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Da qualche anno la geopolitica si è presa la sua rivincita sull’economia. Il mercato globale aperto agli investimenti, alle delocalizzazioni e alla circolazione di capitali, che si ipotizzava avrebbe creato un nuovo ordine dopo la fine della Guerra Fredda, ha fallito. E, contro ogni previsione, la guerra è tornata a essere uno strumento per la risoluzione dei conflitti. Guerra guerreggiata come in Ucraina o a Gaza, oppure minacciata, come sta accadendo al largo di Taiwan e lungo la frontiera israeliana con il Libano. La corsa al riarmo ha raggiunto picchi che non si verificavano da decenni mentre la diplomazia gira a vuoto, con le potenze occidentali che lanciano appelli sempre meno ascoltati dal blocco di Paesi che si è aggregato politicamente attorno alla potenza cinese.

Anche la globalizzazione sta mutando velocemente, con una maggiore regionalizzazione degli scambi e il tentativo, da parte di molti Stati, di ripristinare il controllo su materie prime e lavorazioni strategiche. Alla fase “allegra” degli anni ’90, quando le multinazionali occidentali trasferivano tecnologie anche di punta in Oriente, è subentrata la fase del ritorno degli Stati come primi investitori nella competizione mondiale, nel tentativo di raggiungere la massima autonomia possibile nella fabbricazione di semiconduttori e batterie, e di reperire le materie prime strategiche per la transizione energetica. Sono tutti settori nei quali primeggia Pechino, a lungo lasciata indisturbata nella sua progressiva espansione politica ed economica nelle periferie del mondo, ignorate da tutti gli altri o quasi: e così la Cina oggi si ritrova monopolista in diversi settori chiave. Se un bilancio si può fare, è proprio che il gigante asiatico è la potenza che ha tratto i maggiori benefici dell’apertura mondiale dei mercati. Un’apertura che ha cambiato anche la società cinese, ma senza intaccare la struttura politica dello Stato, che rimane almeno sulla carta quella di una grande nazione comunista. L’Occidente, invece, per molti Paesi terzi è diventato un partner inaffidabile, che non riesce a tutelare i propri interessi né a proteggere i propri alleati. Ucraina, Gaza, Siria, Afghanistan, Myanmar, Africa saheliana: sono solo le ultime puntate della “guerra a pezzi” in corso ormai da tempo, che nessuna potenza occidentale riesce a fermare con l’azione politica e nemmeno con le armi, che siano usate in proprio o donate a una delle parti in causa.

Tuttavia, le lancette dell’orologio della globalizzazione non possono più essere riportate indietro: i neo-protezionisti non fanno i conti con un mondo che è diventato interdipendente sul serio. Dovrebbe essere questo il punto di partenza per una riflessione sul futuro che si vuole costruire, senza più spazio per i complessi di superiorità. All’orizzonte, il rischio è enorme. La Cina, che oggi è il principale sponsor del multilateralismo e propone una sorta di “cittadinanza globale” in nome del comune benessere economico, non nasconde affatto la sua intenzione di restare uno Stato autoritario, dove il dissenso e i diritti civili sono fuorilegge.

Per Pechino, lo scopo del nuovo ordine dovrebbe essere garantire l’armonia, intesa come assenza di conflitti, e un benessere spalmato su basi più eque tra i diversi Stati. L’alternativa è dunque tra caos e diritti o pace e regime? È questo il punto di frattura tra due mondi che stanno velocemente dando vita a un nuovo bipolarismo. La divisione non è più ideologica, piuttosto passa dall’interpretazione di ciò che il mercato ha prodotto in Paesi dove prima era insignificante. È uno scontro che si gioca tutto all’interno dell’economia di mercato, ipotesi che in passato nessuno aveva messo in conto. E, come dimostra la Cina stessa, la crescita economica e il mercato possono prescindere tranquillamente della democrazia. Pensare che fossero legati in modo indissolubile è stato solo un miraggio, svanito presto.

Il Risiko è un gioco di società nato in Francia nel 1957 e arrivato in Italia undici anni dopo.  Il suo nome originale era “La conquista del mondo”, e proprio di quello si tratta: conquistare una serie di territori raggruppati in modo casuale. Nel Risiko non conta la potenza economica – e nemmeno le alleanze, che non sono previste – ma solo la forza militare, espressa in carri armati a disposizione. All’epoca il Risiko era davvero un gioco di fantasia, perché nel contesto della Guerra Fredda e dei rapporti Nord-Sud le conquiste militari dovevano sempre fare i conti con il peso delle economie e con l’appartenenza all’uno o all’altro dei due blocchi in cui il mondo era diviso.

Quelle stesse caratteristiche rendono invece il Risiko molto simile alla situazione odierna, soprattutto a quella siriana, ma non solo. Le conquiste oggi possono davvero essere random, prescindendo da blocchi ideologici che non esistono più, e possono essere portate a termine anche da potenze relativamente modeste sotto il profilo economico. La stessa Russia di Putin, che ha un PIL inferiore a quello brasiliano, è un nano economico, eppure grazie alla sua forza militare riesce a esercitare un potere di intervento decisivo in aree disparate come l’Ucraina, la Siria, il Venezuela o Cuba. Se vogliamo invece, per gioco, equiparare occupazioni militari e “occupazioni” economiche, anche la strategia mondiale cinese ricorda molto il Risiko, con la conquista di territori apparentemente marginali, come l’Africa e l’America Centrale, per tenere sotto scacco la grande potenza USA.

In questo mondo deregolamentato e deideologizzato la forza militare, o almeno la sua rappresentazione, ha un peso determinante. Anche per essere lasciati in pace, come ha dimostrato la vicenda della Corea del Nord, che ha sapientemente sfruttato la minaccia nucleare. A risentirne è la politica, e di conseguenza la democrazia. Lo scenario favorisce infatti l’affermazione di figure che, una volta al potere, si trasformano in autocrati e perpetuano se stessi, anche barando sulle regole. Erdoğan e Putin sono due validi esempi, ma anche Trump e Bolsonaro sono sospettati di avere utilizzato carte truccate per vincere le elezioni nei rispettivi Paesi. I cittadini sono invece sempre più lontani dalle stanze dei bottoni: vengono relegati dal potere al ruolo di gregari, di follower sui social.

In questo contesto, l’Ecuador è in controtendenza. I movimenti indigeni raggruppati nella confederazione Conaie hanno infatti riportato una pesante vittoria sul governo di Lenín Moreno che, dopo avere firmato un accordo con il Fondo Monetario Internazionale, tra le altre misure aveva deciso di eliminare le sovvenzioni statali sui carburanti. Combustibile che serve non solo al traporto dei privati, che in genere non hanno problemi economici, ma anche a muovere i mezzi di trasporto collettivi e i camion che trasportano le merci prodotte dalle comunità rurali. Insomma, una misura che colpiva i ceti più bassi della società, quindi gli indigeni, in un Paese che esporta petrolio. La mobilitazione indigena ha prima obbligato il governo a traslocare dalla capitale Quito a Guayaquil, e poi lo ha indotto a eliminare il decreto incriminato e a ridiscutere gli accordi con il FMI.

La vittoria appartiene soltanto agli indigeni, ma il governo l’ha festeggiata come positiva e addirittura il FMI l’ha definita “salutare”. Perché anche questa è la cifra dei nostri tempi: raccontare le cose come conviene, se necessario falsando la realtà, per apparire sempre vincenti.

La vicenda ecuadoriana può apparire marginale, ma insegna che a essere potenti non sono soltanto gli Stati dotati di forti eserciti, quelli impegnati nel nuovo Risiko. Possono esserlo anche i cittadini organizzati. Gli indigeni che hanno piegato governo e FMI non avevano a disposizione carri armati, ma tanta determinazione. Una forza che ancora può fare la differenza.

 

A Pechino circola la battuta secondo cui il migliore alleato dei cinesi sarebbe Donald Trump. Proprio il presidente che voleva punire la Cina per via del grande disavanzo commerciale che il Paese asiatico macina nei confronti della potenza americana, e che invece sta ottenendo l’effetto di far rivalutare a livello mondiale la politica cinese fatta di moderazione e toni pacati. Quanti più tweet escono dallo smartphone fuori controllo del presidente USA, tanto più la Cina si mostra responsabile, favorevole alle aperture commerciali, partner affidabile.

In un momento di solidità del presidente Xi Jinping, appena riconfermato leader del Partito Comunista, gli alleati storici di Washington, Europa in testa, brancolano nel buio rispetto al futuro del multilateralismo. E questo non solo perché Trump sta facendo saltare uno dopo l’altro gli accordi faticosamente negoziati dagli Stati Uniti in tempi recenti, come quello con i Paesi del Pacifico e quello con l’Unione Europea; ma anche perché vuole ridiscutere o cancellare quelli già attivi, come il NAFTA con Canada e Messico. Il Paese pilastro della costruzione dell’economia di mercato globale frena, e lo fa lasciando a piedi i propri soci.

La politica zigzagante di Trump sta aprendo intere aree del pianeta alla penetrazione della grande potenza industriale asiatica. La Cina sta costruendo passo dopo passo la nuova Via della Seta per rinsaldare i legami commerciali con il resto del continente e con l’Europa, e intanto si dichiara interessata a subentrare agli Stati Uniti nel trattato TPP con i Paesi delle sponde americana e asiatica del Pacifico. Nell’Africa definita “un cesso di posto” da Trump, i cinesi consolidano la loro presenza economica e politica a tutto campo. Compratori, investitori sul mercato locale, prestatori degli Stati, alleati dei governi di qualsiasi colore. Ecco le loro armi vincenti.

Lo stesso accade in America Latina dove, oltre a essere già il primo partner economico per molti Paesi, la Cina si interessa ai destini del Messico che gli Stati Uniti vorrebbero isolare con un muro e ridimensionare all’interno dell’area NAFTA. Una manna inaspettata per Pechino, insomma, la presidenza Trump. Da cattivi della situazione, per via del dumping usato come politica di Stato, dei sussidi nascosti per favorire l’export, delle manovre sulla moneta, i cinesi sono passati a interpretare il ruolo dei salvatori della globalizzazione e della potenza affidabile. Non che questa trasformazione sia già avvenuta. Ma è quello che accadrà se Trump manterrà le sue promesse.

Prima o poi questa rivoluzione copernicana avrà ricadute anche su quei grandi gruppi multinazionali a stelle e strisce che oggi gioiscono per via dell’abbattimento fiscale di cui godono grazie a Trump, o per le promesse di condoni che consentiranno loro di rimpatriare gli utili parcheggiati nei paradisi fiscali. Se il mercato mondiale si rimpicciolisse, o peggio, se per via del principio di reciprocità le aziende statunitensi all’estero cominciassero a ricevere lo stesso trattamento che Trump vuole riservare agli investitori stranieri negli USA, il loro business sarebbe fortemente danneggiato. E il sistema economico statunitense non può più tornare a chiudersi entro i confini nazionali senza impoverirsi.

L’equazione con la quale Trump tenta di spiegare che le multinazionali hanno portato via lavoro agli statunitensi in realtà non è proprio vera: negli USA i disoccupati sono solo il 4% e in diminuzione. Il malcontento che ha permesso a Trump di pescare voti tra molti ex lavoratori dell’industria nasceva dal fatto che a chi ha perso il lavoro non è stata data l’opportunità di riciclarsi. Un tema considerato inesistente dai democratici che hanno voluto e gestito l’apertura dei mercati, e che ora gli Stati Uniti cercano di affrontare con ricette semplicistiche e autolesionistiche. Troppa schizofrenia politica per una potenza globale, che si traduce in una perdita di lucidità e di tenuta. Lucidità e tenuta che a Pechino invece abbondano.

 

U.S. President Donald Trump takes part in a welcoming ceremony with China’s President Xi Jinping in Beijing, China, November 9, 2017. REUTERS/Thomas Peter – RC1F6C531670