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Come da copione sovranista radicale, l’uscita dal palazzo presidenziale di Jair Bolsonaro è contrassegnata da disordini, caos e soprattutto dalla mancanza di rispetto verso i meccanismi della democrazia. Qualcosa di già visto dopo la sconfitta di Donald Trump e il tentativo di assalto al Campidoglio. Nella versione sudamericana non ci sono finti “indiani” ad assediare le sedi del potere ma abbiamo i camionisti a fermare il Paese: perché, quando uno dei campioni della nuova destra radicale perde, o c’è stato un imbroglio oppure è vittima di un complotto. È quello che gli stessi leader dicono già mesi prima delle elezioni, preparando l’eventuale sconfitta. Trump e Bolsonaro affermavano che le elezioni – nelle quali poi hanno effettivamente perso – sarebbero state inquinate dalla frode elettorale, anche se erano loro stessi ad avere il potere per impedire eventuali brogli, visto che entrambi erano al governo. Il punto è ovviamente un altro: nella cultura sovranista la sconfitta non è pensabile e la democrazia va bene soltanto quando si vince, mentre quando si perde diventa un optional. Ripropongono una versione aggiornata dei totalitarismi “vorrei ma non posso”: arrivano al potere grazie al voto popolare, quando le urne si rivelano sfavorevoli avvertono la forte tentazione di restare comunque al comando, ma alla fine quella tentazione non si concretizza perché fortunatamente i contrappesi della democrazia funzionano ancora e, soprattutto, perché i militari non seguono più questi fenomeni della politica, preferendo il basso profilo.

Trump e Bolsonaro in realtà non hanno inventato nulla, si sono limitati a rendere più profonda la spaccatura che si è andata creando nelle società occidentali negli ultimi anni. Spaccatura che si manifesta in molti modi diversi: tra città e campagna, tra ricchi e poveri, tra nativi e immigrati, tra perdenti e vincenti nel grande gioco della globalizzazione. Anziché lavorare per rimarginare queste ferite, hanno fatto il possibile per aumentare la divaricazione. Questo agire da incoscienti ha pagato in termini elettorali, almeno inizialmente, e ha trasformato l’agone politico un’arena da corrida, dove non contano le idee né i progetti bensì la capacità di insultare, di raccontare fake news, di demonizzare l’avversario. Il problema per loro è quando il nemico demonizzato riesce comunque a vincere, come successo sia negli USA sia in Brasile: a questo punto la narrazione va in tilt. Come spiegare che un popolo sia così ingrato da non continuare a votarli? Ecco che scatta la “certezza”, ovviamente mai provata, della truffa elettorale e del complotto. È l’unica spiegazione possibile, perfettamente credibile per i seguaci di politici che hanno detto che il Covid non esisteva, che i leader democratici statunitensi violentavano bambini negli scantinati di una pizzeria di Washington o che i comunisti brasiliani avrebbero eliminato la libertà di culto.

Il dramma di Bolsonaro e di Trump è stato il momento in cui la realtà ha presentato loro il conto. Perché la realtà non era quella costruita da loro, ossia quella parallela degli “alternative facts”, ma quella vera. Una realtà nella quale si può vincere e si può perdere, le istituzioni della democrazia si tutelano sia che si governi sia che si vada all’opposizione, e le persone si rispettano sempre. Sul piano collettivo, il dramma è che la cultura, o meglio i veleni, che politici come Bolsonaro e Trump hanno contribuito a diffondere toglie legittimazione all’agire di chi è chiamato a governare dopo di loro. Grazie alla democrazia, che pure ha dato loro l’opportunità di vincere, alla fine in un modo o nell’altro questi eredi di culture totalitarie torneranno a casa: per fortuna oggi non possono andare oltre l’insulto e il sospetto. La democrazia, almeno per ora, è più forte di loro. Ma le ferite che hanno provocato non guariranno presto.

La luna di miele tra il premier ungherese Viktor Orbán e i suoi concittadini pare stia finendo. Il campione europeo dei sovranisti, il politico che è riuscito nell’impresa di blindare totalmente il suo Paese per impedire l’arrivo di migranti ora viene contestato in piazza. E ciò accade proprio per le conseguenze della sua politica di chiusura, che ha portato l’Ungheria ad avere un disperato bisogno di manodopera. Ma siccome Orbán non è disposto a cedere sui migranti, ecco che per accontentare le grandi aziende tedesche che hanno investito in Ungheria si inventa un provvedimento subito battezzato “legge schiavitù”. In pratica si obbligano i lavoratori a garantire 400 ore di straordinari all’anno – praticamente due mesi e mezzo di lavoro aggiuntivo – ritardando, però, il pagamento di questa prestazione fino a tre anni.

L’Ungheria non è la sola ad avere problemi di questo tipo, secondo l’indice europeo Manpower delle imprese che fanno fatica a coprire posizioni lavorative. In testa a questa classifica figurano la Romania con l’81% di imprese in difficoltà e la Bulgaria con il 68%. L’Ungheria è al 51%, alla pari con la Germania, e infine si trovano Svezia e Finlandia con il 42%. Sono numeri che smentiscono chiaramente gli allarmi di invasione in corso, svelando la realtà oltre la propaganda. La verità è che da un lato i Paesi europei stanno scontando il calo demografico generalizzato, che anno dopo anno assottiglia la popolazione giovanile e attiva, e dall’altro le aspettative lavorative dei giovani europei non coincidono con l’offerta di una parte del mercato del lavoro, quella che necessita di manodopera poco o per nulla qualificata. Anche negli Stati dove questi lavori vengono ben retribuiti, per esempio in Germania. Poi c’è il caso dei Paesi dell’Est, che scontano anche l’emigrazione avvenuta dopo la caduta del Muro di Berlino.

Questa situazione sta mettendo a repentaglio la sostenuta crescita economica registrata in questi anni. Le imprese tedesche, francesi, italiane che hanno investito in Bulgaria, Romania o Ungheria, attirate dal basso costo del lavoro locale, non avevano previsto che, con la libera circolazione dei cittadini europei, ci sarebbe stata una consistente emorragia di manodopera dall’Est verso i mercati più ricchi. E oggi fanno fatica a trovare lavoratori.

Fuori dall’Europa la situazione non è molto diversa: dall’Australia al Giappone, e ovviamente anche negli Stati Uniti, l’economia richiede manodopera che localmente non è reperibile. Il muro di Trump da questo punto di vista assomiglia molto al filo spinato di Orbán: pura propaganda che, a medio termine, mette in difficoltà le imprese e anche le famiglie, perché una quota consistente dei flussi migratori trova occupazione proprio nei servizi alle persone.

Le migrazioni non sono mai entrate seriamente in un ragionamento di governance globale. Solo il timido Global Compact appena approvato dalle Nazioni Unite comincia a riflettere su una situazione che è variegata e complessa, anche se spesso viene descritta come univoca e pericolosa. Dal punto di vista del diritto non si possono confondere, e questo è certo, i rifugiati con i migranti economici. Ma non è possibile nemmeno considerare i primi come pesi morti da mantenere solo perché obbligati dalla legge, e guardare i secondi come potenziali delinquenti. I rifugiati, oltre che lavoratori, possono essere strumento di politica internazionale, testimoniando con la loro stessa presenza le angherie inflitte dai tanti regimi che opprimono interi popoli. I migranti economici sono invece un bisogno vitale del sistema produttivo europeo e occidentale, così come lo sono stati in passato, al tempo in cui nacquero e si svilupparono gli Stati americani.

Nel mondo globalizzato non solo le multinazionali viaggiano e si insediano altrove: si muovono anche le persone, seguendo le offerte del mercato del lavoro. È una realtà così semplice da essere disarmante, eppure viene negata. Finché il popolo che doveva essere tutelato dall’invasione straniera scende in piazza per protestare contro il suo stesso leader sovranista, che ne ha reso le condizioni di lavoro simili a una moderna schiavitù.