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“Sì, è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana” avrebbe detto Franklin Delano Roosevelt riferendosi al dittatore nicaraguense Anastasio Somoza García. Il weekend scorso abbiamo avuto una versione aggiornata dello stesso concetto da parte di un altro presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha deciso di graziare l’ex presidente honduregno Juan Orlando Hernández, condannato a 45 anni di carcere da un tribunale di Manhattan per stretti legami con il Cartello di Sinaloa ai tempi del “Chapo” Guzmán. Questa improvvisa voglia di grazia è arrivata a 48 ore dal voto in Honduras, nel quale Trump è entrato a gamba tesa per tirare la volata a Nasry Asfura, del Partido Nacional, sul quale pesava la macchia di un predecessore dello stesso partito finito all’ergastolo negli USA. È un modo spudorato per tentare di influenzare il processo elettorale in un altro Paese, ma non del tutto nuovo: qualcosa di simile si era visto già lo scorso ottobre, alla vigilia del voto legislativo in Argentina, quando Trump aveva dichiarato che il piano di salvataggio dell’economia argentina sarebbe diventato effettivo solo se a vincere le elezioni fosse stato Javier Milei. Le elezioni le ha poi vinte Milei, ma dei 20 miliardi annunciati dalla Casa Bianca forse ne arriveranno soltanto cinque.

L’attivismo in stile anni ’80 degli Stati Uniti nel loro ex “cortile di casa” è motivato esclusivamente da considerazioni geopolitiche. In passato Washington costruì, a costo di sostenere le peggiori dittature dell’epoca, una sorta di cordone sanitario per impedire che l’URSS acquistasse nuovi alleati nelle Americhe. Oggi, la potenza contro la quale sono puntate tutti le armi statunitensi, dalla finanza agli eserciti, è la Cina: Paese, che durante gli anni di latitanza degli USA, ha conquistato una posizione di rilievo in quasi tutta l’America Latina. In qualche caso anche in compagnia della Russia di Putin, molto presente in Venezuela, Cuba e Nicaragua come fornitrice di armi.

La politica trumpiana verso l’America Latina ha però radici ideologiche molto più antiche, risalenti al 1823, quando il presidente statunitense James Monroe lanciò la dottrina dell’“América para los americanos”: l’Europa non avrebbe più esercitato ingerenze nel continente americano e, viceversa, gli Stati Uniti non si sarebbero mai impicciati negli affari degli europei. Fu una delle staffette storiche tra le potenze, sempre citata dai manuali di storia, anche se ai primi dell’800 gli Stati Uniti erano soltanto una potenza regionale emergente.

Tornando all’attualità, il punto debole della politica neo-imperiale di Trump è che la Cina offre ai Paesi latinoamericani ciò che gli USA non possono offrire, e cioè la possibilità di commerciare a tutto campo: compra quasi tutte le commodities latinoamericane e investe nell’industria e nelle infrastrutture locali come gli Stati Uniti non sono in grado o non sono interessati a fare. Per questo Trump, nella propria politica, ricorre anche alla minaccia militare, come dimostra il dispiegamento navale al largo del Venezuela. Ciò nonostante, è una politica che a medio termine risulta perdente, perché oggi nemmeno gli Stati Uniti riuscirebbero a mantenere il proprio status quo senza i rapporti commerciali e finanziari con Pechino.

La situazione è ingarbugliata ed è probabile che, alla fine, saranno i Paesi latini a pagare il conto. Oppure no, perché a differenza dell’URSS durante la Guerra Fredda, che pretendeva l’adesione al proprio modello ideologico e politico, la Cina non chiede nulla. Fa affari con dittature e democrazie, governi di destra e di sinistra, adottando un pragmatismo che a Washington è sconosciuto, ma che di questi tempi risulta molto apprezzato. Si tratta di fare politica su un livello diverso, senza immischiarsi negli affari interni di altri Paesi, e di essere pazienti: una strategia di lungo respiro, difficile da intaccare con le sfilate di portaerei o con le minacce via social.

Dopo tante polemiche sulle prime misure in materia di politica estera adottate da Donald Trump, finalmente si comincia a vederne il senso, e soprattutto a capire a chi si ispira il presidente degli Stati Uniti. Ricostruendo velocemente i suoi primi passi, si parte dallo smantellamento del TPP, l’accordo economico del Pacifico che escludeva la Cina, fortemente voluto da Barack Obama, e dal congelamento del suo equivalente atlantico, il TTIP con l’Europa. Poi sono iniziate le minacce ai due Paesi nei confronti dei quali gli Stati Uniti, anno dopo anno, accumulano colossali disavanzi negli scambi commerciali: 350 miliardi di dollari con la Cina e altri 60 miliardi con il Messico. Poi la minaccia all’Europa di applicare ritorsioni sull’import se non verrà chiusa la vertenza sul blocco delle carni americane nell’Unione Europea.

Dalle intimidazioni verbali Trump è passato anche alle vie di fatto, per ribadire la potenza militare del suo Paese. Il bombardamento a colpi di missili Tomahawk di un aeroporto siriano (preventivamente svuotato di mezzi militari dai russi, che erano stati preavvertiti), il lancio in Afghanistan della bomba convenzionale più potente mai esistita, il viaggio della potente “Armada” verso la Corea. Nel complesso, il messaggio è stato chiarissimo. Prima alla Russia, all’Iran e alla Turchia, “invitate” a non provare nemmeno a spartirsi ciò che resta della Siria senza Washington al tavolo. Poi alla Cina, alla quale gli Stati Uniti hanno dimostrato che potrebbero cancellare dalla faccia della terra la Corea del Nord, storico alleato di Pechino, anche senza usare il nucleare.

I messaggi sono stati velocemente recepiti, con la Russia che ha abbassato il suo profilo sullo scenario mediorientale, accontentandosi di controllare i territori nei quali si trovano le sue basi militari siriane. E con la Cina che ha accettato una gigantesca concessione commerciale. Con l’accordo firmato tra USA e Cina la settimana scorsa, infatti, il mercato cinese si riapre alle carni statunitensi, bloccate dal 2003 per via della “mucca pazza”; inoltre la Cina apre anche alle sementi OGM prodotte dalle multinazionali USA, alle importazioni di shale gas e alle carte di credito Visa e Mastercard, che finora non potevano operare sul grande mercato asiatico. Di contro, gli statunitensi troveranno più carne di pollo nel piatto.

Come si può facilmente intuire, in questo accordo la parte del leone la fa Trump, che strappa una consistente riduzione del deficit commerciale negli scambi con la Cina. Ma Pechino cosa avrà in cambio, oltre a vendere petti di pollo? Molto, forse più di quanto ci si aspettava fino a poco tempo fa. Ma per rendersene conto occorre ampliare la prospettiva, facendo un passo indietro.

Con quest’ultima mossa Donald Trump ha inferto un’altra picconata a quel sistema di relazioni multilaterali che, in materia commerciale, è fatto da accordi bi e multilaterali e da convenzioni internazionali che fanno capo al WTO. La logica di Trump è quella di ignorare quei livelli e di costruire un sistema di accordi “one to one”, cioè bilaterali puri, nei quali far valere volta per volta la potenza statunitense, magari “agevolando” tali accordi con azioni militari dimostrative.

Le prime mosse di Trump preannunciano il ritorno degli USA all’esercizio di un ruolo di potenza “attiva”. E qui il riferimento storico è inevitabile, perché Donald Trump riprende una delle dottrine geopolitiche più antiche del suo Paese, quella enunciata dal presidente Theodore Roosevelt all’alba del ’900 e che fu battezzata Big Stick Policy, la politica del bastone. Non era esattamente la politica delle cannoniere di britannica memoria, cioè l’imposizione del proprio interesse attraverso le armi, ma una versione più diplomatica dello stesso approccio: il presidente Roosevelt sintetizzava il tutto con la frase «parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano». Il grande bastone oggi è il potere militare – senza paragoni nella storia dell’umanità – detenuto dagli Stati Uniti. Circa il parlare gentilmente, di più non ci è dato sapere.

La Cina ha compreso subito come funziona. Ha incassato il riconoscimento come principale partner asiatico di Washington e ha capito che, smantellando il TPP, gli Stati Uniti finiranno con l’agevolare indirettamente la crescita dell’influenza cinese nel Pacifico. Inoltre il picconamento americano del WTO, organismo che da sempre tiene d’occhio la Cina, potrebbe portare a un “liberi tutti” le cui conseguenze non è ancora possibile valutare, ma che sicuramente farà comodo agli interessi di Pechino.

Ecco, il mondo di Donald Trump è un mondo di relazioni bilaterali dove conta la forza militare, ma nel quale il tuo nemico può anche essere il tuo alleato: in cambio di un vantaggio economico si è disposti a “regalare” all’avversario un vantaggio geopolitico. O viceversa. Si tratta di una politica estera più che mai schiacciata sugli interessi economici della principale potenza, ma anche di una politica estera che lascia tantissimo campo libero all’iniziativa degli altri.

In politica internazionale si pone sempre una questione, che ovviamente vale anche per la politica interna: quella della serietà, del rispetto di quanto si sottoscrive insieme agli altri. Ma c’è anche un’altra questione vitale per ogni Stato – o insieme di Stati – che è quella dell’interesse nazionale. Negli USA, ancora una volta, quest’ultimo diventa il faro della politica estera. Magari, forse, un minimo di orgoglio nazionale “europeo” non guasterebbe neppure sulla nostra sponda dell’Atlantico.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare