Archivio per la categoria ‘Mondo’

La più autorevole ONG di aiuti umanitari, l’International Rescue Committee di New York, ha mappato tutte le tensioni nel mondo che quest’anno potrebbero degenerare in conflitti. Riguardano tutte Paesi dove già si stanno verificando episodi di violenza, spesso con bilanci drammatici. Anche se praticamente nessuno ne parla, nel 2023 nei Paesi in cui di recente si sono verificati colpi di Stato le vittime sono state migliaia: 7800 in Burkina Faso, 4100 in Mali, 1000 in Niger. La mappa mondiale tracciata dall’International Rescue Committee non tiene conto delle guerre già in corso, e dunque non si sofferma né sul conflitto russo-ucraino né su quello israelo-palestinese. Guarda piuttosto ai Paesi in cui si sta verificando un conflitto “non convenzionale”, sia pure con diversa intensità, dividendoli in due categorie che comprendono 10 Stati ciascuna. Ne emerge la fotografia di una “Terza guerra mondiale a pezzi”, come ebbe a dire in modo lungimirante papa Francesco nel 2014. Nel complesso, i conflitti quest’anno potrebbero coinvolgere il 10% dell’umanità, cioè una persona ogni dieci. Tra gli uomini, le donne e i bambini colpiti dalle guerre si trovano il 75% delle persone obbligate a lasciare la propria abitazione e il 70% di quelle in grave insicurezza alimentare.

I focolai mappati si concentrano soprattutto nell’Africa subsahariana, nella fascia del Sahel ma anche nella regione nilotica, con il Sudan e il Sud Sudan ad alto rischio, e poi nell’Africa centrale, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, e nel Corno d’Africa, in Etiopia, Eritrea e Somalia. Il Medio Oriente è sempre fonte di preoccupazioni per il rischio di allargamento del conflitto Israele-Hamas a Libano, Siria, Giordania, Iran, Yemen e Iraq, fino al Pakistan. In Asia rimangono drammatiche anche le situazioni dell’Afghanistan, dove ora i talebani si stanno scontrando con forze affiliate all’ISIS, e del Myanmar, dopo il colpo di Stato del 2021. In America Latina spiccano Haiti, Paese di fatto in mano a bande criminali, e l’Ecuador, sconvolto dallo scontro tra narcotrafficanti e Stato. Infine c’è l’Europa orientale, che oltre alla guerra russo-ucraina ospita altri potenziali focolai di conflitti, dai Balcani alla Transnistria. I problemi non si esauriscono qui. In Estremo Oriente sono sempre da monitorare la situazione nel Mar della Cina e attorno a Taiwan e la frontiera tra le due Coree; nel Maghreb la Libia e la Tunisia.

Bisogna tornare indietro fino alla Seconda guerra mondiale per trovare un mondo così a rischio di esplodere in mille conflitti. Le due grandi guerre attualmente in corso, quelle in Ucraina e in Palestina, paiono in grado di innescare una spirale e di trascinare altri Paesi nel caos, avviando così un conflitto su larga scala, come si teme possa accadere fin d’ora in Medio Oriente. Di fronte a questa situazione incendiaria, appare evidente come la politica conti molto poco. Non soltanto quella multilaterale, che vede il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in teoria dispositivo di risoluzione dei conflitti, bloccato dai veti incrociati dei cinque Paesi dotati di seggio permanente, ma anche quella bilaterale e delle singole potenze. Le ripetute visite del segretario di Stato degli USA Antony Blinken in Israele dopo il 7 ottobre non hanno prodotto nessun effetto concreto sulla linea adottata dal Governo Netanyahu nei confronti di Gaza. Così come l’incontro del 2019 tra Donald Trump e Kim Jong-un non portò certo alla fine del programma nuclear-missilistico della Corea del Nord. Il paradosso è che oggi i principali attori globali condividono un’unica visione del mercato, come mai era accaduto in passato, ma i nazionalismi, i sovranismi, gli espansionismi si sono liberati dai lacci imposti dalla Guerra Fredda. A differenza di quanto accadeva in un passato ancora vicino, non c’è più nessuno in grado di fermare davvero le aspirazioni di chi punta le sue armi contro qualcun altro. Che si tratti del premier israeliano, del capo di Hezbollah, del presidente della Federazione Russa oppure di quello degli Stati Uniti.

Quello che viene presentato come un problema per i consumatori è, in realtà, l’ennesimo termometro che misura la gravità dei problemi del mondo contemporaneo. Stiamo parlando dei rincari delle materie prime alimentari, in alcuni casi vertiginosi, molto spesso conseguenza del cambiamento climatico. Era già successo con il caffè, aumentato nel 2022 per via delle alluvioni che avevano colpito il primo produttore mondiale, il Brasile, e ora è il turno del cacao. L’alternanza tra periodi di siccità e alluvioni ha portato a una riduzione della resa del 25% in Costa d’Avorio, primo Paese produttore: significa che la disponibilità totale di cacao nel mondo si ridurrà almeno del 10%. Intanto la previsione della carestia di fave di cacao ha già determinato un aumento del 65% dei prezzi della materia prima. È una reazione spropositata, alimentata dalla speculazione, che inciderà pesantemente sul prezzo di ogni singola barretta di cioccolata. L’anno scorso qualcosa di molto simile è accaduto per l’olio d’oliva, tra siccità e alluvioni che hanno danneggiato le piante soprattutto nel periodo della raccolta delle olive in Spagna, di gran lunga primo produttore al mondo: e l’olio extravergine d’oliva è stata la commodity che ha registrato il maggiore aumento di prezzo nel 2023, oltre il 100%.

Ai danni provocati dal cambiamento climatico si aggiungono i rischi geopolitici dettati dal riaccendersi del conflitto mediorientale, che sta rendendo proibitiva la navigazione nel Mar Rosso. Da questo mare passano il 51% del riso, il 58% dell’olio di palma e il 47% del tè che si consumano in Europa, Medio Oriente e Nord Africa. Un altro focolaio bellico molto preoccupante anche sotto questo profilo è quello russo-ucraino, che pesa notevolmente sul mercato mondiale dei cereali e dei fertilizzanti per l’agricoltura. A concludere questa lunga lista di criticità è l’entrata in vigore della normativa europea contro la deforestazione: prevede che sette materie prime (tra le quali cacao, caffè, carne bovina e soia) possano essere commercializzate nell’UE solo a condizione che, per produrle, non siano stati utilizzati terreni deforestati dopo la fine del 2020. Questa misura, sicuramente corretta e sensata sul piano teorico, è però di difficilissima applicazione pratica, basti pensare alla complessità dei controlli e dei monitoraggi. In ogni caso, si pensa che provocherà un calo quantitativo delle materie prime in arrivo in Europa e, quindi, un ulteriore aumento dei prezzi.

Mettendo insieme tutte queste informazioni, si può prevedere con certezza che avremo una nuova fiammata inflazionaria dovuta all’aumento delle materie prime alimentari, che si sommerà a quella del 2022 provocata dall’aumento del costo dell’energia. Il nodo comune è costituito dai conflitti, che si trascinano e si moltiplicano a fronte dell’incapacità della politica e di un vuoto di governance; ci sono poi specifici fattori ambientali riconducibili al cambiamento climatico, problema che conosciamo bene da decenni, ma sul quale si continua a dibattere anziché accelerare nelle risposte. Nel caso del cibo, la situazione appare ancora più grave se si guarda ai Paesi produttori. Le materie prime che diventeranno sempre più difficili da produrre e più care, e dunque perderanno quote di mercato, hanno infatti trasformato il paesaggio agricolo di molte regioni e spesso di interi Paesi, che si sono votati alla produzione agricola per l’export – come il caffè, il cacao o gli avocado – abbandonando altre colture e la produzione di cibo per i bisogni locali. Auto-condannandosi a dipendere dal mercato globale dei cereali o della carne per sopravvivere.

Sono tante le distorsioni generate dalla globalizzazione lasciata a se stessa. Sul tema fiscale, con le grandi multinazionali che per anni sono riuscite a eludere le tasse grazie a elaborate strategie, si è arrivati a una soluzione almeno parziale con la “minimum tax globale”. Nel mondo della produzione alimentare, invece, non ci sono ancora idee su come programmare il futuro e far convivere le produzioni di alimenti di base e di conforto. Soprattutto, non si è mai fatta una riflessione seria sugli adattamenti indispensabili per salvare la produzione di cibo dal cambiamento climatico. Il tema della sicurezza alimentare, dimenticato dall’agenda politica, torna ora a riproporsi in modo prepotente aggiungendosi all’agenda globale delle emergenze, che tali sono solo perché le abbiamo ignorate a lungo.

Il primo febbraio del 2021, senza fare clamore in un mondo ancora scosso dalla pandemia, in Myanmar i militari rovesciarono il governo e tornarono al potere. Un potere che avevano ufficialmente lasciato nel 2010, ma senza mai allontanarsene molto: per una decina d’anni avevano continuato a condizionare la fragile democrazia birmana, rimasta sempre sotto la “tutela” delle forze armate. I motivi per i quali, all’inizio del 2021, i militari decisero di tornare alla gestione diretta del potere sono diversi, ma quasi tutti riconducibili ad affari illeciti: ora nel campo dell’estrazione mineraria e delle pietre preziose, ora delle cyber-frodi e del traffico di stupefacenti. Un mix di modernità e di ritorno al passato, quando i militari riciclavano i proventi nel settore turistico per coltivare e commercializzare il papavero da oppio.

Il golpe del 2021 fu favorito in modo nemmeno tanto occulto dal più ingombrante tra i vicini del Myanmar, la Cina, all’epoca in procinto di diventare la monopolista di fatto nell’estrazione delle cosiddette “terre rare”. Si tratta di 17 elementi chimici alla base della rivoluzione tecnologica attualmente in corso ma particolarmente rari, cioè difficili da individuare, estrarre e lavorare. Non tutti i Paesi li hanno a disposizione: la produzione mondiale, infatti, è concentrata in Cina (che da sola controlla circa il 62% del mercato), USA (12%), Myanmar e Australia (10% ciascuno). Poi restano le briciole. È evidente che per Pechino arrivare a controllare tre quarti del mercato di questi minerali strategici significa instaurare quasi un monopolio globale e, insieme, raggiungere la perfetta quadratura del cerchio, essendo la Cina anche il primo produttore mondiale di alta elettronica. Ed è esattamente quello che è accaduto dopo il colpo di Stato in Myanmar. Il “debito” che i militari birmani hanno contratto nei confronti di Pechino, infatti, si è tradotto nella concessione del controllo dell’estrazione delle terre rare alla Cina, che non solo iper-sfrutta i giacimenti del Myanmar, ma scarica anche sul Paese vicino il grande impatto ambientale associato all’estrazione.

Oggi, però, non tutto fila liscio tra i militari e la Cina. Nel Nord del Myanmar si è formata un’alleanza tra l’esercito delle forze di opposizione e quello della minoranza cinese, e i “ribelli” stanno conquistando una fetta importante di territorio. Già controllano Chinshwehaw, una città di confine con la Cina vitale per gli scambi commerciali tra i due Paesi. Il silenzio di Pechino sui combattimenti in corso lascia presagire una presa di distanza dal regime birmano[1] , che si può spiegare con due ordini di motivi. Il primo riguarda il fiorire, proprio nel Nord del Paese, di attività di cyber-frodi che hanno colpito soprattutto la Cina; il secondo è il ruolo decisivo che la minoranza di etnia cinese sta assumendo nella resistenza. Per i militari, che hanno represso l’opposizione democratica uccidendo migliaia di persone, la sfida armata si sta facendo insidiosa, e lo sarà ancor più se verrà meno la copertura politica di Pechino. Ciliegina sulla torta è il Rapporto annuale 2023 dell’Office on Drugs and Crime – l’ente “antidroga” – delle Nazioni Unite, nel quale si legge che la produzione di oppio in Myanmar è aumentata del 36%, che le aree di coltivazione si sono ulteriormente estese e che i proventi del traffico ormai equivalgono al 2-4% del PIL nazionale: il Myanmar ha superato l’Afghanistan e detiene il triste primato di essere il primo produttore mondiale di oppio.

I militari birmani hanno quindi confermato tutte le loro peggiori caratteristiche, dal fomentare un nazionalismo farlocco, che ha portato alla tragica espulsione della minoranza rohingya verso il Bangladesh, alla pratica della repressione di massa; dal favorire le truffe informatiche alla vecchia tradizione della produzione di oppio. Il tutto finora è avvenuto nel silenzio grazie alla sponsorizzazione interessata della Cina, che però adesso sta prendendo le distanze. I “Machiavelli” che governano a Pechino hanno fatto i loro conti: se, alla fine, i militari resteranno in piedi, saranno sempre uomini a loro disposizione; se invece prevarrà l’opposizione, nella quale la minoranza cinese ha un ruolo centrale anche dal punto di vista militare, i rapporti con il Myanmar resterebbero comunque buoni. È una politica losca, ma è pur sempre una politica. Il resto del mondo rimane a guardare, anche se qui sono in gioco diversi punti chiave dell’agenda globale.


Il Natale è stata la prima festa di matrice religiosa ad assumere portata davvero globale, prima ancora che finisse la Guerra Fredda. Ciò è accaduto parallelamente al progressivo allontanamento del Natale dal suo significato originario: ricordare la nascita, avvenuta in Medio Oriente, di quel bambino ebreo che i cristiani avrebbero considerato il figlio di Dio. Una ricorrenza destinata a radicarsi soprattutto in Europa e poi a espandersi nel mondo, grazie al colonialismo. Nel senso religioso, il Natale è una festa di preghiera e di speranza: ma in questi termini coinvolge solo una parte dell’umanità. Intesa in senso laico, invece, ormai da tempo la festa coinvolge qualche miliardo di persone in più. Tuttavia, sembra che oggi qualcosa stia cambiando. Rispetto agli anni passati, la “voglia di Natale” dei Paesi del Sud globale, soprattutto di quelli non cristiani, oggi è molto calata. Se celebrare il Natale era uno dei presupposti per fare (e sentirsi) parte di una comunità globale, con aspirazioni, interessi e simboli condivisi, il passaggio di questa festa a evento di secondo piano racconta molto dei mutamenti in corso.

Il successo del Natale, nella sua versione laica e contemporanea, aveva anticipato di qualche decennio il fenomeno della globalizzazione grazie a una coincidenza di valori fondanti: da un lato la retorica dell’uguaglianza universale, dall’altro l’identificazione dell’uguaglianza in un’omologazione dei consumi e degli immaginari. Ma le crepe che si sono aperte nella narrazione globale, le fratture provocate dalla pandemia e dai conflitti in corso e i “distinguo” sempre più numerosi dei Paesi del Sud globale rispetto alle politiche delle vecchie potenze, quelle dove il Natale è tradizione antica, stanno facendo tornare la slitta di Babbo Natale nel suo territorio di origine, l’Occidente. A proposito, c’è da dire che Babbo Natale di cristiano ha ben poco. Celebrarlo come simbolo del Natale per molti credenti è quasi una blasfemia, nonostante all’origine della sua figura ci sia un’antica venerazione per san Nicola (sint Nicolaas per gli olandesi, da cui Santa Claus), vescovo barbuto che, secondo l’agiografia, dispensava doni ai bisognosi. Di Santa Claus e della sua leggenda si impadronì a suo tempo la Coca-Cola, facendone un omone vestito di rosso a scopo meramente pubblicitario. Non a caso, proprio Babbo Natale è diventato il simbolo di una festa comandata dalle multinazionali, quelle che offrono ovunque gli stessi prodotti sfruttando l’universalizzazione del Natale al pari di quella di Halloween o di san Valentino.

Ai tempi però di una nuova Guerra Fredda multipolare, Paesi come Cina, India e Russia scelgono più o meno inconsciamente di tornare alle loro tradizioni. E non fa differenza che siano paesi a tradizione buddista, induista, musulmana o cristiana, perché il Natale mercificato e globalizzato stride anche nei Paesi cristiani impoveriti, colpiti dalle bombe o dai cambiamenti climatici. Ieri festeggiare tutti insieme il Natale, a prescindere dalla collocazione geografica o culturale, era un segno di speranza, di fiducia nella possibilità di raggiungere obiettivi universali. Oggi quegli obiettivi paiono allontanarsi irrimediabilmente e alla fine, nell’epoca del “si salvi chi può”, ognuno si tiene il suo: nazionalismi, sovranismi, integralismi sono tutti nemici dello spirito natalizio così come la storia del Novecento lo ha imposto al mondo. Questo del 2023 sarà così un Natale in scala minore, che interesserà “solo” qualche centinaio di milioni di persone. Per questo, forse, sarà più autentico. Babbo Natale potrebbe essere la prima vittima simbolica della fine del ciclo della globalizzazione, quello degli anni ’90: la sua slitta si è molto alleggerita, porterà doni a qualche miliardo di esseri umani in meno. Se questo sarà un bene o un male lo scopriremo più avanti, per il momento non ci si può esimere, almeno da noi, dall’augurarci che le feste del 2023 portino serenità e soprattutto consiglio a chi, nei prossimi mesi, dovrà decidere il destino del mondo.

In un mondo disarticolato, qualsiasi politica che richieda uno sforzo multilaterale naufraga. È quello che sta accadendo anche a Dubai, emirato cui è stata assegnata l’organizzazione della COP28: la Conferenza delle Parti di fine 2023 deve fare i conti con i progressi nulli, dopo l’Accordo di Parigi del 2015, di un mondo nel quale sugli interessi generali prevalgono gli interessi particolari, che non trovano contrappesi nella politica. Un mondo nel quale, per giunta, i conflitti d’interesse contaminano in profondità la vita pubblica, a partire dalla posizione particolare dello Stato ospite dell’evento: gli Emirati Arabi Uniti, cassaforte dei profitti ottenuti con la vendita del gas e del petrolio del Golfo. Ma non è questo l’unico fronte dove si tocca con mano l’attuale fase improntata al “si salvi chi può” e alla difesa degli interessi di parte. Le guerre in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza si avvitano su loro stesse, in una totale mancanza di idee, proposte e atti autorevoli che antepongano una risoluzione negoziata al ricorso alle armi. E non solo: l’accordo sul nucleare con l’Iran è saltato, l’impunità del dittatore Kim Jong-un è ormai conclamata e la Corea del Nord continua a lanciare missili, per ora disarmati, sulle teste dei vicini, i golpe in Africa e Asia si moltiplicano sostenuti da potenze “amiche”, e le disuguaglianze anziché diminuire aumentano.

Insomma, il mondo alla fine del 2023 non offre un bel panorama. Forse, la cosa più grave è che è andata persa la speranza, in passato motore di grandi slanci ideali e pratici. Si affievolisce l’idea stessa di una pace raggiungibile, della lotta alla povertà, della giustizia e della salvaguarda ambientale. Più che le idee, oggi ci restano i ricordi: l’agenda mondiale è tornata tristemente cupa. Alla politica è subentrata la rincorsa alle emergenze, che sono la drammatica conseguenza proprio della mancanza di politica, cioè della capacità di prevedere e di adoperarsi per tempo in modo da evitare che le situazioni si facciano emergenziali. Parliamo di emergenza climatica perché 30 anni fa, quando già la tendenza era chiara, non l’abbiamo aggredita con politiche lungimiranti; di emergenza bellica, perché si sono abbandonati i tavoli negoziali e accumulate le armi; di emergenza povertà e migrazione, temi discussi dagli organismi internazionali senza autentica volontà di risolverli già alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Il tema che al suo interno contiene tutti gli altri, soprattutto se ci proiettiamo verso il futuro, è la sfida del clima, che è all’origine di conflitti, povertà e migrazioni, drammi economici e umani. È questo il vero banco di prova per la rinascita del multilateralismo, come ha sottolineato papa Francesco nel suo discorso alla COP28: come tante volte si è detto, nessun Paese da solo può risolvere il problema e il dramma è che si continua a pensare che ci sia ancora tempo, che ci siano altre emergenze più urgenti. Per ora, a Dubai il dibattito sta portando soltanto alla nascita del tanto richiesto fondo di compensazione sui danni provocati dal cambiamento climatico nei Paesi più poveri. Se questa sarà l’unica novità, il vertice sarà stato un fallimento e il seguito si complicherà molto. Se l’unica cosa sulla quale si troverà un accordo sarà agire sulle conseguenze nei Paesi più poveri e non sulle cause, sarebbe un tradimento rispetto a quanto deciso nel 2015 a Parigi. Ma c’era da aspettarselo: viviamo in un mondo assetato di energia, da qualsiasi fonte provenga, dove si finge di volere la transizione energetica acquistando un bel po’ di batterie al litio e di pannelli fotovoltaici made in China che sono stati prodotti con elettricità ricavata dal carbone. Sono le contraddizioni in cui si cade quando si pretende di tutelare gli interessi collettivi senza intaccare quelli privati. Dalla crisi nella quale ci stiamo infilando si può uscire soltanto con misure radicali: ma purtroppo sappiamo che questo accade soltanto quando si è, letteralmente, con l’acqua alla gola.

In Olanda, dalle urne è uscito vincitore il PVV di Geert Wilders, un partito presentato dai media internazionali come islamofobo. Wilders ha promesso di “restituire l’Olanda agli olandesi”, come se il Paese fosse stato invaso da una potenza straniera. La centralità attribuita a questo tema, che si inserisce nella logica della cosiddetta sostituzione etnica, racconta però molte altre cose. Le società europee si sono forgiate nei secoli attorno all’idea-forza dello Stato-nazione, nel quale esistono una cultura ufficiale, una religione e un gruppo etnico egemone, vero o falso che sia. Non esiste Paese con un passato coloniale che non consideri queste tre caratteristiche come essenziali e indiscutibili. Dalla Francia repubblicana che già nell’Ottocento “appianò” le diversità interne, alla Germania che fece tragicamente la sua pulizia etnica nel XX secolo. In Spagna, Paese che già ha sperimentato il nazionalismo franchista, ma che rimane un contenitore di diverse culture e nazionalità, oggi forti movimenti di estrema destra vorrebbero eliminare le autonomie e le lingue locali in nome dell’ispanità.

La paura del cosiddetto “pericolo islamico” è un fenomeno più recente, ed è collegata ai flussi migratori (che, per la verità, spesso sono iniziati per volontà degli stessi Paesi ricettori, nel secondo dopoguerra). Secondo gli imprenditori della paura che condizionano l’opinione pubblica, in Europa si starebbe formando una sorta di califfato, ostile alla storia e alla cultura dei Paesi ospitanti, che ambisce a conquistare il potere. In questa teoria si tralasciano molti elementi di realtà, a partire dal fatto che la religione musulmana è al tempo stesso minoritaria e fortemente resiliente: non ha bisogno di alimentarsi con flussi migratori né di diventare egemone per continuare a tramandarsi anche in contesti diversi da quelli d’origine. Soltanto nelle Americhe tra gli immigrati di religione islamica si è verificato un distanziamento culturale rispetto alle origini. In Europa, entrambi i principali modelli di gestione della società moderna post-coloniale, quello multiculturale britannico e quello assimilazionista francese, hanno fallito. Le cause non riguardano la religione. Per comprenderlo basta tornare sull’esempio americano: là esistono ampie possibilità di affermazione sociale per gli immigrati, mentre in Europa non solo i migranti ma anche le “seconde generazioni” sono spesso condannate ai ghetti urbani, ai lavori subalterni, a un’educazione di serie B, alle discriminazioni quotidiane, al fastidio per l’esibizione dei sentimenti e dei simboli religiosi. La “guerra del velo” che la Francia ha intrapreso a più tornate ha finito per produrre effetti contrari rispetto alle intenzioni. Pensata per eliminare le discriminazioni, è diventata invece fonte di discriminazione per chi, ovviamente in modo libero, sceglie un certo tipo di abbigliamento. È il frutto di quella stessa idea di superiorità dei propri valori che accompagnò, e giustificò, il colonialismo. La cultura europea era ritenuta superiore quando si colonizzavano l’Africa, l’Asia o l’Oceania, e oggi nelle nostre metropoli si predica una sola e indiscutibile concezione dei diritti e delle libertà.

I politici come Wilders sono molto abili nel sottolineare l’apparenza per non dovere affrontare la sostanza. Una sostanza che non è fatta di dispute teologiche, ma di cose concrete, come la possibilità di studiare in scuole di buon livello, di avere un lavoro decente, di non essere costretti a inviare, come in Francia, un curriculum vitae “cieco”, cioè senza nome, cognome e foto, per evitare discriminazioni nella ricerca di occupazione. Che poi la rabbia di chi è discriminato e relegato ai margini della società determini un ritorno alla religione, magari nelle sue forme più radicali, è solo una conseguenza, e non la questione centrale. Davanti al calo demografico generalizzato e all’invecchiamento della popolazione, da una parte l’Europa sa perfettamente che, senza ricorrere all’immigrazione, tra 10 o 20 anni non avrà futuro; dall’altra, gli europei stanno esercitando il diritto al voto come una clava. Ma, al di là delle polemiche, è solo una questione di tempo: non è facile, per chi è stato per secoli al centro del mondo, accettare l’idea che per poter mantenere lo status quo occorra chiedere aiuto proprio a quelle popolazioni a lungo denigrate.

C’è dappertutto, dalle cime delle montagne alle profondità degli oceani. E anche nell’organismo degli animali, esseri umani inclusi. Sua maestà la plastica ha rivoluzionato il nostro mondo: oggi è il terzo materiale prodotto  dopo acciaio e cemento. La prima materia sintetica nacque in laboratorio subito dopo la metà dell’Ottocento, era un tipo di celluloide; di poco successiva fu l’invenzione della “seta artificiale” derivata dalla cellulosa, il rayon, materiale prodotto industrialmente già alla fine del XIX secolo. Attorno al 2000 sono nate le bioplastiche, elaborate con il mais e altri prodotti naturali. In mezzo c’è stata l’invenzione di PVC e PET, diventati parte essenziale della nostra vita quotidiana: materiali duttili, leggeri, durevoli e soprattutto economici, adatti a mille usi diversi. Ma i problemi creati dalla diffusione capillare delle plastiche stanno proprio nel concetto di “durevole”, oltre che nell’utilizzo delle materie prime necessarie per fabbricarle: soprattutto cellulosa, carbone, gas naturale e tanto petrolio.

Il “boom” della plastica si deduce facilmente dai numeri. Nel 1964 se ne producevano in tutto il mondo 15 milioni di tonnellate; nel 2017 le tonnellate prodotte erano 310 milioni. Secondo i dati del WWF, ogni anno finiscono negli oceani circa 8 milioni di tonnellate di plastiche: si stima che in acqua ve ne siano già più di 150 milioni di tonnellate. Se si confermasse l’attuale tendenza, nel 2025 avremo nei mari una tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesce, mentre tra vent’anni la plastica supererebbe la fauna marina. Nel corso del tempo, la plastica si degrada rilasciando le cosiddette microplastiche, cioè minuscole particelle che vengono ingerite dalla fauna marina e poi anche da noi, quando mangiamo pesce o semplicemente quando beviamo acqua potabile, perché entrano nel ciclo dell’acqua.

La plastica è però anche un materiale democratico, che permette di vendere a basso costo tantissimi prodotti che in molti Paesi, soprattutto per le classi sociali più basse, sono gli unici a portata d’acquisto: dalle ciabattine ai secchi per trasportare l’acqua, dai vestiti ai contenitori del cibo, la plastica è sempre presente nella vita dei più poveri della Terra. Difficilmente se ne potrà fare a meno, ma bisognerebbe regolamentarne l’uso e soprattutto lo smaltimento. È il compito che si è dato il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), che dal 13 al 19 novembre ha organizzato un incontro a Nairobi per cercare di far approvare un trattato globale sull’uso della plastica. È un percorso lento, che ha già avuto due tappe in Uruguay e in Francia, e che si prevede di concludere entro il 2025. La bozza attorno alla quale si sta lavorando si articola su tre punti fondamentali per quanto riguarda la produzione di plastica: fissare un obiettivo di riduzione, sulla scia del Protocollo di Montréal sull’ozono; fissare dei target globali definendo tabelle di marcia per ogni singolo Paese, come nel Trattato di Parigi sul Clima; evitare che siano i singoli Governi a fissare gli obiettivi, perché potenzialmente ricattabili da parte dell’industria del petrolio. Per le compagnie del comparto oil, infatti, il progressivo calo del consumo di idrocarburi fossili nel settore energetico, dovuto all’uso di energie rinnovabili, dovrebbe essere “compensato” anche dall’aumento della fabbricazione di plastiche. È l’ennesimo collegamento tra temi apparentemente lontani che racconta la complessità e soprattutto l’interconnessione dei problemi della Terra. Più energie rinnovabili si usano, più plastica si rischia di fabbricare: questo perché si continua a rimandare il confronto sul tema centrale, quello del nostro modello di sviluppo, impostato ancora sull’utilitarismo. Tutti sappiamo quanto siano utili le plastiche, ma al contempo evitiamo di fare i conti con le ricadute sull’ambiente e sulla salute umana.

Dalla pandemia in poi, l’agenda del mondo è stata sconvolta. Soprattutto per quanto riguarda la consapevolezza che si era diffusa negli anni precedenti su una serie di temi che, si pensava, avrebbero migliorato la convivenza e la vita sul nostro pianeta. Lotta al cambiamento climatico, diffusione globale dei diritti umani, allargamento delle pratiche di commercio equo e solidale alle imprese, miglioramento dei diritti dei lavoratori e, soprattutto, pace: erano i capisaldi del pensiero positivo degli anni Duemila che, pur criticando gli aspetti negativi della globalizzazione, ne metteva in risalto soprattutto quelli costruttivi. Poi tutto è cambiato. La pandemia non solo ha obbligato tutti a una quarantena inedita, ma ha reso di attualità le differenze abissali tra i Paesi del mondo. Alcuni hanno potuto garantire più dosi di vaccini di quelle necessarie ai suoi abitanti, altri hanno dovuto arrangiarsi senza supporto medico. Alcuni avevano una sanità pubblica efficiente e uno Stato in grado di sostenere il mondo della produzione e del lavoro, in altri si moriva per strada perché senza lavorare non era possibile nemmeno a comprare il cibo. Appena usciti da questo incubo, ecco che in rapida successione si verificano il primo conflitto europeo dagli anni ’90 e la riapertura, con furia inaudita, dello scontro armato tra Israele e Palestina. E qui cambiano quasi tutte le priorità, a partire da quella della transizione energetica, con la riaccensione in molti Paesi delle centrali a carbone, il rinnovato investimento sul nucleare e, in Europa, la sostituzione delle forniture russe con gas naturale liquido importato dall’altro capo del mondo, su navi alimentate con combustibili fossili. Ma il conflitto russo-ucraino, destabilizzando il mercato dei cereali, ha comportato anche il grande ricatto sulla sopravvivenza alimentare dell’Africa; e ha sancito il ritorno trionfale della spesa militare, aumentata in tutto il mondo, e in particolare in Europa, dove nel 2023 si registra un incremento del 13% rispetto all’anno precedente. Con il conflitto mediorientale è riemersa anche la paura del terrorismo, che dopo la sconfitta dell’Isis in Siria si era molto ridimensionata.

L’insieme dei grandi eventi degli ultimi 5 anni, insomma, non ha cambiato solo le priorità ma anche le speranze sui nuovi traguardi. Oggi si torna a invocare pace, pane e lavoro, come agli inizi del Novecento. E nel frattempo ci si arma fino ai denti, perché il mondo fuori dai propri confini, dall’essere la terra promessa dei narratori della globalizzazione, per molti è tornato a essere un incubo. È come se la geopolitica, impazzita a causa delle smanie di protagonismo di Paesi che aspirano allo status di potenze, avesse spazzato via sogni e illusioni. Ma è proprio nei momenti di crisi che bisogna provare a immaginare il futuro. Come fecero Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che dal confino imposto dal regime fascista a Ventotene, in piena guerra, sognarono un’Europa unita scrivendo un manifesto diventato una pietra miliare lungo il percorso che ha portato all’Unione Europea. Nel 1941 imperversava la guerra, era in atto la Shoah, le carestie colpivano indiscriminatamente, i soldi degli Stati finivano in armi mentre soldati e civili morivano a milioni. Eppure, qualcuno sognava una soluzione che permettesse di dire basta alle guerre, gettando le basi per un futuro migliore.

I Paesi che hanno creduto in quell’intuizione non si sono più fatti la guerra e le loro popolazioni hanno sperimentato un miglioramento delle condizioni di vita che non si è mai visto altrove. Se oggi confrontiamo la nostra situazione con quella del 1941, stiamo certamente meglio: ma guerre, carestie, disperazione esistono eccome, se solo allarghiamo lo sguardo al resto del mondo. Mancano però gli Spinelli e i Rossi che ci diano la speranza di poter risalire dopo aver toccato il fondo, indicandoci un traguardo, un domani che sia migliore dell’oggi. Ma forse non è vero che mancano, semplicemente ancora non li conosciamo: dopotutto, vivere in pace e prosperità è sicuramente il desiderio della stragrande maggioranza dell’umanità.

È difficile analizzare la situazione internazionale odierna quando si perde di vista il quadro di riferimento globale. Pur restando alla larga da qualsivoglia teoria del complotto, non è difficile osservare che diversi fatti di inaudita gravità degli ultimi anni, da leggersi ciascuno nel suo specifico contesto geografico e storico, sono legati da uno stesso filo conduttore. Che rimanda alla difficile transizione dalla globalizzazione degli anni Novanta del secolo scorso, subentrata alla Guerra Fredda creando nuovi assetti geopolitici, verso un multipolarismo a blocchi variabili. Non c’è più lo schieramento ideologico della Guerra Fredda: ora si tratta degli interessi contingenti di Paesi che vorrebbero acquisire un ruolo dirimente a livello mondiale, o almeno regionale, accanto alle potenze occidentali che di quel ruolo sono storicamente detentrici. Non si spiegherebbe altrimenti la sintonia tra Iran, e Hamas, via Hezbollah: sciiti e sunniti, storicamente nemici, che trovano un comune denominatore nello scontro con Israele. Più in generale, pare delinearsi un avvicinamento tra Iran e Arabia Saudita che potrebbe porre fine a secoli di ostilità intra-musulmana, elemento che ha storicamente indebolito il mondo islamico nei confronti dei nemici esterni. Anche l’alleanza, soprattutto economica e politica, tra Cina e Russia è un inedito, rispetto a decenni – se non secoli – di reciproca diffidenza. Ancora, la neutralità di grandi potenze del Sud globale come India e Brasile è un dato nuovo, rispetto al tradizionale allineamento quasi automatico con gli Stati Uniti. Vanno distinte, però, le aspirazioni geopolitiche alimentate attraverso la forza militare, come l’invasione russa dell’Ucraina, dalla volontà di emancipazione politica sulla scena internazionale attraverso la diplomazia, come tenta di fare il Brasile di Lula.

La massima dimostrazione della grande mobilità rispetto ai blocchi del passato è forse l’avanzato dialogo condotto da Israele e Arabia Saudita per normalizzare i loro rapporti. Stabilire uno scambio di ambasciatori equivale, nel diritto internazionale, al reciproco riconoscimento della sovranità e quindi dell’esistenza stessa degli Stati. È l’ultima cosa che Hamas vorrebbe, perché se l’Arabia Saudita, punto di riferimento religioso del mondo sunnita, riconoscesse il diritto all’esistenza di Israele, vacillerebbe la linea di Hamas, che predica l’eliminazione dello Stato ebraico. È questo uno dei motivi, se non il principale, della scelta di compiere l’attacco criminale del 7 ottobre contro i civili israeliani. La risposta di Israele contro i civili di Gaza, ingiustificabile secondo il diritto internazionale, ha avuto come conseguenza il congelamento delle trattative tra Riyad e Tel Aviv e rischia di far saltare tutta la rete di relazioni tra lo Stato ebraico e il mondo arabo. Non lontano da questo scenario, nel Nagorno-Karabakh, regione popolata in maggioranza da armeni, si sta consumando l’ennesimo pogrom contro questo popolo, ancora una volta obbligato a fuggire per salvarsi la vita, nonostante sia teoricamente “difeso” da forze armate russe, ma Mosca ha scelto di stare con l’Azerbaigian, che pure è filo-turco da sempre.

Più che a una “terza guerra mondiale a pezzi”, siamo di fronte a scosse di assestamento dopo il terremoto che ha portato a un notevole ridimensionamento del peso degli Stati coinvolti nella globalizzazione. Le apparenze possono ingannare: non esiste un fronte che si oppone all’Occidente, ma semplicemente una coincidenza temporanea di interessi tra Paesi tra loro molto distanti, da tutti i punti di vista, come Russia, India, Cina, Brasile, Turchia e Iran. Gli Stati Uniti da tempo si stanno adeguando a un mondo “liquido”. Resta invece spaesata l’Europa, da un lato arroccata a difesa dei suoi passati privilegi e dall’altro ancorata a un discorso generico sulla difesa dei diritti umani, reso poco credibile dalle politiche coloniali e post-coloniali nei confronti, ad esempio, del continente africano. A proposito di Africa, anche le migrazioni sono figlie del disordine globale, e non armi contro l’Occidente, come proclama qualche imprenditore della paura. In realtà, al resto del mondo interessa molto poco ciò che succede all’interno degli Stati europei: al centro del gioco ci sono territori considerati marginali fino a poco tempo fa, diventati oggi terreno di scontro tra Paesi che aspirano a diventare nuovi punti di riferimento a livello globale.   

Il cambiamento climatico incide sempre più sulla vita quotidiana delle persone in tutto il mondo. L’ultimo caso di cronaca viene dal Paese dove il riscaldamento anomalo del Pacifico fu battezzato con il nome di Niño: il Perù. Come in tutti i Paesi del Pacifico americano, in Perù si fa largo uso dell’agrume che chiamiamo lime. È un ingrediente essenziale del piatto nazionale, il ceviche, a base di pesce o molluschi crudi marinati, appunto, nel succo di questo frutto. Ma gli effetti dell’ultimo Niño costero, e cioè le anomale precipitazioni che si sono registrate sulle coste del Pacifico, hanno portato alla scarsa fioritura degli alberi di agrumi, favorendo una moltiplicazione delle altre piaghe che possono colpire queste colture e determinando un crollo della produzione di lime. Come sempre accade in casi simili, si è innescato anche un fenomeno speculativo con il risultato del raggiungimento di un prezzo record per l’agrume. Attualmente lo si sta vendendo a 25 soles al chilo, poco più di 6 euro, ma ha toccato punte di 80 soles (20 euro), cifra ragguardevole in Sudamerica. Questa fiammata dei prezzi è andata a intaccare la cultura gastronomica peruviana, rendendo costoso un cibo popolare come il ceviche: molti consumatori hanno aderito a un boicottaggio del lime che pare abbia provocato un lieve calo dei prezzi.

Sul tema, che rimane caldissimo in Perù, è intervenuto pubblicamente il ministro dell’Economia Alex Contreras, che ha distribuito consigli ai cittadini. Per la precisione, consigli su cosa mangiare: aggiornando la celebre frase sulle brioche attribuita a Maria Antonietta, in realtà un clamoroso falso storico, Contreras ha suggerito di mangiare pollo ai peruviani che non possono più permettersi il ceviche. La vicenda ha del grottesco, se non fosse che ancora una volta vediamo emergere la nostra fragilità, e soprattutto quella delle nostre consuetudini, davanti al gigantesco problema del cambiamento climatico, aggravato da un modello di consumo che rende ancora più fragile la Terra. In Sudamerica, in Africa, nell’Asia meridionale si sta sempre più disboscando per produrre avocado, lime, mango, ananas, olio di palma, fiori, soia, foglie di coca. La deforestazione incide fortemente sull’anidride carbonica liberata in atmosfera, poiché di solito avviene incendiando i boschi per creare piantagioni, a loro volta destinate a essere pericolosamente esposte ai capricci di un clima impazzito. Siccità alternata a piogge alluvionali, aumento di eventi meteorologici estremi e nuove malattie pongono giganteschi punti interrogativi sulla sostenibilità di questo modello, utile soltanto agli interessi dei fornitori del grande circuito dei consumi globali: quelli che determinano i prezzi delle materie prime e che impongono le mode attraverso le serie TV, il cinema e la miriade di cuochi (o pseudo tali) che infesta la comunicazione social.

I peruviani passeranno forse al pollo, allevato in modo intensivo e creando gravi danni all’ambiente. Il pollo inevitabilmente subirà un aumento del prezzo e il circolo vizioso ripartirà. La grande industria dell’agrobusiness riesce sempre a compensare le perdite causate dai cambiamenti climatici, mentre la politica si limita ai consigli su cosa mangiare ed esclude a priori di regolamentare il settore, dal punto di vista sia produttivo che ambientale. A noi non resta che aspettare e sperare che il nostro cibo preferito non sparisca o non diventi troppo caro. Se succederà, dovremo provare a cambiare abitudini. Ma le brioche ormai sono finite.