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Molti pensavano che avrebbero chiuso dopo poco tempo, invece sono ancora aperte. Le fabbriche recuperate, ormai quasi un marchio di qualità sociale, sono state la risposta alla fuga di imprenditori con pochi scrupoli. Quelli che avevano preferito la speculazione alla produzione. Quelli che erano scappati con il malloppo a cavallo della grande crisi che colpì l’Argentina nel 2001. Gli operai che si sono trovati all’improvviso senza più il “padrone”, con mesi e mesi di stipendi non incassati e con il fantasma della disoccupazione a vita appena fuori dalla porta, si sono dovuti improvvisare imprenditori, garantendo la continuità della produzione.

Le fabbriche recuperate hanno ispirato la promulgazione di leggi favorevoli, che permettevano allo Stato di espropriare le aziende (per esempio in seguito al mancato versamento delle tasse) per poi consegnarle ai lavoratori costituitisi in cooperative. Tra mille difficoltà, un movimento improvvisato si è articolato consolidandosi con il passare degli anni. Oggi il Movimento Nazionale delle Fabbriche Recuperate è forte di 250 stabilimenti associati nei quali si produce di tutto, dalle piastrelle alle divise scolastiche, dai libri ai grissini. A questo movimento si affianca quello delle imprese recuperate, che include anche attività del terziario, come ad esempio l’Hotel Bauen, un 5 stelle nel cuore di Buenos Aires che era stato costruito per i campionati mondiali di calcio del 1978 e che oggi è gestito da una cooperativa di lavoratori che lo hanno salvato dal fallimento.

Il movimento sudamericano delle fabbriche recuperate è stato riscoperto in questi mesi. C’è chi pensa che sia un esempio che prima o poi si rivelerà utile all’Europa in crisi profonda. In Argentina questo movimento ha avuto un’incidenza molto modesta sulla ripresa economica, ma il suo peso simbolico e politico è stato notevolissimo. I lavoratori delle imprese recuperate sono stati il simbolo di una società che ha ritrovato le sue priorità politiche dopo decenni drogati dai consumi facili, a discapito di una cultura della produzione e del lavoro. C’è voluto il default, ma la lezione degli operai che non hanno voluto abbandonare i loro posti di lavoro quando tutto il mondo crollava loro addosso è servita a iniettare speranza: ce la si poteva fare a uscire dalla crisi e dall’improvvisa miseria.

Anche la classe politica del dopo-default è stata fortemente influenzata dall’esperienza delle fabbriche recuperate. La politica di sostegno e di protezione dell’industria nazionale non è oggi negoziabile, anche a costo di subire le frequenti critiche degli organismi internazionali, che continuano imperterriti a sostenere posizioni nelle quali sempre meno Paesi credono. L’Argentina non è più sicuramente uno Stato campione del liberismo come negli anni Novanta, eppure la produzione industriale continua a crescere da quasi dieci anni a un ritmo orientale. Non è industria di avanguardia, come quella tedesca o anche brasiliana, non ci sono stati grandi investimenti infrastrutturali, si produce quasi esclusivamente per il mercato interno, ma le fabbriche sono attive.

Sono quelle stesse fabbriche che furono create dagli immigrati italiani, spagnoli, tedeschi agli inizi del Novecento e nelle quali si formò una classe operaia che fu la protagonista delle grandi trasformazioni del Paese, e anche della sua ricchezza. Nel 2001, quando in Argentina non si produceva nulla e si comprava tutto all’estero, un Paese nel quale l’unica occupazione giovanile era lavorare nel delivery di pizze a domicilio, gli ultimi operai veri, quelli delle catene di montaggio e della meccanica, hanno lanciato la loro sfida. Si sono riappropriati della loro fonte di lavoro e l’hanno difesa con le unghie e con i denti. È stato l’inizio di un’altra storia, e oggi nessuno tornerebbe più indietro.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Il 2012 si apre sotto i peggiori auspici. Le notizie dall’Europa e dagli Stati Uniti confermano che si tratterà, se va bene, di un anno di recessione per l’Occidente e di rallentamento della crescita per i Paesi emergenti. Se invece va male, il fallimento dell’euro porterà a una serie di default di Stati nazionali con pesanti conseguenze per il progetto di unificazione continentale.

Un’Europa ulteriormente divisa e indebolita, proprio mentre gli Stati Uniti provano a gestire la fine del loro ruolo di potenza mondiale, determinerebbe sicuramente l’aggravarsi dei conflitti in corso e favorirebbe l’insorgere di nuovi scontri dettati da ragioni economiche e geopolitiche. Si delineerebbe un orizzonte di dissoluzione dello scenario internazionale, con il ritorno ai protezionismi e alle autarchie, in un contesto nel quale la democrazia diventerebbe un optional e i diritti umani una variabile secondaria.

Eppure c’era da aspettarsi che la fine del predominio economico secolare delle nazioni occidentali avrebbe prodotto gravi scompensi. È il conto salato che ci lascia in eredità il ventennio liberista: un periodo durante il quale si è pensato di fare a meno della politica per governare i conflitti, per sedare gli estremismi, per ripianare le disuguaglianze. Le stesse medicine che si sono somministrate per decenni ai Paesi periferici vengono ora riproposte ai grandi Stati, e i media scoprono quanto siano amare e soprattutto pericolose.

Debito, deficit pubblico, interessi, default, disoccupazione, precarietà: fino a 10 anni fa erano concetti e parametri utilizzati per l’analisi dei Paesi del Sud del mondo, mentre oggi diventano l’incubo di Spagna, Italia, Stati Uniti, Francia. Troppo grandi per fallire, si dice di questi Paesi. Ma ne siamo sicuri?

I ritardi nello sviluppare un pensiero economico alternativo ai dogmi degli anni Novanta sono notevoli. Nazionalizzare l’economia è oggi fuori discussione e i pochi palliativi che si possono mettere in campo, come la Tobin Tax, trovano più ostacoli che sostenitori.

Dalla crisi dei subprime in poi, nulla di nuovo è stato fatto se non trasferire quote miliardarie di capitali pubblici verso il settore bancario, aumentando il debito che i cittadini, magari precari o disoccupati, dovranno onorare. È come se non ci fosse una via di uscita allo schema tradizionale dell’economia di mercato che considera come unica molla dello sviluppo la crescita infinita della produzione e del consumo di beni. I cittadini assistono in silenzio, per ora, alle conseguenze delle decisioni prese in luoghi senza legittimità democratica.

È un meccanismo inceppato, quello della crescita infinita: l’unica riflessione possibile deve svilupparsi attorno al concetto di decrescita, cioè di ripensamento del modello produttivo e dei consumi. Esiste infatti un sistema di pensiero che teorizza una ridistribuzione delle risorse in base ai bisogni reali e non a quelli indotti, considera la socializzazione e la partecipazione come risorse strategiche, prende in considerazione il riciclo e riutilizzo dei beni manufatti e la transizione energetica. Un pensiero che in questa crisi ogni tanto affiora, ma alla fine non viene mai presso in considerazione dagli economisti “seri”: quegli stessi che non solo non hanno previsto il rischio di default, ma non hanno neppure la minima idea di come uscirne.

Oggi l’unica rivoluzione possibile è quella del coraggio. Il coraggio di fare e non più di subire; di uscire dai dogmi ideologici in materia economica e di incentivare e sostenere la sperimentazione di nuovi modelli di consumo e produzione. Se il mondo troverà questo coraggio, il 2012 potrebbe essere l’anno della svolta. Se invece continuerà la navigazione a vista, forse la profezia dei Maya si avvererà, non perché il pianeta sarà distrutto da un gigantesco meteorite, ma perché finirà il mondo che abbiamo conosciuto finora.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)