con partenza da Gaza. Ma, per quanto realistico e dettagliato, il piano “Muro di Gerico”, come era stato battezzato dall’intelligence, non venne preso sul serio: i vertici israeliani lo considerarono troppo complesso per Hamas e dunque irrealizzabile. Sappiamo bene che il 7 ottobre 2023 quel piano è stato seguito quasi alla lettera dai terroristi che hanno lasciato sul campo circa 1150 vittime israeliane e rapito circa 240 ostaggi, infliggendo una clamorosa sconfitta all’apparato difensivo di Israele. 

Il 12 aprile scorso, la CIA ha annunciato pubblicamente che entro 48 ore ci sarebbe stato un attacco iraniano contro basi militari in territorio israeliano. Secondo la rete televisiva CBS, sarebbero stati lanciati un centinaio di droni kamikaze e decine di missili balistici. L’attacco è puntualmente avvenuto la notte del 13 aprile con il lancio – secondo le fonti più attendibili – di circa 170 droni e circa 150 missili, tra balistici e da crociera.

Fa impressione come negli ultimi anni la capacità di osservazione ed elaborazione dei dati, e quindi di previsione degli eventi, sia stata potenziata dall’uso dei satelliti, di Internet e degli algoritmi di intelligenza artificiale. Ormai è veramente difficile per qualsiasi Stato dissimulare attacchi su grande scala che prevedano movimentazione di truppe o di armi pesanti. È difficile anche mantenere alti livelli di segretezza nella circolazione di informazioni sensibili ed evitare che vengano intercettate e decrittate. Questo vale per tutti i protagonisti della scena internazionale, nessuno escluso: chi occupa i vertici della politica mondiale, raramente può dirsi sorpreso dei grandi eventi che si verificano a livello globale. Che poi la politica presti più o meno attenzione alle segnalazioni fornite dall’intelligence, è un altro discorso. Quella che non è cresciuta allo stesso modo è la capacità di prevenire incidenti bellici con una “diplomazia d’emergenza” che possa, almeno, provare a scongiurare gli incendi imminenti.

Nello scenario che stiamo descrivendo, la stampa gioca un ruolo non secondario. Le inchieste condotte da giornalisti e giornali che hanno un rapporto privilegiato con la CIA, il Mossad o l’MI5 e che svelano in anticipo invasioni, bombardamenti o atti terroristici finiscono con il creare un rapporto tossico con l’attesa dell’evento: è come se ci si auspicasse che l’attacco avvenga davvero, a conferma dell’autorevolezza della testata o del giornalista e dell’affidabilità dell’intelligence. Così è nato il teatrino che coinvolge servizi, eserciti, stampa e un’opinione pubblica che aspetta sui social media eventi sì annunciati, ma pur sempre tragici, spesso con migliaia di morti e feriti. La scollatura tra la capacità predittiva e l’incapacità di fermare avvenimenti quasi certi, o comunque molto probabili, ci consegna un ulteriore spunto di riflessione sul nostro mondo in preda al caos. Nel quale la politica è tornata indietro rispetto alla capacità di mediare e di costruire compromessi proprio mentre i mezzi a disposizione per raccogliere informazioni hanno raggiunto livelli mai immaginati prima. Questa lacuna non può essere colmata dalla cosiddetta intelligenza artificiale: occorre piuttosto quella umana, spesso sprecata su questioni futili, ma che rimane pur sempre lo strumento più raffinato che abbiamo a disposizione per sopravvivere.

Com’era inevitabile, la transizione energetica si è rapidamente trasformata da opportunità per il clima, e per imprenditori e consumatori lungimiranti, a campo di battaglia tra i giganti dell’economia mondiale. In Cina, la posizione dominante del Paese nella lavorazione di litio, cobalto e terre rare, fondamentali per le batterie di auto ibride ed elettriche, si è sommata alle politiche di sostegno che il governo di Pechino garantisce alle sue industrie di punta, con sovvenzioni più o meno dirette e forniture di energia elettrica a prezzi politici, al di fuori dalle regole internazionali. Ciò ha dato all’industria cinese un vantaggio senza paragoni. Ne risentono le imprese che hanno inventato queste tecnologie o che le hanno sviluppate fin dal principio, come la statunitense Tesla, che ormai perde colpi davanti all’invasione di auto elettrici cinesi low cost. Non solo negli Stati Uniti, molti “grandi” dell’industria dell’auto europea stanno rivedendo le loro strategie di passaggio alla mobilità green proprio perché non sono in grado di competere con le auto esportate da Pechino.

La segretaria al Tesoro degli USA, Janet Yellen, nel suo recente viaggio in Cina ha posto la questione in modo deciso, rinfacciando alla controparte gli aiuti di Stato elargiti all’industria dell’auto e la conseguente sovrapproduzione di macchine a basso costo. Secondo Yellen, in un mercato drogato dalle macchine cinesi non può esistere libera concorrenza. E lo stesso vale per i pannelli solari, sui quali i produttori cinesi riescono a proporre prezzi inarrivabili per qualsiasi altro Paese.

In Cina l’industria dell’auto equivale ormai al 3% del PIL, e se non si porranno limiti, si legga dazi, questo storico settore industriale nato proprio negli Stati Uniti rischia di scomparire in tutto il resto del mondo. La lettura dei cinesi è ovviamente diversa: secondo Pechino, in Cina si produce così tanto perché la sete di prodotti sostenibili è in forte aumento in tutto il mondo. Che poi quei prodotti sostenibili, siano auto o pannelli solari, vengano prodotti in Cina con energia elettrica ricavata dal carbone, oppure che l’estrazione di cobalto, litio e terre rare crei gravi problemi all’ambiente e alle persone, è solo un dettaglio.

Il paradosso è che la crescita della domanda di auto elettriche in Europa è dovuta ai forti incentivi statali e comunitari, che però finiscono con il sovvenzionare ulteriormente l’export cinese. Il dilemma del mondo post-globale e in piena crisi climatica è tutto qui: non si riesce a uscire nemmeno per un attimo dalle categorie di pensiero e di mercato che hanno causato la “febbre” del pianeta Terra. Ogni iniziativa green si scontra con i soliti vecchi interessi dell’industria, degli Stati, della geopolitica. Così si perdono una dopo l’altra opportunità preziose per rallentare il riscaldamento del pianeta. Ora si parla di idrogeno verde e di batterie allo stato solido… Ma il punto è che se non cambia logica non ci sarà mai una vera transizione energetica. Petrolio, gas e carbone, in un modo o nell’altro, paiono destinati a restare al centro della nostra vita per sempre, o almeno finché il mondo sarà abitabile. Spesso si critica il fatto che la terra sia oramai guidata solo dalle logiche di mercato. Ma il problema coinvolge anche l’altro grande attore: la politica, gli Stati che continuano a ragionare in termini di grandezza, di equilibri geopolitici, di crescita economica ignorando l’elefante nella stanza del cambiamento climatico. Che non aspetta e non segue i ragionamenti né del mercato né della politica.

Nei processi di modernizzazione e crescita economica che, negli ultimi trent’anni, hanno toccato diversi Paesi del mondo, una costante che si è ripetuta ovunque è che, insieme al PIL pro capite dei cittadini, è cresciuto in modo ben più marcato il divario sociale tra i più ricchi e i più poveri. Nulla cambia se si tratta di un Paese a economia di mercato come l’India oppure dell’ultimo grande Paese comunista, la Cina, che è passata dall’essere uno Stato poverissimo ancora alla metà del Novecento a superare la media mondiale del reddito pro capite circa vent’anni fa. Ora che la sua vertiginosa crescita sta rallentando, si possono intravedere le sacche di disuguaglianza che si sono solidificate in questi anni. Fatto 100 il PIL pro capite dei cinesi, quello dei cittadini di Pechino e Shanghai è circa 200, mentre quello delle province più remore del Paese si aggira attorno a 50. Le privatizzazioni e le aperture di mercato all’imprenditoria nazionale hanno fatto sì che un Paese che con la rivoluzione maoista aveva pressoché abolito le differenze sociali si trovi oggi con il 10% della popolazione che controlla il 42% del reddito nazionale, un dato molto vicino al 45% degli Stati Uniti.

L’India, che nel 2023 è diventata lo Stato più popoloso al mondo sopravanzando proprio la Cina, ha una storia diversissima da quella cinese da molti punti di vista: è stata una colonia integrata in un impero mondiale, poi ha scelto la democrazia liberale e la forma federale. Eppure, la sua forte crescita economica ricorda molto la situazione che la Cina ha vissuto circa 15 anni fa. Con la differenza che l’India, segnata anche dal sistema delle caste e dalla presenza della nobiltà terriera, presenta una concentrazione della ricchezza fin d’ora molto marcata, e in prospettiva ha una struttura economica ancora più polarizzata di quella cinese: nel 2023, l’1% degli indiani ha guadagnato il 23% del reddito nazionale complessivo e deteneva il 40% delle ricchezze del Paese. Il dato più curioso è che si tratta di una concentrazione maggiore rispetto a quella che si registrava un secolo fa, durante la dominazione britannica. La disparità nella configurazione del reddito si è ridotta nei decenni successivi all’indipendenza, ma è tornata ad aumentare dagli anni ’80. L’India di oggi, più dinamica, moderna e in crescita, è ormai allineata con gli storici campioni mondiali della disuguaglianza, che tra i grandi Paesi sono Brasile e Stati Uniti. Una ricerca dell’osservatorio sulle disuguaglianze diretto dall’economista francese Thomas Piketty evidenzia come, a partire dalle liberalizzazioni dei primi anni ’90, la fascia del 10% più ricco della popolazione indiana abbia accresciuto vertiginosamente la sua quota percentuale di reddito, raggiungendo il 58% del reddito nazionale, mentre il 90% degli indiani si spartisce il restante 42%. Non a caso, nella classifica degli uomini più ricchi dell’Asia i primi due sono indiani e al terzo posto troviamo un cinese.

I forti processi di crescita economica di questi ultimi decenni, per Paesi giganteschi dal punto di vista sia geografico sia demografico, stanno dunque riproducendo un vecchio modello di società caratterizzato da una grande concentrazione di ricchezza in mano a pochi soggetti e dalla presenza di isole di sviluppo, concentrate generalmente in pochi territori urbani, assai più ricche delle periferie, in bilico tra crescita e povertà, e delle province periferiche, totalmente tagliate fuori dai processi in corso. Anche in questi Paesi, la mano invisibile del mercato, lasciata a se stessa, non riesce a redistribuire in modo equilibrato reddito e servizi. Questa è una funzione che finora è sempre rimasta in capo agli Stati, che per svolgerla adeguatamente non possono essere solo macchine burocratiche autoreferenziali come quello cinese, né un caotico insieme di interessi etnici, nazionali e regionali come quello indiano, che peraltro sta vivendo anche una crisi profonda sul piano della fedeltà ai valori della democrazia liberale. Le due grandi potenze emergenti del XXI secolo non sfuggono dunque a un problema ben conosciuto in Occidente, quello delle diseguaglianze, contro il quale “noi”, oltre a promuovere convegni di studio, poco o nulla facciamo di concreto. Esattamente come accade da “loro”.