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La definizione “Sud globale” è sempre più utilizzata nel linguaggio comune, la stampa ne fa ampio uso quando si parla di politica o di economia, ma il suo significato e le sue implicazioni restano poco chiari. In senso lato, con “Sud globale” ci si riferisce a tutte le regioni del mondo che sono state storicamente relegate ai margini dei sistemi economici globali: dunque l’America Latina, l’Africa e gran parte dell’Asia. Moltissimi Stati, dunque, che condividono una storia di colonialismo, sottosviluppo economico e, in molti casi, instabilità politica. Il concetto di Sud globale non è dunque solo geografico ma anche e soprattutto socio-economico, e spesso comprende questioni di disuguaglianza, dinamiche di potere e governance. L’espressione, insieme a quella simmetrica di Nord globale, si è affermata nella seconda metà del XX secolo per descrivere sinteticamente la divisione tra Paesi ricchi e industrializzati (Nord) e Paesi più poveri e meno sviluppati (Sud), sostituendo definizioni ormai obsolete come “Terzo Mondo” o “Paesi in via di sviluppo”, viste come poco rispettose e troppo semplicistiche. Il limite di entrambe le definizioni – Nord e Sud globale – è che a un primo impatto suggeriscono una distinzione geografica, mentre fanno riferimento soprattutto alle condizioni socio-economiche e alle esperienze storiche delle regioni che vi rientrano. Per fare un esempio banale, Australia e Nuova Zelanda si trovano nell’emisfero meridionale ma sono generalmente considerate parte del Nord globale in virtù dei loro alti livelli di ricchezza e sviluppo; discorso contrario vale per diversi Stati dell’Africa centro-settentrionale e dell’America centrale, regione che fa geograficamente parte dell’emisfero settentrionale.

Le radici comuni dei Paesi del Sud globale sono dunque da cercare nella storia del colonialismo che ha fortemente segnato gran parte dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Le economie dei territori colonizzati venivano infatti organizzate allo scopo di favorire lo sviluppo degli Stati colonizzatori piuttosto che le popolazioni locali; perciò, dopo aver ottenuto l’indipendenza, molte di queste nazioni si sono ritrovate economicamente svantaggiate, con infrastrutture deboli, capacità industriale limitata e alti livelli di povertà. Di conseguenza, il Sud globale è rimasto caratterizzato dalla dipendenza dal Nord globale per quanto riguarda gli scambi commerciali, lo sviluppo tecnologico e gli investimenti.
Nel Sud globale rientrano Paesi tra loro inevitabilmente eterogenei, che tuttavia condividono alcune caratteristiche che li differenziano da quelli del Nord, ad esempio le elevate disparità economiche, gli alti tassi di povertà, l’instabilità economica e la dipendenza dalle esportazioni di materie prime e prodotti agricoli. Mentre nel Nord globale le economie sono spesso diversificate, quelle del Sud sono più vulnerabili alle fluttuazioni del mercato internazionale, agli shock dei prezzi delle materie prime e alle crisi del debito estero. Altro tratto comune sono le disuguaglianze sociali pronunciate, le disparità di reddito, di istruzione, di assistenza sanitaria e di accesso alle risorse. Importanti sono anche i problemi di governance, con istituzioni deboli, alti livelli di corruzione e talvolta regimi autoritari. A tutto ciò si aggiunge una maggiore vulnerabilità agli effetti del cambiamento climatico, nonostante questi Stati abbiano contribuito meno degli altri alle emissioni globali di gas serra. E molti di questi Paesi mancano delle risorse finanziarie e delle infrastrutture tecnologiche necessarie per adattarsi a queste sfide e mitigare le conseguenze del riscaldamento globale.

La globalizzazione ha avuto un impatto profondo sul Sud globale. Da un lato, ha offerto opportunità di crescita e sviluppo grazie all’accesso ai mercati internazionali, agli investimenti esteri e alla tecnologia. Molti Stati asiatici, ad esempio, grazie alla globalizzazione hanno vissuto una rapida industrializzazione e crescita economica. D’altro canto, la globalizzazione ha anche approfondito le disuguaglianze tra i Paesi e al loro interno: alcune regioni del Sud globale, in particolare nell’Africa subsahariana, sono state lasciate indietro, incapaci di competere nel mercato mondiale a causa di infrastrutture sottosviluppate, mancanza di tecnologia e cattiva governance. In campo internazionale, il Sud globale si trova spesso in una posizione di svantaggio: istituzioni come l’ONU, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono dominate dal Nord, e le loro politiche riflettono spesso gli interessi di quelle nazioni. Successivamente, la nascita della coalizione G77 e del gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) ha dato al Sud globale una voce più forte negli affari internazionali.

Sebbene rimanga utile per evidenziare le disuguaglianze a livello planetario, il concetto di Sud globale non è immune alle critiche. Alcuni sostengono che appiattisca e semplifichi eccessivamente le esperienze diverse dei Paesi che vi rientrano. Ad esempio, Cina e India sono importanti attori economici globali, mentre altri Stati, come quelli dell’Africa subsahariana, rimangono poverissimi. Inoltre, all’interno dei Paesi del Sud globale esistono significative differenze regionali, etniche e di classe che il termine non cattura.

In sintesi, il concetto di Sud globale è uno strumento utile per comprendere la disuguaglianza tra e nei Paesi del mondo ed evidenziare l’eredità del colonialismo, ma non è privo di limiti, perché riunisce sotto un’unica etichetta una gamma diversificata di Stati con esperienze differenti. Se però la si usa in modo consapevole, rimane l’espressione più efficace per evidenziare le sfide persistenti della povertà, della disuguaglianza e della marginalizzazione politica in un mondo in cui la distribuzione del potere e delle risorse rimane profondamente diseguale.

La cifra è difficile anche solo da immaginare, 312 trilioni di dollari, ossia 312mila miliardi, pari al 328% del PIL mondiale. A tanto ammonta il debito pubblico complessivo registrato dal Global Debt Monitor dell’IIF, l’Istituto della Finanza Internazionale di Washington: nella prima metà del 2024 è cresciuto ancora rispetto agli anni precedenti. Gli aumenti più significativi arrivano da Stati Uniti e Cina, ma anche da India e Russia. In controtendenza buona parte dell’Europa e il Giappone. Quello del debito è un tema scivoloso, spesso se ne parla limitatamente alla questione del debito estero associandolo ai Paesi del Sud globale, che hanno economie piuttosto modeste. Invece, il grosso del debito pubblico mondiale è stato accumulato dai Paesi di vecchia industrializzazione, basti pensare che i soli Stati Uniti hanno emesso un terzo di tutto il debito globale, il 15% si deve ai membri dell’UE e l’11% al Giappone. Un altro 15% è da attribuire alla Cina. Eppure, almeno secondo la stampa, i malati cronici di debito sarebbero Turchia, Argentina, Grecia, Egitto e Zimbabwe… che non pesano più del 2% sul totale del debito mondiale. Al di là di queste “stranezze” mediatiche, quali possono essere le conseguenze della corsa all’indebitamento? Anzitutto, la quota crescente di risorse che i governi dei Paesi più indebitati devono destinare al pagamento degli interessi, che significa tagli sempre più pesanti ai servizi erogati. All’orizzonte non si vede un cambio di tendenza, si continua a far pagare ai cittadini (tra l’altro sempre più tassati) il prezzo dei cattivi investimenti e del malfunzionamento degli Stati, e in diversi casi della corruzione.

Le regole di una sana contabilità, che tenga conto di quanto si incassa e quanto si spende, sono ormai estranee alla logica con la quale si emettono titoli di debito, che non sono altro che la certificazione dell’incompetenza accumulata negli anni nella gestione della cosa pubblica. Il ricorso al debito non è certo una prassi da condannare in sé, anzi, è uno strumento utilissimo se si tratta di fare investimenti produttivi, ad esempio per ammodernare infrastrutture o agevolare l’acquisto di beni immobili. Ma la logica alla base di ogni investimento è che, nel tempo, esso comporti un guadagno anche economico, che consenta di ripagare il debito. Questa logica elementare scompare quando entra in campo la politica, che spesso considera solo l’impatto che una misura avrà in termini di consenso elettorale. Opere faraoniche ma poco utili, welfare populista, pensioni senza una base impositiva adeguata, aspirazioni da potenza militare, favori a categorie produttive o a grandi imprese “amiche”, salvataggi onerosi al sistema bancario… Il gigantesco debito pubblico odierno nasce dall’insieme di tutti questi fattori, che trasformano un semplice strumento finanziario in un cappio al collo per le future generazioni. I giovani di oggi e di domani difficilmente avranno una pensione decente alla fine della loro carriera lavorativa, per giunta dovranno ricorrere in modo crescente a servizi privati per la salute e l’istruzione. Dovranno, insomma, pagare la cattiva amministrazione della cosa pubblica e gli eccessi dei loro nonni.

La percezione comune del problema del debito pubblico ha molti punti in comune con quella del cambiamento climatico. Esiste una diffusa consapevolezza del fatto che non è una cosa buona, che bisognerebbe fare qualcosa… Ma, in fin dei conti, si può aspettare ancora un altro po’: finché qualcuno comprerà quel debito, i cui interessi vengono pagati dai cittadini sulla propria pelle, spesso senza che se ne rendano conto, la ruota continuerà a girare. È una pia illusione, come è un’illusione che si possa rimandare un serio intervento contro il riscaldamento globale, ma ci permette di dormire la notte. Perché in fondo, anche se non è vero, il problema di tutti è il problema di nessuno, il debito di tutti è il debito di nessuno.

Negli ultimi 40 anni il problema del debito pubblico, con poche eccezioni, ha sempre riguardato i Paesi del Sud del mondo o dell’Est europeo. Si generavano bolle che quando scoppiavano, come accaduto nei casi del Messico, dell’Indonesia, dell’Argentina o della Russia, creavano crisi più o meno gravi a livello globale, che comunque si “risolvevano” con una ricetta pronta all’uso, regolarmente fornita dal Fondo Monetario Internazionale: la tanto temuta “ristrutturazione del debito”. E cioè con tagli sostanziali al welfare, alle pensioni e all’educazione, evitando sempre di colpire le grandi ricchezze o il grande business perché dovevano essere il traino della ripresa. La conclusione di queste crisi è stata quasi sempre la stessa: economie che entravano in recessione e, con le politiche di austerità, si raffreddavano ulteriormente. I Paesi colpiti da quelle crisi sono riusciti a uscirne solo affidandosi a cicli economici favorevoli per l’esportazione delle loro commodities, in aggiunta ai tagli selvaggi ai danni della spesa pubblica.

Una situazione simile rischia di ripresentarsi in Africa, dove lo Zambia è entrato in default: è probabile che sia solo la prima manifestazione di un problema destinato a espandersi nella regione. La grande novità, però, è che oggi il problema del debito riguarda in maniera prepotente anche Paesi cosiddetti “centrali”, cioè quelli che, avendo il pacchetto di voti di maggioranza nel FMI, finora hanno determinato le ricette applicate agli altri. La marea di debiti pubblici e privati, cresciuti esponenzialmente durante la pandemia, equivale ormai a quattro volte il PIL mondiale. Numeri da capogiro che vedono il Giappone al primo posto, seguito tra i Paesi OCSE dalla Grecia e dall’Italia, tallonate da vicino dal Portogallo e dagli Stati Uniti. La Cina ha un debito pubblico-privato che a fine ottobre si è portato al 335% del PIL nazionale. Il famoso limite del rapporto tra PIL e debito pubblico del 60%, stabilito nel 1992 a Maastricht per i Paesi comunitari, nel 2020 è stato superato da quasi tutti i membri dell’Unione Europea, inclusa la virtuosa Germania. Ed è di queste settimane la polemica sulla proposta del presidente dell’Europarlamento di cancellare i debiti pubblici contratti dagli Stati per fare fronte all’emergenza Covid.

È di oltre 11mila miliardi di dollari il debito aggiuntivo bruciato dalla comunità internazionale per via del Covid. Una cifra enorme. E, visto che sulla ripartenza dell’economia non si hanno certezze, è inevitabile che si parli di ristrutturazione del debito. Tuttavia, da quando il problema ha colpito le economie forti, l’approccio sta cambiando velocemente: gli esperti dicono che, se si applicassero politiche di austerità, si strangolerebbe la ripartenza dell’economia. Eppure la ricetta dei tagli indiscriminati, finché la si applicava alle economie di Paesi africani o latinoamericani, veniva presentata come vincente malgrado ogni evidenza. E solo ora che il debito riguarda da vicino anche gli Stati occidentali la si mette in discussione.

Di fatto, anche il debito sta entrando a pieno titolo nella rosa di quei drammatici problemi che non possono essere risolti senza una concertazione internazionale, come quelli legati al cambiamento climatico o i conflitti bellici. È un altro allarme che suona in un mondo che, orfano del multilateralismo, si avviluppa su se stesso senza trovare via di uscita. L’ennesimo capitolo di un’agenda globale urgente e che ancora in molti fanno fatica ad assumere come prioritaria. La logica dominante è quella del “finché la barca va”, anche se si sta imbarcando sempre più acqua.

 

Furono una delle grandi battaglie globali a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Le campagne sul debito estero “del Terzo Mondo”, come lo si chiamava allora, costituirono una fucina, un terreno di contaminazione tra il mondo cattolico, quello della sinistra e il nascente movimento ambientalista. Si trattava di un tema per definizione globale, vista la quantità di Paesi e soggetti coinvolti, che si prestava a essere affrontato da diversi punti di vista. Le origini dell’indebitamento degli Stati periferici, iniziato negli anni ’60 ed esploso alla fine degli anni ’80, andava infatti cercata nella corruzione e nelle dittature, mentre le conseguenze riguardavano lo sfruttamento selvaggio sia dell’ambiente sia delle persone, l’eliminazione del welfare e la privatizzazione dei servizi pubblici.

Queste campagne culminarono con il grande Giubileo cattolico dell’anno 2000, durante il quale alcuni governi si impegnarono a cancellare i loro crediti nei confronti degli Stati più poveri della Terra. L’Italia, che promise di cancellare 6 miliardi di euro di crediti, alla fine lo fece per meno della metà. Ma il debito del Terzo Mondo, mal gestito dal Fondo Monetario Internazionale, nel frattempo provocava cicliche crisi globali. La ricetta promossa dal FMI, controllato a maggioranza dai Paesi del G7 creditori di quelli indebitati, era sempre la stessa. Con lo slogan di tagliare i rami secchi, si agiva su pensioni, sanità, educazione, costo del lavoro e riduzione lineare della spesa pubblica. Ricette che spingevano nella recessione i Paesi indebitati, i quali riuscivano a malapena a pagare gli interessi sul debito senza avere la possibilità di investire per riattivare l’economia.

La storia ci spiega che, dopo il default dell’Argentina del 2001, molti Stati cambiarono strategia rilanciando l’investimento pubblico come volano per la crescita: che infatti, anche per un buon andamento dei prezzi delle materie prime, ripartì. Alcuni Paesi, come il Brasile e la stessa Argentina, allontanarono il FMI dai loro ministeri dell’economia saldando i debiti che avevano nei confronti dell’istituzione con sede a Washington.

Oggi il caso Grecia riporta al centro del dibattito il tema del debito. A differenza del passato, però, i Paesi più in sofferenza sono europei. Dall’inizio della crisi finanziaria del 2008, il debito globale è cresciuto di 57mila miliardi di dollari USA, dei quali 19mila a carico degli Stati a economia avanzata. Anche la Cina, che pure ha importantissime riserve valutarie, è diventata un Paese indebitato a causa degli sforzi sostenuti per evitare il rallentamento della crescita economica. A fare la parte del leone tra i detentori di questo nuovo debito sono le Banche centrali che, con il meccanismo del quantitative easing, hanno acquistato bond emessi dagli Stati come ora sta facendo la BCE. Banca d’Inghilterra, Federal Reserve e Banca del Giappone sono attualmente proprietari del 62% di tutti i bond in circolazione nel mondo. Una massa di carta, o di “pagherò”, garantiti solo dalla promessa di onorarli.

Per questo motivo le difficoltà a rinegoziare il debito estero greco non stanno nella cifra, che è modesta, bensì nel rispetto delle regole del gioco. Regole che sanciscono l’intangibilità dei crediti concessi e assegnano attestati di maggiore o minore rischio, incidendo quindi sugli interessi che i debitori devono pagare. E a tutti i governi impediscono di emettere all’infinito ulteriore debito per pagare i debiti pregressi, tranne che a quello degli Stati Uniti.

Quando si parla di debito si parla dunque sia di una materia tecnica e complessa, sia di geopolitica e di rapporti di forza. C’è debito e debito, insomma. Anzi, c’è Paese indebitato e Paese indebitato. Ciò dimostra come i Parametri di Maastricht, il maggiore feticcio della costruzione europea, siano una finzione arbitraria e come la reale sostenibilità del debito non sia direttamente proporzionale ai “paletti percentuali” stabiliti dal trattato. Un debito è sostenibile fin quando i creditori lo ritengono tale, il resto sono chiacchiere.

La controprova è che la stragrande maggioranza dei Paesi dell’euro, se oggi uscisse dalla moneta comune, non avrebbe i numeri per esservi nuovamente accettata, soprattutto a causa dell’esposizione debitoria. E che Paesi come Germania e USA, pur essendo entrambi fortemente indebitati, possono permettersi di ripagare i loro debiti praticamente senza interessi.

Dunque in molti casi di debito si muore, mentre in altri ci si può convivere anche bene: almeno fin quando si riesce a convincere i creditori di essere virtuosi. E questo non c’entra con l’economia, ma solo con l’essere una potenza anziché un Paese marginale.

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

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