Vent’anni di Brics

Pubblicato: 13 dicembre 2021 in Mondo
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Nel 2001 Jim O’Neill, il socio di Goldman Sachs responsabile del settore di ricerche sull’economia globale, usò per la prima volta l’acronimo Bric per indicare Brasile, Russia, India e Cina. Secondo O’Neill, queste erano le economie destinate a crescere più velocemente nel primo decennio del XXI secolo. La sua analisi partiva dalla semplice constatazione che nel 2000 il PIL a parità di potere d’acquisto dei Paesi Bric equivaleva a un quarto del PIL mondiale, e che il trend era in veloce crescita. Nel 2009 gli stessi Paesi formalizzarono la loro associazione. In realtà avevano già cooperato in precedenza: ad esempio durante il Vertice di Cancun del WTO del 2003, dove erano riusciti a bloccare il Doha Round che aveva al centro l’agricoltura e il protezionismo. Ancora prima, nel 1999, avevano esercitato una forte pressione sulle potenze occidentali ottenendo l’istituzione del G20, oggi ben più importante del G7. Nel 2011 nel club dei Bric fu incluso anche il Sudafrica – più che per motivi di peso economico, perché mancava uno Stato in rappresentanza dell’Africa – e l’acronimo del gruppo divenne Brics.

A distanza di vent’anni, le previsioni di O’Neill non si sono rivelate pienamente esatte. È vero che oggi i Brics sono, nell’insieme, più potenti di prima, ma questo si deve essenzialmente alla Cina, che ha battuto ogni record di crescita economica e geopolitica. L’India ha “tenuto”, camminando con il suo ritmo lento e progredendo sotto tanti aspetti, soprattutto sociali. Invece Russia e Brasile contano meno di vent’anni fa. Entrambi gli Stati hanno pagato il conto delle crisi altrui, essendo esportatori netti di materie prime alimentari o energetiche, ma ha avuto un peso anche la politica: il Brasile di Bolsonaro si è autoisolato, la Russia di Putin ha concentrato le risorse nel mantenimento di un apparato militare sproporzionato rispetto alla struttura economica del Paese.  Inoltre Brasile e Russia sono fortemente dipendenti dagli acquisti del loro “socio” cinese. Questa situazione ha fatto mutare la natura dei Brics, nel senso che non si tratta più di un club tra pari (o quasi), com’era all’inizio, bensì di un gruppo di Stati che gravita attorno a un solo socio, la Cina. Finora i Brics sono stati utili per creare una massa critica che agevolasse l’emergere della Cina: il punto da chiarire per il futuro di questa aggregazione è se oggi essa abbia ancora senso per Pechino.

Gli Stati Uniti hanno scelto chiaramente come antagonista la Cina, da sola. E il mondo sta entrando velocemente in una fase di bipolarismo, sia pure dalle caratteristiche diverse rispetto a quello della Guerra Fredda, nel senso che i due contendenti, in un’economia globalizzata, sono fortemente dipendenti l’uno dell’altro. Invece India, Russia e Brasile rimangono potenze regionali, nel caso russo con qualche pretesa su scala più vasta.

Si ripete quindi, anche nel sodalizio dei Brics, la dinamica che si è verificata nel G7, dove ci sono gli USA che dirigono e sei gregari che seguono. Ma le superpotenze, quando si misurano tra loro, in pratica lo fanno da sole: lo si è visto sia alla Cop26, con il documento di intesa sul clima firmato tra USA e Cina senza che nessuno ne fosse al corrente, sia poche settimane prima, quando Washington ha lanciato l’alleanza ANKUS per militarizzare il Mar della Cina prendendo alla sprovvista la Francia e tutta l’Unione Europea. Da sempre le grandi potenze sono fatte così: danno vita a intese con gli alleati quando sono in posizione di svantaggio, per procedere da sole non appena si sentono forti. E questa è una fase in cui entrambe le superpotenze si sentono forti. Perciò è facile prevedere che stanno arrivando tempi difficili per i vari club internazionali.

(Osaka – Japão, 28/06/2019) Presidente da República, Jair Bolsonaro, durante foto de família dos Líderes dos BRICS. Foto: Alan Santos / PR

Una delle ricadute della pandemia che più hanno spaventato la politica è stata la messa a nudo di un rischio finora negato: il rischio, cioè, che la suddivisione internazionale della produzione fosse diventata un vulnus per la sovranità dei Paesi. Con sorpresa, la politica ha verificato che quando non si controlla più il ciclo industriale – perché delocalizzando si è dato il via all’industrializzazione di altre regioni del pianeta – la posizione di forza che in passato era esclusiva dei Paesi occidentali passa in altre mani. In un primo momento il problema era l’approvvigionamento di mascherine, guanti chirurgici e dei vari supporti per garantire il distanziamento, rigorosamente made in China; ora è la carestia dei semiconduttori che servono per fabbricare quasi qualsiasi cosa. L’Europa ha scoperto che è solo cliente di un mercato che vede Taiwan, Corea del Sud e Cina in posizione quasi monopolistica e sta discutendo un cambio di rotta che sarebbe stato imprevedibile ancora nel 2019.

L’annuncio della commissaria europea per la Concorrenza Margrethe Vestager è stato chiaro: la Commissione non soltanto continuerà a finanziare i progetti di ricerca e sviluppo sui semiconduttori ma prevede di sovvenzionarne anche la produzione. Insomma un ritorno alla vecchie pratiche del protezionismo, che ha aperto un vivace dibattito tra gli stati membri. I Paesi Bassi ad esempio, alfieri del libero mercato, scalpitano perché una corsa ai sussidi andrebbe a vantaggio degli Stati più grandi. Ipotesi realistica visti i piani di Intel, il gigante statunitense del settore che prevede di investire 30 miliardi di dollari per la produzione di microchip in Europa dividendoli tra la Germania (alla quale andrebbe la produzione), la Francia (per la ricerca) e l’Italia (per il confezionamento). La Germania si è spinta oltre, lanciando l’idea di creare un Fondo Sovrano Strategico dedicato ai semiconduttori che all’Europa costano oggi 44 miliardi all’anno, cifra che entro il 2030 toccherà gli 80 miliardi di spesa. Non è una questione solo di soldi, anche se tanti, ma anche e soprattutto di sovranità. Non è pensabile sostenere un’industria europea, da quella delle lavatrici fino a quella dei satelliti, senza produrre nemmeno un semiconduttore. Soprattutto è un grande rischio dipendere per il rifornimento da un Paese non riconosciuto e dal futuro incerto come Taiwan.

La voglia di riprendersi le produzioni strategiche non è sentita solo in Europa. Negli Stati Uniti è stato appena finanziato con 52 miliardi di dollari un capitolo specifico dell’Innovation and Competition Act dedicato ai semiconduttori, per rinforzare il settore allentando la dipendenza dai produttori asiatici.

Il mondo post-pandemico continua a stupire gli analisti perché si sta tornando a percorrere strade che nella narrazione della globalizzazione si davano per scomparse. Protezionismo, incentivi per il ritorno delle imprese, sovvenzioni, dazi. Tutti strumenti tipici della politica degli Stati. Ed è questo il protagonista della fase che si sta aprendo: lo Stato che non soltanto protegge i cittadini con i vaccini e con le limitazioni, non solo sostiene imprese e lavoratori indebitandosi, ma ora sta anche ridisegnando il mercato. Da qui derivano anche le difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi di Parigi sul clima. Nessuno vuole regalare vantaggi ai concorrenti, anche se le conseguenze ambientali ricadranno su tutti.

Il mondo post-pandemia, ammesso che si possa considerare il Covid come un problema risolto, assomiglierà solo in parte a quello di prima. Nessuno si sarebbe mai immaginato che, in così pochi mesi, la delega in bianco che la politica consegnò all’economia 30 anni fa sarebbe stata ritirata. E questo può essere un bene, ma insieme è anche un grande rischio. 

Le migrazioni umane risalgono alla notte dei tempi, a quando l’Homo sapiens si spinse fuori dalla natia Africa fino a conquistare ogni angolo della Terra. Una migrazione avvenuta a piedi, che man mano creava insediamenti e sottraeva spazi al mondo animale. Negli imperi del passato esistevano migrazioni, volontarie o forzate, che erano il risultato di conquiste territoriali e consolidavano un modello agricolo, economico e culturale. Migrazioni dovute anche a motivi climatici, per esempio in concomitanza dei periodi glaciali, determinarono la fine di Stati che sembravano eterni, come l’Impero romano. Imponenti movimenti di popoli si svilupparono attraverso i mari, come la grandiosa espansione dei popoli polinesiani nel Pacifico o, dal XV secolo in poi, quella degli europei lungo le rotte del colonialismo nascente. Ci sono stati migranti per motivi religiosi, come i puritani in America settentrionale e gli olandesi in Sudafrica; per conquistare nuove ricchezze e terre agricole strappandole ai popoli originari, come in America meridionale; o per superare ancestrali ingiustizie, con radici risalenti al Medioevo, come nella grande ondata che dalla metà dell’Ottocento svuotò intere regioni povere di Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia.

Nel corso del Novecento i movimenti migratori cambiano direzione: dalla direttrice Nord-Sud si spostano su quella Sud-Nord. Da continenti che avevano ricevuto migranti europei (Africa, America centro-meridionale, parte dell’Asia) cominciano a partire migranti verso i Paesi del Nord, diventati più ricchi ma entrati in recessione demografica. L’invecchiamento della popolazione ha liberato milioni di posti di lavoro: l’economia di questi Stati richiede manodopera giovane e disposta a lavorare nell’industria e nell’agricoltura, poi anche nei servizi alla persona. Questa rimane una delle grandi contraddizioni dei flussi contemporanei di migrazione: sono vitali per l’andamento dell’economia dei Paesi più avanzati, ma questo loro ruolo non viene riconosciuto. Anzi, si dà vita a contraddizioni giuridiche, discriminazioni, talvolta strumentalizzazioni politiche.

Nella lunga storia delle migrazioni, il fatto di assoluta novità emerso in tempi recentissimi è l’uso dei migranti come arma di ricatto o come strumento per destabilizzare altri Paesi. È stata la Turchia a inaugurare questa fase, “monetizzando” l’accoglienza dei profughi siriani sul suo territorio per ottenere fondi europei e garantirsi immunità riguardo la svolta autoritaria in corso nel Paese. Anche il Messico vive una situazione paragonabile. Da terra di emigranti è diventato Paese di passaggio per i profughi centroamericani che vogliono entrare negli Stati Uniti: e ciò gli ha fornito un nuovo strumento per ottenere vantaggi da Washington. Ora è il turno della Bielorussia, che scaglia contro le frontiere polacche la forza d’urto di migliaia di migranti, allo scopo di calmierare le sanzioni contro il regime di Minsk imposto dall’Unione Europea. Sta seguendo la linea vincente della Turchia. Nel suo piccolo, anche la Libia in mano alle bande armate tiene sotto ricatto l’Italia, e incassa lauti aiuti. E il Marocco negozia con la Spagna per la sicurezza delle roccaforti spagnole di Ceuta e Melilla, prese d’assalto da giovani che vorrebbero entrare in Europa.

Questo mix esplosivo di autoritarismo e disperazione mette in seria difficoltà i Paesi presi di mira. Perché non si può sparare contro i civili, e l’opinione pubblica sopporta sì la presenza di lager e che si lasci la gente al freddo d’inverno, ma solo lontano dai propri confini. E poiché oggi i confini sono soltanto una convenzione, alla fine si negozia. È una triste realtà che non si riesce a superare e alla base della quale ci sono da un lato il fallimento dei Paesi dai quali la gente vuole solo scappare e dall’altro l’ipocrisia dei Paesi che credono sia possibile un mondo con isole di benessere accerchiate da un mare di disperazione. Un mondo che diventa sempre più simile ai quartieri chiusi latinoamericani per soli ricchi, dove si vive fingendo che tutto funzioni e di essere sicuri, ma solo perché al confine ci sono il filo spinato e le guardie armate a difendere la tranquillità.

epa09583235 A handout photo made available by Belta news agency shows asylum-seekers, refugees and migrants gathering at the Bruzgi-Kuznica Bialostocka border crossing, Belarus, 15 November 2021. Asylum-seekers, refugees and migrants, who arrived at the Belarus-Poland border checkpoint of Bruzgi-Kuznica Bialostocka, reportedly broke through part of the barriers set up by Poland. Migrants from the Middle East began to leave the spontaneous camp set up near the border. It was noted that a large convoy of migrants, accompanied by Belarusian security officials, went out towards the frontier checkpoint Bruzgi. Since 08 November, several thousand migrants have been trying to enter the EU and have set up camp in a forest belt adjacent to the border. EPA/OKSANA MANCHUK/BELTA HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Dopo l’aumento dei prezzi dei combustibili fossili, dei minerali e della logistica, dopo la carestia di microchip, ecco che si profila l’ultimo tassello di una crisi che ha sicuramente a che fare con la pandemia, ma che è figlia, forse in parti uguali, anche del cambiamento climatico: il grano ha raggiunto sul mercato di Parigi il prezzo massimo storico, su quello di Chicago il massimo dal 2012. Il grano tenero, che un anno fa costava 213 dollari USA alla tonnellata, attualmente ne vale 283; il grano duro, che si usa per la pasta, ha toccato i 550 euro sulle borse europee. In Italia l’aumento del costo grano duro in un mese è stato dell’80%, del 135% se parametrato ai valori medi degli ultimi cinque anni. Nel caso del grano duro, l’impennata è stata provocata non soltanto dall’aumento dei prezzi di combustibili, fertilizzanti, trasporti e logistica, come nel caso del grano tenero, ma anche dalla disastrosa estate del primo produttore mondiale, il Canada, dove le temperature elevate (con punte di 40 °C) hanno compromesso seriamente il raccolto autunnale. Secondo le stime di Ottawa, quest’anno l’export canadese calerà del 45%, mentre si registrano cali consistenti nelle produzioni italiana e statunitense, mai così basse dal 1961: gli USA hanno prodotto appena un milione di tonnellate a fronte dei quasi due milioni dello scorso anno. A questo panorama si aggiungono le politiche neo-protezionistiche applicate dalla Russia, primo produttore mondiale di grano tenero, che dopo un raccolto scarso per via del clima sta applicando maggiori tasse all’export.

Ci sono quindi, mescolati tra loro, tutti quei fattori che già in passato sovrapponendosi l’un l’altro hanno provocato sommovimenti geopolitici: cambiamento climatico e calo produttivo, aumento del costo dei combustibili e della logistica, politiche protezionistiche. Come al solito il tappo dovrebbe saltare in Nordafrica, macroregione che è importatrice netta di grano duro per la produzione di cous-cous, e dove ciclicamente si verificano rivolte del pane: secondo una lettura diffusa per quanto opinabile, sarebbero state il detonatore anche delle cosiddette primavere arabe. L’Egitto, primo importatore mondiale di grano, sta già rivedendo le sue politiche di sovvenzione del prezzo del pane in preparazione dell’inevitabile aumento. Per molti Paesi più poveri il rischio è che l’aumento dei prezzi delle farine di grano provochi vere e proprie carestie. Ed è questo uno degli aspetti meno considerati anche da parte degli ambientalisti che in questi giorni si sono dati appuntamento a Glasgow: la sicurezza alimentare è sempre di più in bilico.

Da una parte il grande agrobusiness è uno dei settori che più incidono negativamente sul cambiamento climatico: l’intera filiera della produzione e trasformazione del cibo pesa per il 25% sulle emissioni di gas serra. Dall’altra, non esiste agricoltura domestica o periurbana che possa produrre, allo stato attuale, la quantità di grano necessaria per sfamare i Paesi che non ne producono. Il punto è che a livello mondiale i grandi esportatori sono solo sei o sette, e si tratta di Paesi sempre più esposti al cambiamento climatico. Sta qui la grande contraddizione della moderna agricoltura: impatta negativamente sul problema del cambiamento climatico ma positivamente su quello della fame nel mondo. Il nodo ancora non è sciolto perché, volendo mantenere i volumi attuali di produzione, la riconversione del settore risulta difficile se non impossibile. Nel frattempo, prepariamoci all’aumento della pasta e della pizza, ma anche alle rivolte che inevitabilmente scoppieranno laddove con il grano si sopravvive, e non se ne può fare a meno.

La storia politica di Daniel Ortega è unica nel suo genere. Dopo avere guidato l’unica rivoluzione vincente che ha mantenuto in vita il pluripartitismo, convocato elezioni, perso e consegnato il potere ai vincitori, ha iniziato una seconda vita politica che lo vede ancora al potere nel piccolo Nicaragua.

E questo perché il camaleontico Ortega ha saputo adoperare una retorica e una pratica politica sempre adeguata ai tempi, oltre a essere diventato maestro della manipolazione, dell’uso politico della corruzione e della repressione. Negli anni Sessanta, dopo essere passato dal Collegio dei Gesuiti, Daniel diventa guerrigliero e sale man mano nella gerarchia del Fronte Sandinista fino a diventare Presidente della Giunta rivoluzionaria che si insedia al potere, davanti al Vescovo di Managua, nel 1979.

Un governo di unità nazionale anti-dittatura con appartenenti a tradizioni diverse, dai cattolici ai marxisti, passando anche dalle grandi famiglie illuminate come i Chamorro. Il governo sandinista, confermato dalle urne nel 1984 dovrà fare fronte a un’aggressione militare ed economica con pochi precedenti. Gli Stati Uniti finanziano e armano clandestinamente la cosiddetta “contra”, che inizia una guerra armata contro il governo, e sabotano l’economia del paese fino a minarne i porti, azioni per le quali gli Usa vengono condannati dal Tribunale dell’Aia nel 1986. 

Malgrado la situazione, e a dimostrazione di quanto la rivoluzione sandinista fosse principalmente un movimento radicale contro la dittatura ma restasse nel campo democratico, nel 1990 si torna al voto e vince la coalizione antisandinista messa insieme da Violeta Chamorro, già membro della prima giunta rivoluzionaria e proprietaria del più importante quotidiano del paese, “La Prensa”.

Il risultato viene riconosciuto e il potere consegnato, ma nella fase di transizione già si può notare la trasformazione in corso nell’entourage di Ortega con la cosiddetta” piñata”, cioè la spartizione di terre e aziende tra alcuni capi della rivoluzione in base a due leggi approvate ad hoc. Erano beni confiscati soprattutto, ma non solo, alla dinastia dei Somoza rovesciata dai sandinisti e poi nazionalizzate. Ortega stesso diventa proprietario terriero lungo il fiume San Juàn al confine con il Costa Rica. Si calcola che il valore di quanto accaparrato dai dirigenti sandinisti sconfitti fosse di 1,3 miliardi di dollari. E non stavano rubando ai ricchi latifondisti, stavano rubando allo stato nicaraguense. Con la piñata [la Pentolaccia] si chiude la stagione del sandinismo storico che si divide in due tronconi, i dirigenti ed ex guerriglieri che tentano di mantenere in vita gli ideali di Sandino e il “danielismo”, cioè il gruppo di potere che si forma attorno a Ortega e che lo accompagnerà nelle piroette degli anni successivi.

Centrale in questa costruzione sua moglie, Rosaria Murillo, che difese Ortega dall’accusa di violenza sessuale ai danni di sua figlia (di un precedente matrimonio) Zoila América. Ortega non fu mai processato per questo reato grazie all’immunità parlamentare. Il Nicaragua di Ortega ha bisogno di ossigeno e alleanze e fa diplomazia a tutto campo, inserendosi nel gruppo dei paesi dell’Alba, la alleanza bolivariana promossa da Hugo Chávez insieme a Cuba, Bolivia e Venezuela. Scelta che lo porta anche a stringere rapporti con Russia, Cina, Siria, Iran.

Il camaleonte di Managua si vende internazionalmente come un progressista e antimperialista di ferro, ma in realtà è a capo di una cleptocrazia a gestione familiare che sopravvive grazie alle alleanze spericolate sottobanco con i peggiori settori del mondo dell’industria e della finanza nazionale. Senza dimenticare i forti sospetti di rapporti con il potente mondo del narcotraffico che però non sono mai stati dimostrati con certezza.

Nel 2016 vince ancora le elezioni, questa volta con il 72%, in un crescendo ininterrotto di consensi. La vicepresidente ora è Rosaria Murillo, sua moglie, e durante la campagna elettorale era avvenuta un altro mutazione del camaleonte, diventato icona new age con slogan tipo “l’allegria di vivere in pace” o ”amore per Nicaragua”. Si registra anche l’avvicinamento del cattolico Ortega al mondo delle chiese evangeliche, ormai pedine imprescindibili per vincere in Centro America. Il paese soffre e resta ancorato agli ultimi posti del continente per povertà, circa il 40% dei nicaraguensi si trovano sotto la soglia considerata minima per vivere dagli organismi internazionali.

Nel 2015 e poi nel 2018 si registrano grandi manifestazioni contro il clan Ortega. Il motivo è una riforma previdenziale sancita senza sentire le parti che viene fortemente contestata dai lavoratori con il sostegno degli studenti universitari. La repressione diventerà brutale, addirittura vengono violate le chiese dove si rifugiano i manifestanti. La Commissione Interamericana dei Diritti Umani certifica che i morti per la repressione sono stati 328, centinaia i detenuti e i licenziati dal pubblico impiego, 88.000 gli esuli fuggiti all’estero. Il governo Ortega diventa definitivamente regime quando rifiuta l’arrivo nel paese di una missione con il compito di verificare i fatti.

Viene istaurato uno stato di polizia e cominciano a essere perseguitati i giornalisti, ma soprattutto si moltiplicano le leggi che dovrebbero preparare il terreno per l’ennesima rielezione di Ortega del 7 novembre 2021. Come quella che inibisce le candidature delle persone che si siano manifestate a favore delle sanzioni applicate dagli Usa ai congiunti del presidente, oppure quell’altra che considera le persone che abbiano ricevuto finanziamenti dall’estero per le loro attività politiche o culturali alla pari di agenti stranieri. Ciliegina sulla torta: la legge sui cyber-reati colpisce la libertà di espressione.

Questo combinato disposto di repressione e legislazione da regime ha portato nelle ultime settimane all’arresto e all’inibizione a candidarsi dei principali leader dell’opposizione, sia di destra che di sinistra, includendo alcuni personaggi storici della rivoluzione sandinista come la “Comandante 2”, Dora Marìa Téllez. Il Nicaragua si avvicina quindi nel modo peggiore alle elezioni del 7 novembre, alle quali non saranno ammessi candidati fastidiosi, non saranno controllate da nessuno e si svolgeranno in un paese senza più libertà di stampa e nel quale non si è mai riusciti a conoscere la situazione determinata dalla pandemia.

Il Nicaragua, dopo 42 anni dalla fine del somozismo, è tornato a essere un paese governato da un regime corrotto e repressivo gestito da un clan familiare. Lo stesso scenario che portò a ribellarsi sia Augusto César Sandino nel 1926 sia i sandinisti nel 1979. La storia politica del camaleonte Ortega è unica in America Latina proprio per questo dato, da comandante di una rivoluzione contro l’ingiustizia e il totalitarismo a ricco e corrotto gestore di un regime che ha portato indietro nel tempo il Nicaragua, fino alla prossima ribellione.

Da un lato il Fondo Monetario Internazionale avverte che il Covid-19 potrebbe diventare un problema endemico per l’Africa subsahariana, compromettendone lo sviluppo. Dall’altro il cartello di associazioni sanitarie e umanitarie People’s Vaccine Alliance denuncia che, rispetto agli 1,8 miliardi di dosi promesse al fondo Covax, nato per distribuire vaccini ai Paesi più poveri, al momento ne sono arrivate 261 milioni, solo il 12%. Le aziende produttrici, che stanno macinando miliardi su miliardi, hanno consegnato solo 120 milioni di dosi sui 900 milioni promessi. Johnson & Johnson e Moderna nemmeno una. È l’ennesima dimostrazione della distanza tra le promesse, buone da spendere durante i grandi vertici mondiali, e la realtà. Proprio com’è già successo più volte con i fondi per la cooperazione allo sviluppo e con quelli destinati a mitigare gli effetti del cambiamento climatico sostenendo i Paesi con grandi superfici forestali. Facendo una media approssimativa, di solito va bene se si arriva al 10% di quanto promesso.

Ma, mentre le ricadute delle mancate promesse su ambiente o sviluppo si manifestano a distanza di tempo, per il Covid-19 i risultati di questa miopia si vedranno a breve. Nell’Africa subsahariana gli immunizzati con una sola dose sono il 4,5% della popolazione e solo il 2,6% ha ricevuto un ciclo completo. Secondo il FMI questo ritardo gigantesco sta pesando notevolmente sulla crescita economica, che per il 2021 è prevista al 5,9% a livello globale ma solo al 3,8% – nella migliore delle ipotesi – per l’Africa subsahariana. Si calcola che il gap accumulato dall’Africa in materia di vaccinazioni si estenderà fino al 2023, e di conseguenza il continente dovrà fare i conti con ulteriori restrizioni alle attività sociali ed economiche. Inoltre, molte organizzazioni non governative denunciano che l’Africa resta così esposta alla circolazione di nuove varianti più aggressive del virus che potrebbe quindi diventare endemico, con una conseguente perdita di PIL anche a lungo termine che costringerà a ulteriori ricorsi al debito, già ora un macigno per molti Stati, situazione che colpisce soprattutto i più deboli per via dell’aumento del costo degli alimenti.

L’OMS auspica che entro la fine del 2021 sia vaccinato almeno il 40% della popolazione dei Paesi in via di sviluppo. In realtà, l’unica misura che poteva favorire questo traguardo, cioè la sospensione dei brevetti come previsto dal WTO in situazioni di emergenza per moltiplicare i soggetti in grado di fabbricare i vaccini, è stata per ora accantonata. Dallo scorso luglio, quando a Ginevra è stata l’Unione Europea a bloccare la moratoria proposta da India e Sudafrica, la mediazione si è fatta sempre più difficile: mentre nella maggior parte del mondo mancano i vaccini, in Occidente si è dato il via alla somministrazione della terza dose.

Poche volte come in questo caso il mondo ha dato l’idea di essere un condominio in guerra contro se stesso. Dopo un primo momento all’insegna del “si salvi chi può”, se vogliamo comprensibile, ora ci sarebbe la serenità per decidere di eradicare il Covid-19 a livello globale. Eppure continuano a prevalere da un lato gli egoismi, dall’altro la tutela a spada tratta degli interessi della grande industria farmaceutica. Il tema non è nuovo, ma in questo frangente lascia intendere come gli attuali legami e rapporti di forza tra l’economia e la politica siano così forti che praticamente nulla può metterli in discussione. Nemmeno una pandemia.

Quando arrivano i vertici internazionali scatta il solito copione: è il momento di formulare solenni promesse da marinaio, alle quali ormai non crede più nessuno. Per pochi minuti, sotto i riflettori, i leader delle grandi potenze recitano evocando principi alti, parlano di etica e di solidarietà, si danno un tono da grandi statisti. Per poi dimenticare tutto dopo pochi giorni, fino al prossimo vertice.

Da quando nel 2007 la popolazione delle città, a livello mondiale, ha sorpassato quella delle campagne, molte cose sono cambiate nel rapporto tra i grandi e i piccoli centri, anche sotto il profilo politico. Con evidenza sempre maggiore, le città grandi e medie votano in modo diverso rispetto a quelle meno popolose e alle campagne. Ovviamente, là dove esiste la democrazia. Mentre nelle città il voto tende a premiare candidati che vanno dal fronte moderato a quello progressista, nelle campagne e nei piccoli centri si è affermata la tendenza al voto conservatore, quando non di destra radicale. Si sono così create due geografie politiche che spesso convivono a breve distanza, in tutti i continenti: il baricentro politico è progressista in città come New York, Berlino, Londra, Istanbul, Buenos Aires, Mumbai, Barcellona e Milano, con sindaci che hanno in comune la sensibilità ambientale, il rispetto dei diritti, la priorità data all’inclusione sociale; dall’altra parte, nelle campagne o nei centri urbani sotto i 100.000 abitanti la politica che vince è spesso quella che si basa sui temi “sicuritari” e che ripropone valori culturali tradizionali, concentrando l’attenzione su immigrazione e sicurezza e guardando il mondo esterno con diffidenza. Mai come ora questa divisione è stata così netta, e i motivi sono diversi.

Si tratta di un fenomeno sicuramente ispirato dall’evento che negli ultimi decenni ha cambiato il volto del pianeta: la globalizzazione. La società che è motore e insieme risultato di trent’anni di cambiamenti radicali nel mondo del lavoro, della cultura, della produzione è quella urbana. Nelle città sono avvenuti i cambiamenti epocali che hanno ridisegnato il mondo, nel bene o nel male. Le campagne, invece, sono state semplici comparse, considerate soltanto in quanto produttrici di materie prime essenziali, ma prive di voce in capitolo. Non a caso, è nei piccoli centri e nelle campagne che ora serpeggia quella paura che porta a un voto conservatore, così diverso rispetto a quello urbano. Paura di un mondo incomprensibile, nel quale potrebbe non esserci più posto per chi vive nelle campagne. Paura dell’“aggressione” al proprio modello di vita che l’arrivo di altra gente, con altri costumi, potrebbe comportare. Se la città vive di innovazione e cambiamento, le campagne le rifiutano; se nelle città tutto si mescola e le opportunità si fanno più trasversali, nelle zone rurali conta ancora l’appartenenza a un’etnia o a una classe sociale.

Oggi, quando si vota a livello nazionale, tra città e campagne finisce quasi in parità. È difficile dire come evolverà la situazione: dipenderà dall’aumento della popolazione urbana o, viceversa, dal prevalere dei trasferimenti dell’attuale popolazione urbana verso i piccoli centri. Il dato politico rimane che le città guardano al futuro mentre le aree periferiche al passato, e la contrapposizione tra i due modelli rischia di diventare pericolosa. In città spesso ci si dimentica che il mondo funziona grazie alle materie prime alimentari, ai minerali, ai combustibili, al legname e anche all’ossigeno che si genera fuori dalle città; nelle campagne ci si dimentica che la propria sopravvivenza è legata ai consumi delle città.

Prima che la frattura diventi definitiva, sarebbe tempo di sottoscrivere un nuovo patto tra città e campagne che abbia al centro il tema ambientale, e non solo. Il mondo, anche se si fatica a percepirlo, è sì governato da chi è maggioranza demografica, ma questa maggioranza vive sul 3% della superficie terrestre. L’egemonia culturale ed economica è nelle sue mani, ma un patto con il resto del pianeta, e con chi ci vive, non è solo logico ma anche urgente.

Aggrappati al turismo

Pubblicato: 16 ottobre 2021 in Senza categoria

Dopo la Thailandia, le Seychelles, le Maldive, l’Indonesia e l’Egitto, anche il Vietnam ha annunciato una “sandbox” turistica o, meglio, la creazione di “bolle sanitarie” per riaprire le porte al turismo internazionale. La maggior parte dei Paesi asiatici aperturisti è alle prese con la variante delta e con una situazione sanitaria ancora lontana dall’essere sotto controllo, a causa della scarsa diffusione dei vaccini. Eppure hanno fretta di riaprire perché il turismo di massa, soprattutto quello in cerca di mare e sole, rende questi Paesi simili a organismi assuefatti alle droghe pesanti, che passano dal danneggiarsi assumendo droga allo star male per l’astinenza. Per molti di essi il turismo è stato negli ultimi decenni il toccasana che consentiva di incamerare valuta forte e, in questo modo, di mantenere basso il disavanzo pubblico, ottenendo tassi di interesse contenuti al momento di rivolgersi al mercato internazionale dei capitali. Questo in aggiunta, ovviamente, all’occupazione generata dal settore, importante per le casse pubbliche in quanto si tratta di personale in regola e di imprese che fatturano regolarmente e, quindi, versano al fisco.

La riapertura dell’industria turistica di Phuket, Bali o Sharm el-Sheikh non deve meravigliare. Infatti, contrariamente a quanto capita nei confronti di Stati ben più ricchi, gli organismi internazionali e i mercati di capitale si aspettano che i Paesi emergenti registrino avanzi di bilancio, abbiano solide riserve in valuta estera e non eccedano nella spesa pubblica. Sono i parametri in base ai quali si calcolano tassi d’interesse più o meno salati al momento della concessione dei prestiti, e il turismo, insieme alle rimesse degli emigrati, è vitale perché questi Paesi possano raggiungere condizioni favorevoli. A tale logica sfuggono gli Stati con un’economia più matura e bilanciata, che hanno entrate generate anche da esportazioni diversificate e possono contare su un mercato interno più solido. Paesi come quelli che nel Sudest asiatico stanno riaprendo al turismo hanno, viceversa, un settore di beni e servizi dipendente da pochissime voci, tutte collegate alla congiuntura internazionale, come appunto il turismo.

Ecco perché l’industria turistica di massa nei Paesi emergenti è così importante e, al tempo stesso, devastante nei suoi impatti. Crea seri problemi ambientali e sociali, introduce dinamiche esogene sul costo di merci e servizi, opera quasi senza vincoli né controlli. Il turismo, in queste situazioni, non genera processi di reale sviluppo e non viene pensato come opportunità di crescita delle comunità locali, ma solo come “salvadanaio” degli Stati. Che, dunque, chiudono gli occhi davanti allo scempio ambientale o all’imposizione di condizioni di lavoro intollerabili pur di far continuare il flusso di turisti, considerati solo come portatori di valuta forte.

Si tratta di una situazione che si presenta uguale a sé stessa fin dalla nascita turistica di queste destinazioni, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, senza che si sia mai veramente cercato di porre dei correttivi. Il turismo continua a vivere un’enorme contraddizione: genera risorse gigantesche, seconde solo a quelle del settore manifatturiero, ma viene considerato un’attività quasi marginale, finalizzata a tappare buchi dei conti pubblici. Eppure, a differenza dell’industria, del commercio o delle attività finanziarie, il turismo si svolge in luoghi che sono quelli del vivere comune, consumando territorio, acqua, cibo, bellezza; il turista entra capillarmente nella vita delle popolazioni, convive con i residenti, spesso nella stessa casa, e cambia il volto delle città e delle coste, cambia la cultura locale, fa muovere importanti pezzi dell’economia reale. Ma questi aspetti non sono considerati: il turista continua a essere percepito come una specie di convitato di pietra, una questione di vita o morte solo per i conti pubblici.

L’allarme lanciato degli allevatori britannici di tacchini è l’ennesima conferma di come ormai a essere interdipendente non sia solo il mondo nella sua globalità, ma anche i singoli Stati al loro interno. Per mancanza di personale gli allevatori britannici non riusciranno a garantire il piatto re della tavola natalizia isolana: il tacchino, portato dall’America in Europa proprio dai coloni inglesi. Non solo: molte altre merci per la prima volta nella storia postbellica scarseggeranno e gli scaffali natalizi rimarranno semivuoti. Senza contare la crisi dell’autotrasporto dovuta alla mancanza di camionisti, quella della sanità e dell’assistenza alla persona e di molti altri mestieri e professioni. La Gran Bretagna imperiale, che si immaginava autarchica anche in materia di manodopera, sta per alzare bandiera bianca e già il governo, alla disperata, ha dovuto annunciare la concessione di alcune migliaia di permessi di lavoro a cittadini stranieri. È incredibile che un Paese quasi integralmente terziarizzato, che importa ben più della metà di quanto consuma, che esporta servizi finanziari, bancari e assicurativi e che per funzionare si serviva della manodopera delle ex colonie e dell’Europa comunitaria, abbia creduto di potersi sganciare senza contraccolpi dal suo grande mercato naturale, l’Unione Europea. Eppure Londra l’ha fatto davvero, cambiando le regole su merci e servizi e lasciando scoperti da un giorno all’altro centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Una sola volta era successo qualcosa di simile, ma era fiction hollywoodiana, nel film Un giorno senza messicani del 2004. Il film racconta la misteriosa scomparsa dei messicani dalla California, immersa in una strana nebbia. È il caos, lo Stato si paralizza.

La differenza è che nel caso della Brexit non si tratta di distopia, ma del risultato di una catena incredibile di errori di calcolo e di opportunità. Dal conservatore David Cameron che usò l’arma del referendum per ricattare l’Europa nel tentativo di ottenere maggiori vantaggi per il Regno Unito e restò scottato dal risultato pro-Brexit del 2016, passando per i goffi tentativi di Theresa May di negoziare un’uscita dignitosa, fino alla spregiudicatezza di Boris Johnson, il quale affermava che bisognava uscire dall’Unione al più presto, senza pensare alle conseguenze. Anzi, sostenendo che sarebbero state sicuramente positive.

L’errore di tutti questi politici è stato ragionare con parametri superati. Una volta un’economia forte, un esercito di rispetto e il prestigio internazionale erano sufficienti per poter stare da soli, e anche bene. Le materie prime che non si producevano si predavano, o quasi, dai Paesi coloniali e postcoloniali; e il personale di fatica lo si reclutava nei ceti bassi della società o con operazioni mirate di importazione di manodopera. Oggi tutto questo è stato superato dalla globalizzazione. Non solo i Paesi sono integrati in un sistema-mondo, ma anche le loro società riflettono in piccolo ciò che è il mondo odierno, una rete interdipendente. Una popolazione molto istruita e qualificata ha necessità, come complemento, di immigrati di diverse provenienze che occupino i posti di lavoro lasciati liberi, sognando di salire sull’ascensore sociale. Camerieri, idraulici, camionisti, infermieri, braccianti agricoli: lavoratori senza i quali si ferma tutto, come appunto sta succedendo nel Regno Unito. Lo stesso vale per le relazioni commerciali. Uscire da un mercato protetto, nel quale le tue merci viaggiavano senza problemi e dove potevi comprare come se fossi a casa tua, non è una questione che si risolve in pochi mesi. L’arroganza con la quale la politica del Regno Unito ha sognato di far tornare il proprio Paese la potenza di un tempo si è scontrata contro il muro della realtà. E tanti saranno i feriti.

Dopo i risultati elettorali in Norvegia e in Germania, c’è chi si è affrettato a dichiarare che dalla crisi si sta uscendo a sinistra. Ma una veloce analisi della situazione smentisce questa lettura, perché il Paese scandinavo e la locomotiva dell’Europa la crisi non l’hanno conosciuta. O meglio, l’hanno solo sfiorata, in modo neanche lontanamente paragonabile ad altri Stati europei. Si era detto lo stesso nel dicembre scorso, dopo la vittoria di Joe Biden negli Stati Uniti, ma anche i motivi alla base del cambiamento di inquilino alla Casa Bianca erano altri rispetto a un riposizionamento a sinistra: in primis l’inaffidabilità di Trump e i timori per la democrazia, con la relativa mobilitazione dell’elettorato democratico e, tra gli altri, il protagonismo delle minoranze e la scelta di un candidato “centrista”. Lo stesso si può dire del balzo del Partito Comunista alle legislative in Russia, passato dal 13 al 21% perché l’oppositore storico Aleksej Navalnyj, in sé non particolarmente progressista, aveva dato ordine ai suoi elettori di votare i candidati con maggiori possibilità di battere il partito di Putin, valutando collegio per collegio. In America Latina, in pandemia le elezioni hanno premiato presidenti di destra in Ecuador e Salvador e di sinistra in Perù e Bolivia.

Riassumendo, l’idea che la crisi economica causata dalla pandemia abbia spinto l’elettorato verso sinistra non trova conferma nei processi elettorali laddove le elezioni si possono considerare “pulite”. Invece, il dato confermato statisticamente è che durante la pandemia in 81 Paesi la situazione delle libertà individuali, della libertà di stampa e del rispetto dei diritti umani è peggiorata, mentre solo in uno, la Nuova Zelanda, è migliorata. Il presidente cinese Xi Jinping ha recentemente usato una parabola illuminante per chiarire la posizione del suo Paese sui temi più caldi: “Se le scarpe si adattano è noto solo a chi le indossa. Su quale sistema possa funzionare in Cina, solo i cinesi hanno il diritto di parlare”. In sostanza, ciò che succede in Cina sono affari della Cina: è questa la risposta sia alle proteste per la situazione della minoranza musulmana uigura sia alle pressioni contro l’avanzata di Pechino a Hong Kong.

Dalla crisi, si legga pandemia, non è detto quindi che si esca a sinistra, e nemmeno a destra. Di sicuro se ne sta uscendo con un mondo cambiato, che da un lato non riesce a mettersi d’accordo sul grande tema dell’ambiente, dall’altro è diventato terreno fertile per il consolidamento e la proliferazione di democrazie illiberali o di veri e propri regimi autoritari. La sospensione di alcuni diritti fondamentali durante la pandemia è diventata permanente in molti Paesi, mentre in Occidente i cosiddetti “no green pass” manifestano contro immaginarie dittature sanitarie che permettono però loro di esprimere il dissenso liberamente e pubblicamente. Nessuno invece si mobilita per quanto denunciato dal segretario generale dell’ONU António Guterres, l’oscenità cioè di un mondo ricco, con Paesi dove l’80 % della popolazione vaccinabile è stata immunizzata e sta arrivando la terza dose, mentre il 90% degli africani ancora aspetta la prima. La denuncia è caduta nel vuoto perché al momento è scomparso il senso di appartenenza a un unico destino: l’idea, cioè, che siamo tutti sulla stessa barca ormai si sente risuonare solo dalle parti del Vaticano. Nel mondo del “si salvi chi può” i poteri forti dell’economia fanno grandi affari e gli aspiranti dittatori trovano una strada in discesa. E non è complottismo, ma la triste constatazione che dalla pandemia stiamo uscendo molto peggio di come siamo entrati.