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Un paio di mesi fa il quotidiano inglese «The Guardian» pubblicava un approfondito reportage di Samanth Subramanian per rispondere alla domanda: l’equo e solidale esiste ancora? Il giornale prendeva spunto dalla fiducia calante dei consumatori nei confronti del marchio FairTrade, a lungo quasi monopolista della distribuzione dei prodotti dichiaratamente rispettosi dell’ambiente e soprattutto dei diritti dei contadini.

Il commercio equo e solidale, partito con pochi produttori in Asia, Africa e America Latina, arrivava per la prima volta nelle città dell’Occidente alla fine degli anni ’80 attraverso la rete delle “botteghe del terzo mondo”. Un patto tra produttori e consumatori introduceva per la prima volta la dimensione ambientale ed etica tra i “valori” delle merci, fino a quel momento esclusivamente valutate dagli acquirenti sulla base di qualità e prezzo. Il resto della storia è noto, con l’aumento dell’offerta e della domanda, la moltiplicazione dei prodotti, anche freschi, e lo sbarco nella grande distribuzione. Evento, quest’ultimo, che all’epoca suscitò diverse polemiche: nei supermercati veniva infatti meno la formazione del cliente, la possibilità di far conoscere al consumatore che cosa c’è dietro il prodotto acquistato. Una dimensione che i pionieri del commercio equo e solidale ritenevano imprescindibile.

Nel 2017 il fatturato globale di FairTrade ha raggiunto i 9 miliardi di dollari: un successo visto il dato di partenza, ma anche una goccia nell’oceano del mercato. Il passaggio successivo, quello che secondo «The Guardian» ha fatto da detonatore per la crisi odierna, è stata la creazione di linee “equo-solidali” o “sostenibili” da parte delle grandi multinazionali dell’alimentare, con la moltiplicazione di marchi di garanzia che molto spesso sono ambigue operazioni di marketing: come il marchio “fairly traded” del colosso inglese dei supermercati Sainsbury’s. Altre aziende, come Nestlé è Mondelēz, hanno messo in atto modelli di certificazione interna per creare l’illusione di un certificato di garanzia che, in realtà, è solo un’autocertificazione. Per i consumatori distratti dei supermercati, evidentemente, è quanto basta per scegliere un prodotto. Magari anche di un brand come Nestlé, da tempi remoti accusato di pratiche non proprio sostenibili.

La domanda da porsi è perché aziende palesemente fuori dai canoni della sostenibilità stiano facendo a pugni per posizionarsi sul mercato green o etico. Forse perché il commercio equo e solidale non è stato affatto un fallimento. Pur senza essere mai diventato concorrenziale rispetto al grande business, ha ottenuto un grande successo nel formare una generazione di consumatori che oggi sono inclini a premiare l’azienda che si impegna a favore dell’ambiente e rispetta i diritti delle persone.

Resta il fatto che gli scaffali traboccano di promesse sulla qualità anche etica delle merci che il consumatore non può verificare, e che la voluta moltiplicazione di marchi e marchietti ha disorientato tutti. Forse per questo è scattata l’ora di ripensare il commercio equo e solidale rilanciandone la storica missione di formare i consumatori. Anche smascherando i truffaldini, sottoponendo a fact-checking le promesse dei produttori. Ma soprattutto restituendo voce ai produttori perché, nell’attuale quadro della crisi dell’agricoltura mondiale, i loro margini di guadagno si sono ulteriormente ridotti. Per questi motivi, e per molti altri ancora, il ruolo del commercio equo e solidale non si è esaurito. Soprattutto perché le ragioni che portarono alla sua nascita sono ancora valide.

 

Trent’anni fa, quando si comprava il caffè nicaraguense o il miele cileno nelle “botteghe del Terzo Mondo” si faceva una scelta politica, solidaristica e raramente di convenienza. Oggi le cose non stanno più proprio così.

Negli ultimi decenni tantissima acqua è passata sotto i ponti del commercio internazionale: sono cambiati i gusti dei consumatori e i Paesi di provenienza delle merci globali, eppure la nicchia rappresentata dal commercio equo e solidale è sempre presente. Anzi, è continuamente cresciuta anche in questi anni di crisi economica. Si tratta di un comparto che ha assunto come valori centrali la sostenibilità ambientale e sociale e che mette sul mercato prodotti di fascia qualitativa alta, il cui valore mondiale nel 2004 era di 850 milioni di euro e dieci anni dopo è salito a 5,5 miliardi. Una storia di successo ancora piccola, rispetto al commercio globale, ma che beneficia in modo sensibile 1.200.000 contadini e 200.000 lavoratori generici.

I prodotti equi e solidali “parlano” al consumatore, raccontando storie di lotta e di superamento delle difficoltà. Storie che spiegano come l’unione tra i piccoli agricoltori faccia la forza e come la scommessa sul biologico, alla lunga, paghi in termini di salute, tanto per i contadini quanto per i consumatori. Sono prodotti in grado di “formare” chi li acquista, insomma, anche se di solito vengono apprezzati soprattutto dai consumatori già formati. Ed è questo uno dei limiti storici dei produttori e dei rivenditori dell’equo e solidale: la difficoltà a spiegare ai consumatori generici la differenza tra il loro caffè e quello degli altri.

Qualche anno fa, quando nei supermercati di alcune catene della grande distribuzione furono allestiti i primi scaffali dedicati a questi prodotti, le botteghe che fino ad allora erano gli unici punti vendita protestarono dicendo che questa mossa avrebbe banalizzato l’equo e solidale: nei supermercati, infatti, nessuno avrebbe spiegato la storia nascosta dietro l’etichetta, come invece fanno i volontari delle botteghe. La critica era in parte motivata, ma non prendeva in considerazione il fatto che il prodotto equo e solidale esposto sullo scaffale della Coop o di Esselunga arriva davanti agli occhi del consumatore generico, e non solo di quello già sensibilizzato che frequenta la bottega.

Oggi queste critiche sono state superate, e proprio la grande distribuzione ha fatto la differenza in termini di fatturato. Tuttavia stiamo sempre parlando di una nicchia che, se anche crescesse per i prossimi 30 anni agli ottimi ritmi attuali, nicchia rimarrebbe.

Quanto è stato rilevante, allora, l’impatto dei principi del commercio equo e solidale sul commercio senza aggettivi? La risposta potrebbe essere “poco” ma anche “molto”. Nel senso che oggi c’è indubbiamente una maggiore attenzione sui temi ambientali e sociali. Per esempio, al di là della normativa di legge, molte aziende hanno adottato l’etichetta trasparente, che entra nel merito anche della qualità o delle condizioni dei lavoratori. Alcuni grandi marchi, come l’italiana Lavazza o i francesi di Carrefour, hanno creato linee di prodotti con caratteristiche, spesso certificate, di commercio equo e solidale. Insomma, c’è stato un moderato travaso di buone pratiche verso l’industria tradizionale, ma soprattutto c’è stato un forte lavoro di sensibilizzazione del consumatore.

Tendenzialmente il consumatore odierno sta attento soprattutto al prezzo e alla qualità, ma spesso cerca anche garanzie in materia ambientale o di diritti. È un consumatore che, anche se non acquista il prodotto del commercio equo e solidale, lo apprezza e riconosce in esso un valore qualitativo: valore che è dato da elementi oggettivi, per esempio la scelta del biologico, ma anche da valutazioni sulle politiche ambientali o lavorative. Per molti aspetti il commercio equo e solidale anticipa il concetto di qualità del futuro. Non più soltanto di tipo organolettico o sanitario, ma anche ricco di indicatori per misurare la sostenibilità ambientale e sociale del prodotto.

La “provocazione” è servita, dunque, non perché oggi il commercio mondiale sia ancora cambiato, ma perché ha seminato il dubbio e ha fornito a una massa sempre più grande di consumatori gli elementi necessari per esigere prodotti (non necessariamente “equi e solidali”) che facciano bene alla natura e a noi. Se è vera l’affermazione secondo la quale il consumatore vota attraverso la scelta di ciò che compra, il “partito” della sostenibilità è sicuramente una piccola forza in crescita, e alimenta un’egemonia culturale che va ben oltre i suoi numeri di fatturato.

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

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