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Il canale di Panama, che taglia in due il continente americano, nacque da una mutilazione. Quella che strappò la provincia appunto di Panama dalla Colombia, lo Stato al quale apparteneva fino al 1903. Una separazione traumatica, con l’intervento dei marines statunitensi a garanzia del fatto che il nuovo governo “indipendente” concedesse agli imprenditori USA l’incarico di costruire quel canale bi-oceanico che aveva già visto il fallimento dei francesi. Il Canale, ultimato nel 1914 e ufficialmente inaugurato nel 1920, rimase sotto la piena giurisdizione statunitense fino al 1977, quando l’amministrazione Carter acconsentì alla sua restituzione a Panama, posticipando però l’effettivo passaggio di consegne fino al 31 dicembre 1999. Va ricordato che, oltre ad accorciare i tempi per la movimentazione di merci tra Asia ed Europa, quell’infrastruttura era vitale per il collegamento tra i poli industriali delle coste est e ovest degli Stati Uniti.

Ma Panama non è solo il Canale. Qui è nata l’economia offshore, uno spazio virtuale che tuttavia è saldamente ancorato ai confini nazionali dello Stato ospitante, dove registrare imprese e fissare la residenza di persone fisiche che mirano a evadere le tasse nei rispettivi Paesi, o dove spostare capitali di dubbia provenienza. Anche la marina mercantile è stata rivoluzionata dalla possibilità di registrare le navi sotto bandiera panamense, soluzione che ha permesso agli armatori di sottrarsi alle imposte dei Paesi d’origine: non a caso, da oltre mezzo secolo questo è uno degli Stati al mondo con più navi battenti bandiera nazionale, tutte (o quasi) di comodo.

La politica panamense non poteva che risentire pesantemente della circolazione di grandi ricchezze “facili” e delle condizioni di sovranità limitata dello Stato. Ne è derivata una storia di corruzione, locale e globale. Il governo nazionalista del generale Omar Torrijos, che nel 1977 era riuscito a strappare a Carter la restituzione del Canale ai panamensi, è stato una parentesi. Torrijos è morto nel 1981 in uno dei tanti incidenti aerei, odoranti di CIA, ai danni di leader progressisti. Negli anni Ottanta il suo successore, il comandante Manuel Noriega detto “faccia d’ananas”, è diventato un personaggio chiave negli intrighi di un’America centrale dilaniata dai conflitti armati.

Ecco perché Panama illustra perfettamente le contraddizioni, le connivenze pericolose, i doppi giochi e le doppie morali che hanno caratterizzato la globalizzazione dell’economia.  Uno degli ultimi casi di corruzione ai massimi livelli ha coinvolto Ricardo Martinelli, imprenditore panamense di origini italiane che è stato presidente del Paese tra il 2009 e il 2014. Martinelli, già coinvolto in indagini della magistratura italiana su casi di corruzione internazionale, nel febbraio 2024 è stato condannato in via definitiva dalla Corte suprema panamense per riciclaggio di tangenti. La sua via di fuga è stata la concessione di asilo politico da parte del Nicaragua di Daniel Ortega, ormai rifugio per latitanti di ogni tipo.

Il colpo di scena è stata la vittoria elettorale del suo erede designato, José Raúl Mulino, alle presidenziali di domenica 5 maggio. Questo inaspettato ritorno al potere del peggior mondo politico avviene in una fase di importanti cambiamenti per il Paese. Cambiamenti legati soprattutto al rapporto con la Cina. Panama, che soltanto nel 2017 ha chiuso i rapporti con Taiwan, è infatti diventato un forte alleato di Pechino, ricevendo massicci investimenti e scambiando merci per un valore di oltre un miliardo di dollari all’anno. Questa situazione ovviamente non piace agli Stati Uniti, che temono che la Cina possa prima o poi controllare il Canale da dove passa il 5% del traffico commerciale mondiale.

È una partita geopolitica dal peso non indifferente, perché la Cina, che finora in America aveva stretto legami solo con Paesi del Sud del continente, comincia a insinuarsi nel “cortile di casa” centroamericano e caraibico di Washington, prima a Cuba e ora a Panama. La globalizzazione è anche questo, piccoli Paesi senza peso militare né demografico si trovano a controllare passaggi cruciali per il funzionamento del sistema-mondo. Su questi snodi si concentra l’interesse strategico delle potenze che guidano la globalizzazione. E allora può succedere di tutto, ad esempio che una classe politica totalmente corrotta torni al potere, solo perché non ha mai disturbato il vero manovratore.

Secondo le cronache dell’epoca, la votazione del Senato statunitense tenutasi il 28 giugno 1902 fu pesantemente influenzata da un francobollo. All’ordine del giorno c’era la legge Spooner, che doveva decidere dove aprire il canale di collegamento tra gli oceani Atlantico e Pacifico.

Il luogo più adatto era il Nicaragua, sfruttando i laghi Managua e Granada (detto anche Lago Nicaragua). In questo Paese esisteva già un servizio misto tra navi e ferrovie che permetteva a merci e viaggiatori di spostarsi da un oceano all’altro. Ma all’inizio del ’900 la tecnologia, e soprattutto la volontà politica degli Stati Uniti, diventati potenza mondiale, consentivano la costruzione di un vero canale. Il Nicaragua era praticamente una colonia a stelle e strisce, e ciò rendeva ancora migliori le condizioni per realizzarlo.

Qui la storia si complica. A Washington, infatti, cominciò a circolare un francobollo emesso da Managua sul quale era riprodotto il porto di Momotombo con lo splendido omonimo vulcano, coronato da un pennacchio di fumo bianco. Porto Momotombo doveva essere il punto di partenza del canale. I lobbisti pro-Panama riuscirono a mettere in piedi a tempo di record un’operazione di propaganda ingannevole, accostando il vulcano immortalato nel francobollo con il Monte Pelée in Martinica, che nel 1902 aveva eruttato provocando 40.000 morti. I consensi per il canale del Nicaragua precipitarono a beneficio di Panama, e il resto è storia nota.

Nel terzo millennio, però, il Nicaragua avrà il suo canale. Il Parlamento di Managua ha infatti appena approvato il progetto di una società di Hong Kong, paravento della Cina, che investirà 40 miliardi di dollari USA per aprire una nuova via d’acqua tra Atlantico e Pacifico. In questo modo la Cina avrà un accesso strategico ai mercati centroamericani e dell’intera America Latina, uno dei principali sbocchi commerciali di Pechino.

Il canale “cinese” avrà anche il compito di scardinare definitivamente i rapporti un tempo privilegiati tra USA e America Latina, oggi già incrinati. Un’ipotesi di commercio navale alternativa a quella panamense consentirebbe di ridurre drasticamente il costo del trasporto di energia fossile e di cereali tra il Sudamerica e la Cina; e offrirà un’alternativa ad altri Paesi dell’area, come il Venezuela, non particolarmente entusiasti di pagare un salato pedaggio al Panama, il che equivale agli USA, ogniqualvolta una loro nave attraversa il canale di Panama.

Il canale del Nicaragua rappresenta una nuova puntata della sfida globale tra USA e Cina per la supremazia sull’economia di domani. Nel mondo multipolare cade così uno degli ultimi punti fermi: il monopolio statunitense sulla navigazione tra i due oceani, fondamentale per il controllo del cosiddetto “cortile di casa” centroamericano. Per la Cina si tratta di un’operazione che darà vantaggi concreti e anche simbolici: nemmeno l’Unione Sovietica aveva mai immaginato di avere un proprio canale. Insomma, grazie al suo potente commercio estero e alla sua “diplomazia degli affari”, la Cina sta riuscendo a spazzare via la geopolitica del ’900.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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