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Le recenti elezioni legislative in Perù hanno confermato un dato che ormai è una costante in tutto il continente americano: lo sbarco in politica delle religioni carismatiche e delle sette religiose. Nel caso peruviano, la seconda forza uscita dalle urne, il Frepap, nasce dalla Missione Israelita del Nuovo Patto Universale, la chiesa millenarista e messianica fondata da Ezequiel Ataucusi Gamonal nel 1968. Nella vicina Bolivia, uno dei candidati che si contenderanno la presidenza il prossimo maggio è il predicatore evangelico Chi Hyun Chung, nato in Corea del Sud e trasferitosi da bambino insieme alla famiglia nel Paese sudamericano. Nel 2018 in Costa Rica arrivò al ballottaggio per la presidenza della Repubblica il cantante cristiano Fabricio Alvarado, sostenuto dal partito evangelico Restaurazione Nazionale, mentre in Colombia si registrava il flop di Todos Somos Colombia, il partito di Jorge Trujillo, fondatore della chiesa Casa del Regno. Ma in realtà queste chiese hanno già espresso presidenti: come l’ex dittatore e genocida José Efraín Ríos Montt, che fu poi democraticamente eletto presidente del Parlamento del Guatemala grazie alla sua conversione al pentecostalismo; oppure il più famoso di tutti, Jair Bolsonaro, presidente del Brasile e frequentatore della chiesa battista.

Tutte queste esperienze politico-religiose hanno molto in comune. Innanzitutto l’essere fortemente conservatrici e il considerare i diritti ottenuti dal mondo LGBT e la legalizzazione dell’aborto volontario come una dimostrazione del fatto che si è imboccata la strada che porta a Sodoma e Gomorra. Proprio questa avversione per i diritti civili diventa il principale punto di contatto con il mondo conservatore tradizionale, che da sempre dichiara di battersi per difendere i valori appunto “della tradizione”, che in America Latina equivale a difendere i diritti dei bianchi, maschi e benestanti. Ma lo stesso avviene anche negli Stati Uniti, dove i neocon, provenienti soprattutto dalle piccole chiese rurali, sostengono da anni i candidati repubblicani più restii a riconoscere i diritti civili.

Per questi nuovi protagonisti della politica americana, la discesa in campo è paradossalmente “apolitica”: dichiarano di volere solo vegliare sui principi morali. Ufficialmente, rivendicano dunque una funzione da controllori piuttosto che da forza candidata a governare. Usano le forme di rappresentanza offerte dalla democrazia ma non ne condividono il principio di fondo, e cioè il diritto all’esistenza di visioni diverse del mondo, e anche della famiglia. Sfruttano come ariete la democrazia, insomma, ma vorrebbero ridurla a specchio delle loro convinzioni. Finora queste chiese erano state dietro le quinte, limitandosi a portare acqua ai politici loro più vicini, ma da alcuni anni cominciano a esprimere propri candidati. Hanno così giocato un ruolo fondamentale nell’avvicinare una base popolare ai partiti conservatori: un elettorato che non si sentiva rappresentato dalla politica tradizionale e che ora partecipa alla politica con lo spirito del crociato che combatte il male.

Tutto ciò accade perché i poveri e i poverissimi hanno trovato in queste chiese ascolto e soprattutto una rete di protezione, laddove lo Stato non esiste. Chiese come cooperative, alle quali si versa la decima dello stipendio, ma dalle quali si riceve un aiuto quando c’è bisogno. È questa la conseguenza, l’onda lunga della politica vaticana che allontanò i sacerdoti che aderivano alla Teologia della Liberazione, spalancando così le porte ad altre religioni. Il punto è che non siamo di fronte a una disputa teologica: l’ingresso in politica di chiese organizzate in partito rinforza quei settori conservatori, finora minoritari, che finalmente possono candidarsi a vincere in democrazia. Democrazia che loro stessi mettono in pericolo una volta insediati. Non solo l’elenco dei Paesi democratici si è ristretto negli ultimi anni, ma all’interno di essi ci sono forze sempre più rilevanti che mirano a trasformare la democrazia in teocrazia. E non parliamo di Medio Oriente, ma di America.

Si è appena ripetuta all’Avana, per la seconda volta, la strana legittimazione di un governo socialista da parte del Vaticano. La visita di papa Ratzinger a Cuba, preceduta nel 1998 da quella di papa Wojtyla, rappresenta infatti l’unico viaggio ufficiale di un capo di Stato non latinoamericano in un Paese che i leader occidentali evitano da molto tempo.

Per il Vaticano, l’isola caraibica è una pedina importantissima nel tentativo di recupero dei fedeli nel suo più grande serbatoio, l’America: del miliardo e cento milioni di cattolici al mondo, oltre 500 milioni vivono nel nuovo continente. È qui, dunque, che si gioca il futuro della chiesa di Roma. Qui ormai si giocano gli equilibri politici di una Chiesa che, secondo molto analisti, non potrà fare a meno di darsi un papa latinoamericano non appena sarà possibile.

Il problema, per il papato, è che in America Latina la Chiesa sta subendo un processo di allontanamento dei fedeli che assomiglia sempre più a una frana. Le varie confessioni cristiane riformate ( come gli evangelisti e i pentecostali) e le “nuove” religioni nate negli Stati Uniti (i mormoni e i testimoni di Geova) stanno erodendo il bacino dei cattolici, e in alcuni Paesi centroamericani sono ormai maggioritarie. Il “gregge” di queste chiese ammonta 200 milioni di fedeli: un numero enorme, tale da contendere al cattolicesimo il primato religioso continentale. Non va sottovalutato il fatto che, in molte realtà, queste chiese hanno assunto un ruolo politico attivo.

La causa di questo cedimento cattolico va cercata nell’azione politica dei due papi che si sono recati a Cuba. Negli anni ’80, proprio Wojtyla e Ratzinger furono infatti i demolitori di quella corrente popolare della Chiesa cattolica conosciuta come la “teologia della liberazione”: una riflessione teologica che aveva portato la Chiesa, storicamente a fianco ai potenti, a immedesimarsi e coinvolgersi nelle lotte dei poveri, dei senza terra, delle minoranze etniche.

I vescovi che aderivano a quella corrente furono rimossi uno a uno durante il papato di Wojtyla, mentre si aprivano di nuovo le gerarchie a esponenti conservatori e all’aggressività dell’Opus Dei. Dopo la morte di Giovanni Paolo II le cose non sono cambiate: in America Latina oggi la Chiesa cattolica è conservatrice e, soprattutto, lontana dai poveri, che però proprio negli anni ’80 si sono moltiplicati. Si è aperto così un terreno di caccia per le altre confessioni cristiane, che si sono insediate nei quartieri più disagiati. Gli stessi dove magari le chiese cattoliche si stavano svuotando.

Il vero senso della visita dei papi a Cuba va quindi interpretato alla luce di questi dati. Nell’isola di Castro la rivoluzione non ha mai perseguitato la Chiesa cattolica e nemmeno la religione afrocubana. L’unico vero divieto ha riguardato le religioni provenienti dagli Stati Uniti. Ecco perché Cuba è oggi, paradossalmente, il Paese più cattolico del continente. Ecco perché proprio da qui il Vaticano conta di ripartire con una nuova evangelizzazione.

Per Fidel, invece, la visita del papa è una garanzia dell’impegno del Vaticano affinché la transizione a Cuba avvenga in modo ordinato e pacifico. Insomma, perché quando per motivi anagrafici ci sarà un’altra dirigenza, il Vaticano agisca come forza di mediazione. Per il leader cubano, dunque, il conservatore papa Ratzinger si configura come un alleato e non come un nemico. Le questioni spirituali rimangono sullo sfondo, molto sullo sfondo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)