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La seconda presidenza Trump potrebbe infliggere un colpo definitivo alla globalizzazione iniziata negli anni ’90 del secolo scorso. Ma, al suo interno, l’amministrazione che si sta per insediare a Washington sta covando contraddizioni che potrebbero smentire questo pronostico. Per ora, il presidente eletto ha parlato solo di dazi da applicare in modo punitivo praticamente a tutti i principali fornitori degli Stati Uniti. Messico e Canada, i primi due partner economici del gigante americano, sono stati minacciati con dazi del 35% sulle loro merci perché non farebbero abbastanza per contrastare narcotraffico e immigrazione verso gli USA. Accusa ridicola se si pensa al Canada, meno per il Messico. Tuttavia, come ha ricordato la presidente messicana Claudia Sheinbaum, le merci esportate dal suo Paese sono per la maggior parte prodotte da aziende statunitensi che, negli anni, hanno delocalizzato oltreconfine. L’effetto boomerang è quindi garantito. Lo stesso si può dire circa i dazi minacciati contro la Cina, una politica già intrapresa da Trump nella sua prima presidenza. Peccato che, alla fine, con la ritorsione cinese a rimetterci siano stati proprio gli Stati Uniti. Poi c’è l’Europa, che ha una bilancia in attivo negli scambi con gli USA, malgrado l’aumento dell’import di gas liquefatto a stelle e strisce per sostituire le forniture russe. Ma con il Vecchio Continente si pone un’altra questione vitale: riguarda la NATO, che Trump vorrebbe fosse maggiormente finanziata dai Paesi europei.

Sono numerosi, dunque, i fronti che confermano la cultura isolazionista e protezionista del nuovo inquilino della Casa Bianca, una cultura che cozza con le regole che gli stessi Stati Uniti hanno imposto al mondo negli ultimi decenni per favorire la globalizzazione. A questo punto, l’elefante nello studio ovale è rappresentato dagli oligarchi dell’high-tech statunitense, multimiliardari a capo dei maggiori gruppi economici mondiali, a partire dal fido Elon Musk. Il mondo nel quale questi imprenditori hanno potuto costruire la loro posizione dominante, arrivando in alcuni casi a stabilire veri e propri monopoli, è l’opposto di quello chiuso e isolazionista che sogna Trump.

Bezos, Zuckerberg, Musk hanno potuto crescere in mancanza di regolamentazione grazie alle caratteristiche del mondo modellato da Washington alla fine della guerra fredda. Nessun problema per spostare capitali, nessun problema per eludere il fisco locale, nessun dazio o barriera a penalizzare i loro prodotti. Come potrebbero mantenere il loro primato in un mondo che, inevitabilmente, risponderebbe alle chiusure statunitensi con altre chiusure? Quante automobili venderebbe ancora Musk, quanti contratti per i suoi servizi di internet satellitare potrebbe firmare, quanto tempo ci metterebbero i Paesi colpiti dai dazi di Washington a ostacolare, fiscalmente parlando, le attività di Amazon o di Meta?

Insomma, se Trump pensa di favorire il suo elettorato chiudendo l’economia statunitense, i suoi grandi finanziatori la vedono diversamente. Si potrebbe aggiungere che colpire con dazi l’import cinese andrebbe a svantaggio dei ceti più deboli negli Stati Uniti, che spesso possono permettersi soltanto i beni a basso costo in arrivo da Pechino.

Sono tempi difficili per i populismi di ritorno, che culturalmente vorrebbero tornare all’autarchia e allo statalismo, ma che devono fare i conti con un mondo che è cambiato nel quale le contraddizioni sono immense, a cominciare dalla prevalenza dell’economia sulla politica. La mano invisibile del mercato, per tanti anni presentata come l’unico strumento di regolamentazione dell’economia e della società tutta, non può sostituire la politica e non può avere gli stessi interessi e le stesse priorità; ma gli strumenti finora adoperati dai governanti per recuperare spazio sono risultati goffi, datati e spesso inapplicabili.

Molti analisti avevano decretato che il G20 del 2021 sarebbe entrato nella storia. In quell’occasione, per la prima volta i governanti dei Paesi che producono l’85% del PIL globale decidevano di stabilire un parametro fiscale internazionale da applicare all’industria digitale e a tutte quelle imprese che vendono servizi in un Paese ma pagano altrove le tasse sul profitto. Nasceva la Global Minimum Tax con un’imposizione pari al 15% (gli Stati Uniti avevano chiesto addirittura il 20%), messa a punto dall’OCSE e adottata nel 2022 anche dall’Unione Europea perché considerata giusta, un primo piccolo passo per raggiungere l’equità fiscale. La riforma, nella sua veste definitiva, prevedeva in realtà due “pilastri”. Il primo era stato pensato per i giganti del web, che se hanno ricavi annui superiori a 20 miliardi di euro devono pagare le tasse nella giurisdizione in cui effettuano le vendite per una quota equivalente al 25% dei profitti sopra il margine del 10%. Il secondo pilastro, più noto, era appunto quello che stabiliva che le multinazionali con un fatturato annuo globale di oltre 750 milioni di euro fossero soggette a un’aliquota fiscale minima globale effettiva del 15%, a prescindere dalla giurisdizione fiscale d’appartenenza. Pur trattandosi di una percentuale abbastanza modesta, appariva sempre meglio di niente, anche perché avrebbe reso giustizia alle imprese di medie e piccole dimensioni che non possono dirottare i loro utili nei paradisi fiscali.

A distanza di tre anni, la situazione non appare più così rosea. I Paesi che hanno ratificato l’accordo e che applicano la Minimum Tax sono quelli dell’UE più Regno Unito, Svizzera e Norvegia, Canada, otto Stati asiatici tra cui Giappone e Corea del Sud, tre latinoamericani e altrettanti africani. Non lo hanno implementato, e nemmeno pensano di farlo, Cina e USA, le due potenze globali che generano oltre il 25% degli scambi commerciali mondiali. Dunque gli Stati Uniti di Joe Biden, che avevano chiesto un’aliquota maggiore, non si sono adeguati ed è improbabile che lo faccia la nuova amministrazione Trump.

Le difficoltà emerse nell’applicazione concreta di quanto deciso in sede multilaterale sulla tassazione globale ci riporta drammaticamente al tema chiave, che sempre si evita di commentare: gli Stati adottano due politiche diverse quando si tratta di negoziare e di sottoscrivere accordi internazionali. La prima, di natura strategica e mediatica, al momento della firma di intese e trattati, mira a lasciar intendere che un problema, più o meno sentito dall’opinione pubblica, è stato risolto alla luce di un consenso internazionale; la seconda, di natura pragmatica e amministrativa, si traduce nel ritardare il più possibile la ratifica e l’entrata in vigore degli impegni sottoscritti, allo scopo di tutelare interessi nazionali o di settore. Lo si è visto chiaramente con gli Accordi di Parigi sul clima, lo stiamo vedendo di nuovo con la Minimum Tax e, localmente, con la vicenda dell’accordo tecnico tra Mercosur e UE, raccontato come il punto d’arrivo di 25 anni di negoziati, ma che non è affatto scontato venga ora ratificato dai Paesi comunitari.

Principali responsabili di questa situazione sono sempre le due potenze che oggi hanno l’onore e l’onere di indirizzare la comunità internazionale, anche con il loro esempio. Stati Uniti e Cina perseguono la stessa priorità economica e geopolitica: prevalere sulla potenza rivale in una competizione senza esclusione di colpi, si tratti di sanzioni, dazi o minacce militari. Siamo di fronte a una strana coppia di contendenti, entrambi artefici della globalizzazione e dotati di sistemi produttivi, finanziari e commerciali ormai reciprocamente integrati. Nulla di paragonabile allo schema della Guerra Fredda, nel quale ogni potenza aveva un circuito economico quasi del tutto indipendente dall’altro. Per questo una doppia politica fa comodo a tutti. L’ipocrisia continuerà a regnare a lungo sul piano multilaterale, tra le sorridenti foto di riti scattate quando si annunciano nuovi traguardi collettivi e la fredda realtà dei fatti che emerge quando si va a verificare se quelle promesse siano state effettivamente mantenute.

La caduta della dinastia Assad rimette in discussione l’assetto geopolitico del Medio Oriente, ma l’instabilità mediorientale non è certo una novità. Da decenni la regione è caratterizzata dalla volatilità delle alleanze: dei tempi dei nazionalisti laici panarabi non resta ormai quasi nulla. Proprio la fine del potere degli Assad chiude la storia del Baath, il partito panarabo radicato in Iraq e Siria che avrebbe dovuto modernizzare questi Paesi, perseguendone gli interessi nazionali dopo l’epoca coloniale. In realtà, entrambi i governi del Baath divennero macchine di corruzione e repressione, al servizio della famiglia Assad in Siria e di Saddam Hussein in Iraq. La loro agonia ha trascinato i due Paesi in lunghi conflitti, non solo intestini ma anche con altri Stati, con la partecipazione diretta di potenze mondiali e regionali, e ha favorito l’affermazione dell’“asse sciita” con a capo Teheran. Così viene chiamato il lungo corridoio geografico costruito pezzo su pezzo dall’Iran che, passando attraverso Iraq e Siria, si estende dallo Yemen fino al Libano e al Mediterraneo: una novità per il mondo musulmano dove gli sciiti, anche se maggioranza in due Paesi importanti come Iraq e Iran, sono stati quasi sempre marginali negli equilibri regionali.

L’ultima “acquisizione” dell’Iran era stata l’intestazione della lotta di liberazione palestinese, ottenuta offrendo supporto ad Hamas, emanazione sunnita dei Fratelli Musulmani egiziani, che pure sono teoricamente nemici di Teheran. Ed è stata forse quella mossa politica, potenziata dalla strage del 7 ottobre, che ha spinto Israele non soltanto a prendere il controllo di Gaza, con una rappresaglia che si è trasformata in una delle più grandi carneficine di innocenti degli ultimi decenni, ma anche a intraprendere una serie di azioni volte a scardinare l’asse sciita. Prima colpendo militarmente Hezbollah in Libano, e cioè la lunga mano di Teheran ai confini settentrionali del Paese, poi favorendo la conclusione della guerra civile in Siria, durata quasi 15 anni. L’offensiva lampo condotta dal gruppo salafita Hayat Tahrir al-Sham, già parte della rete di al-Qaeda e fortemente dipendente dalla Turchia, è stata preparata per tempo. In parte sfruttando il ritorno in Libano di molti combattenti di Hezbollah che in precedenza operavano in Siria e il richiamo dei soldati russi spediti al fronte ucraino, in parte intessendo un grande accordo politico per il dopo-Assad. Accordo al quale hanno partecipato Turchia, USA e Arabia Saudita.

Non era mai accaduto, nelle passate rivolte e rivoluzioni mediorientali, che il primo ministro del regime sconfittonon solo non fosse giustiziato, ma addirittura conservasse il proprio ruolo ad interim fino alla nomina del suo successore, come accaduto in Siria a Mohammed Ghazi al-Jalali. Già nei video dell’assalto alla dimora di Assad si può cogliere una netta differenza con altre situazioni analoghe: abiti e suppellettili vengono rimossi quasi con delicatezza, senza nemmeno sporcare il pavimento. Come se tutto fosse stato ben organizzato, compresa le rassicurazioni a cristiani e alauiti sul rispetto delle minoranze. E a una regia attenta fanno pensare anche la copertura aerea statunitense che ha supportato l’offensiva dei ribelli e i blitz di quella israeliana, che prima ha colpito le basi di Hezbollah in Siria e poi i luoghi più intimi e rappresentativi del potere degli Assad, a dimostrarne la vulnerabilità.

Per la Russia e l’Iran è stata una sconfitta senza mezzi termini. Gli interessi di Mosca ora si riducono al mantenimento della base militare di Tartus, per l’Iran invece l’insediamento di un governo ostile in Siria compromette la strategia libanese e, di conseguenza, anti-israeliana. I siriani oggi festeggiano la caduta del regime criminale di Assad, ma il loro futuro è ancora incerto. Joe Biden può mettersi una medaglietta al petto, Israele ottiene una vittoria sull’Iran, la Turchia assume un ruolo ancora più importante in Medio Oriente e nel Mediterraneo. Questo il bilancio di un’offensiva durata solo 12 giorni ma che inciderà a lungo sugli equilibri di tutta la regione.

L’autogolpe tentato dal presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, con motivazioni incomprensibili, si iscrive in una lunga tradizione di tentativi di prevaricazione estrema dell’esecutivo sul legislativo nelle democrazie deboli, ma non solo. In Perù è successo due volte negli ultimi tre decenni, la prima volta, riuscita, con Alberto Fujimori nel 1992, la seconda, fallita, nel 2022 con Pedro Castillo. Tornando più indietro nel tempo, nel 1973 la dittatura militare in Uruguay era iniziata con l’autogolpe del presidente democratico Bordaberry. In tutti questi casi, la minaccia paventata era quella del terrorismo, vero o presunto, sia in versione Sendero Luminoso o Tupamaros, sia in versione nordcoreana. Ma i tentativi di chiudere i conti in modo radicale con il Parlamento si è manifestato anche aizzando la folla perché irrompa nelle aule parlamentari affinché non venga ad esempio confermata l’elezione di un nuovo presidente, come abbiamo visto a Capitol Hill nel 2021 e a Brasilia nel 2023. Sia Donald Trump sia Jair Bolsonaro hanno negato di essere responsabili di cosa avevano fatto i loro sostenitori, anche se le inchieste giudiziarie smentiscono entrambi. La radice di queste frizioni, che possono diventare in taluni casi veri e propri tentativi di colpo di Stato, risiede nella costruzione contemporanea della leadership. Sempre di meno il capo di Stato, nei paesi dove questa viene scelta direttamente dal corpo elettorale, sopporta che un potere legislativo, che magari non controlla, possa ostacolare la sua azione. È la consueta parabola dell’uomo solo al comando, che diventa sempre più tossica per la democrazia. L’ascesa di leadership carismatiche, anche grazie ai social media, crea l’illusione che effettivamente quella persona, da sola, possa governare senza ostacoli. Nella complessa macchina dello Stato e dei rapporti tra i poteri invece questo non è quasi mai vero. Per questo Milei in Argentina non ha eliminato la moneta locale come promesso e Trump non è riuscito a finire il muro che separa il suo paese dal Messico. Avrebbero potuto farlo in un paese come la Russia o l’Iran, dove il regime al potere non deve rendere conti a nessuno e parlamento e giustizia sono sottomessi all’esecutivo. La diffusione della tecnica dell’autogolpe, annunciato o eseguito, è un ulteriore imbarbarimento della vita politica, un gradino in più rispetto alle democrazie illiberali dell’Europa dell’Est. Qui non si tratta soltanto, e già non è poco, di zittire la stampa e le ONG o condizionare il potere giudiziario, ma di tentare il controllo del legislativo con la forza, chiudendolo quando non si adegua ai desiderata del capo. Chi non accetta le regole del gioco non dovrebbe giocare, si potrebbe concludere, ma ovviamente nessuno di questi aspiranti autocrati dichiara le sue intenzioni prima di essere eletto, anche se quando tentano di forzare la mano, usano come alibi l’essere stati legittimati dal popolo.  

Una dopo l’altra, le tradizioni consumistiche create dagli inventori di eventi commerciali sono diventate ricorrenze mondiali. Negli Stati Uniti, la spettacolarizzazione dell’evento commerciale allo scopo di indurre ad aumentare i consumi ha una lunga storia. Si sono perfino cambiati i simboli e la natura stessa di importanti feste tradizionali, per esempio trasformando Babbo Natale in un testimonial della Coca-Cola, oppure facendo dell’antica celebrazione celtica di Halloween il momento clou dell’anno per i produttori di maschere horror e dolciumi. Ma il massimo lo si è raggiunto negli anni ’50 con l’invenzione del cosiddetto Black Friday, ricorrenza puramente commerciale: “cade” il giorno successivo alla Festa del Ringraziamento, quando gli statunitensi dovrebbero ricordare e ringraziare i nativi amerindi che salvarono i padri pellegrini da un inverno altrimenti destinato a cancellarli dal Nuovo Mondo, insegnando loro a coltivare mais e allevare tacchini. È un paradosso della storia, i salvatori non solo sono stati eliminati fisicamente, ma sono anche scomparsi dalla memoria collettiva: quasi nessuno sa che il giorno del Black Friday sarebbe anche il Native American Heritage Day.

Il Black Friday segna ufficialmente l’apertura delle vendite natalizie, con una logica rovesciata rispetto all’Europa: da noi i saldi si fanno alla fine della stagione, negli Stati Uniti all’inizio. Pare che l’aggettivo “nero” che colora questa giornata sia dovuto all’imbottigliamento del traffico che si produsse a Filadelfia in una delle sue prime edizioni. Oggi la sagra del consumo dura più di un fine settimana, si conclude infatti con il Cyber Monday, dedicato al mondo dell’informatica, e ha raggiunto confini globali. Non c’è nessuna particolare affinità culturale, sociale o politica che accomuni i consumatori dei vari Paesi che si lanciano alla ricerca di offerte nei negozi o su internet: è la sublimazione del consumo puro ed effimero, indotto e trasversale a ogni altra categoria.

Idealmente, il Black Friday è anche complementare alle strategie di “invecchiamento precoce” dei prodotti elettronici. Smartphone, computer, tablet sono progettati per non durare più di tanto e, soprattutto, in modo che non sia facile o conveniente ripararli. Se questi (e altri) beni non devono avere una vita lunga, ecco che il Black Friday e il Cyber Monday divengono acceleratori del ricambio. Solo molto recentemente si è cominciato a mettere in discussione la cosiddetta “obsolescenza programmata”, ma ancora senza intaccare un ciclo di consumi sempre più veloce, che non vuole fare i conti né con la limitatezza delle risorse naturali né con i problemi ambientali legati alla produzione e allo smaltimento delle merci. È una corsa antica che ormai ha superato ogni limite, per quanto la retorica aziendale faccia un uso indiscriminato dell’aggettivo “sostenibile”.

Per un weekend, il Black Friday riesce a cancellare i sensi di colpa anche dei consumatori minimamente consapevoli perché, alla fine, la tentazione di fare il classico “affarone” diventa irresistibile.

Per tutte queste ragioni, il Black Friday è la festa consumistica che meglio racconta i nostri tempi. Una volta si era più poveri e si consumava molto meno, ma non c’era solo un’austerità obbligata: c’era anche una scala di valori che rifiutava lo spreco, a partire da quello alimentare, e lo scarto di beni che potevano ancora essere utili. Gli oggetti vivevano a lungo, accompagnavano intere esistenze e spesso si tramandavano da una generazione all’altra. Quale nostro oggetto di consumo potrà essere utilizzato da un nostro figlio? Probabilmente nessuno. L’ex presidente dell’Uruguay José “Pepe” Mujica ha detto qualche anno fa: «Quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli». E il tempo di ciascuno di noi, quello che spesso dilapidiamo, è la misura della nostra libertà.

Negli ultimi dieci anni, il caffè e il cacao hanno registrato una crescita straordinaria, non solo come merci, nei prezzi e nei valori di scambio, ma anche come fenomeni culturali e motori di sviluppo economico. La loro crescente popolarità è alimentata dalla continua evoluzione dei gusti dei consumatori e, insieme, dagli impegni per la sostenibilità e da nuove strategie di mercato. Il consumo di caffè ha subito una trasformazione, bere un espresso non è più un semplice gesto finalizzato a darsi la “carica” ma è diventato esperienza sofisticata. Quello cosiddetto “premium”, ottenuto da chicchi di alta qualità con meticolosi metodi di estrazione, dai profili aromatici unici, sta diventando sempre più rilevante. La generazione dei Millennials e la Gen Z, ponendo grande enfasi sull’autenticità e sull’esperienza, hanno aumentato la domanda di caffè monorigine, ma anche di pratiche sostenibili e tostature artigianali. Di conseguenza, la cultura globale del caffè si è diversificata notevolmente. Le caffetterie non propongono più solo una tazza di caffè ma viaggi sensoriali, con baristi che agiscono come guide nella scoperta dei sapori.

Questo approccio ha elevato lo status del caffè, trasformandolo in un simbolo di artigianalità e creatività. E con lo status sono saliti anche i prezzi, per i consumatori così come per i produttori: nell’ultimo biennio, complice anche il cambiamento climatico, il prezzo pagato per la materia prima si è triplicato. Sul fronte economico, il caffè rimane una fonte di sostentamento per milioni di agricoltori nei Paesi emergenti e in via di sviluppo, soprattutto in America Latina e Africa. Stati come Brasile, Colombia, Vietnam ed Etiopia hanno aumentato la produzione, mentre i produttori più piccoli stanno ritagliandosi nicchie puntando su chicchi “unici”. Le imprese sociali continuano a promuovere il commercio equo, attirando consumatori etici e migliorando le condizioni di vita degli agricoltori.

L’ascesa del cacao segue quella del caffè e ne ricalca il percorso di “premiumizzazione”. Il cioccolato di qualità, realizzato con cacao pregiato e tecniche spesso innovative, sta guadagnando popolarità: i consumatori sono sempre più consapevoli della complessità dei sapori e attenti alle origini della materia prima. Come i caffè, anche i cioccolati monorigine sono diventati un biglietto da visita per tutto il settore. Intanto, i cioccolatieri artigianali stanno sperimentando combinazioni di sapori uniche e creano prodotti di lusso: che si tratti di un fondente arricchito con spezie esotiche o di una tavoletta al latte con l’aggiunta di un pizzico di sale marino, queste offerte soddisfano un pubblico esigente disposto a pagare un prezzo più alto. L’industria del cacao, però, è stata oggetto di critiche per il degrado ambientale causato dalle colture e per le pratiche di lavoro non etiche. In risposta, grandi aziende e produttori più piccoli stanno adottando certificazioni di sostenibilità come Fair Trade e Rainforest Alliance, ma restano per ora inefficaci le iniziative per combattere il lavoro minorile, migliorare i salari e promuovere l’agroforestazione, soprattutto in Africa, dove si concentra la maggior produzione delle fave di cacao.

Caffè e cacao sono sempre più intrecciati con la nostra cultura e la nostra identità. Il loro futuro è garantito, ma non privo di sfide. Innovazioni continue, unite a pratiche etiche e sostenibili, ne definiranno il percorso. Tuttavia, restano d’attualità due problemi: la deforestazione che precede l’allargamento delle piantagioni in Paesi della fascia climatica tropicale e il prezzo effettivo incassato dal produttore, tema che si lega a quello del lavoro mal retribuito e dell’impiego di minori, soprattutto in Africa. Per ora, questi due prodotti raffinati e di gran moda, per noi d’uso quotidiano, rimangono molto lontani dal poter essere considerati sostenibili per l’ambiente e per le comunità agricole dei produttori.

I rapporti tra Europa e Africa risalgono alla notte dei tempi, a quando cioè i primi sapiens originari dal continente africano colonizzarono quella che oggi chiamiamo Europa. Rapporti storicamente sempre molto stretti, spesso di scontro, con il mar Mediterraneo al centro. La svolta nelle relazioni tra i due continenti avviene con il colonialismo, prima con la tratta degli schiavi gestita dalle potenze europee, che deportano milioni di africani in America, e successivamente durante la “corsa all’Africa” della fine del XIX secolo, che vede Stati come Regno Unito, Francia, Belgio, Italia e Germania stabilire colonie più o meno estese in tutto il continente. Da allora, per decenni l’Europa ha sfruttato le risorse naturali dell’Africa, controllato i suoi sistemi politici e imposto cambiamenti culturali, impattando profondamente sulla sua struttura socio-politica.

Oggi, però, il rapporto tra Africa ed Europa sta attraversando un cambiamento significativo, caratterizzato da un costante declino dell’influenza europea (e più in generale occidentale). Diversi fattori contribuiscono a questa trasformazione, dal mutare delle dinamiche di potere globali all’aumento del sentimento anticoloniale in Africa, dall’espansione di partnership alternative a quelle con i Paesi europei all’emergere di una leadership africana decisa a promuovere l’indipendenza economica. Infatti, nonostante la narrazione della stampa attribuisca il declino dell’influenza europea quasi solo alla forte presenza russa e soprattutto cinese, non va sottovalutato il ruolo della nuova generazione di leader e intellettuali africani, sempre più lontana – anche per ragioni generazionali – dal retaggio culturale delle colonie. In diversi Paesi dell’Africa occidentale e centrale, come Mali, Burkina Faso, Guinea e Ciad, la presenza europea è stata messa in forte discussione. I presìdi militari francesi, inizialmente accolti con favore dai governi della regione per combattere il terrorismo jihadista, sono diventati elemento di tensione, poiché le popolazioni locali li percepiscono sempre più come una perpetuazione del controllo coloniale. Questo sentimento si riflette in una generalizzata richiesta di rimpatrio delle truppe francesi, nel rifiuto della moneta post coloniale, ossia il franco CFA, e nello smantellamento delle istituzioni educative e culturali francesi.

Negli ultimi decenni, nuovi attori globali hanno fatto il loro ingresso nei panorami economici e politici dell’Africa, in particolare Cina e India, che si sono ormai affermate come importanti partner economici. Nel 2022 l’Asia è stata la destinazione del 32% dell’export africano mentre l’Europa ne ha assorbito solo il 23,5%. Cifre analoghe si riscontrano nell’import, il 32% proviene dall’Asia, il 23% dall’Europa. Si tratta di un sorpasso storico: per oltre due secoli tutti i principali partner economici dell’Africa sono stati Paesi europei; ancora trent’anni fa, il 50% circa degli scambi commerciali africani avveniva con l’Europa. L’approccio della Cina, caratterizzato da consistenti investimenti in infrastrutture, ha offerto ai governi africani opzioni di finanziamento senza l’imposizione delle condizioni tipiche degli aiuti europei. Altri Stati, come Turchia e Russia, stanno aumentando il loro coinvolgimento nel continente focalizzandosi sull’assistenza allo sviluppo nel caso turco, sulla sicurezza nel caso russo. Altro tassello nella ricerca di autonomia da parte dell’Africa è stata la ratifica del Trattato di Libero Commercio Continentale Africano (AfCFTA), che mira a creare un mercato unico in tutto il continente.

L’Europa fatica a adattarsi a queste nuove dinamiche. Per molti Paesi europei, le pratiche tradizionali di aiuto e commercio sono così radicate nei quadri di politica estera da rendere difficile la transizione verso un modello più equo e orientato alla partnership. Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha cercato di ridefinire il suo rapporto con l’Africa attraverso iniziative come il Partenariato UE-Africa, enfatizzando la cooperazione in materia di migrazione, sicurezza e sviluppo sostenibile. Questi sforzi, però, spesso sono visti con scetticismo dagli africani, che non li considerano sufficientemente discontinui rispetto dalle pratiche neocoloniali del passato. Di certo, mentre l’Africa ridefinisce la sua posizione sulla scena globale, anche la natura del suo rapporto con l’Europa è destinata a evolversi. Con ogni probabilità i Paesi europei rimarranno partner sia economici sia diplomatici, tuttavia dovranno passare da un approccio paternalistico a uno di autentica partnership se vorranno rimanere rilevanti. I concorrenti non mancano e sono già ben presenti sul campo. 

Se non fosse tragico sarebbe comico. Secondo l’ultimo report della Banca Mondiale, l’obiettivo delle Nazioni Unite di dimezzare la povertà entro il 2030 è ormai irraggiungibile. E chi lo avrebbe mai detto? Il libro dei sogni dell’ONU sul raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile si dimostra per quello che è sempre stato: un insieme di indicazioni ovvie e scontate che prescindono dalle politiche, dalle dinamiche globali, dagli effetti dei cambiamenti climatici e perfino dalla storia. Quando si scrive, ad esempio, che entro il 2030 si dovranno assicurare a tutte le persone uguali diritti all’accesso ai servizi di base e alle risorse economiche, senza spiegare come né con quali strumenti, si vende solo aria fritta. E infatti il report della Banca Mondiale ci dice che le cose stanno andando in modo ben diverso. In pratica, nella lotta alla povertà si è perso un decennio: anziché diminuire, l’indigenza è aumentata, soprattutto dopo la pandemia. Oggi circa 700 milioni di persone, l’8,5% dell’umanità, vivono con meno di 2,15 dollari al giorno, soglia di povertà estrema; più del 40% della popolazione globale è tecnicamente povero, avendo un reddito inferiore a 7 dollari al giorno. I 26 Paesi più poveri, che ospitano il 40% di tutti gli indigenti del mondo, sono anche tra gli Stati più indebitati. Secondo lo studio, per eliminare la povertà bisognerebbe garantire un reddito di almeno 25 dollari a persona al giorno, pari allo standard minimo di prosperità: significa quintuplicare il reddito medio mondiale. Nel report, come ulteriore fattore peggiorativo è stato valutato l’impatto dei cambiamenti climatici in termini di impoverimento del mondo agricolo e di aumento dei flussi migratori. Il panorama che ne esce non è sicuramente positivo. Una notizia parzialmente buona è invece la diminuzione, nell’ultimo decennio, dei Paesi con marcate disuguaglianze economiche, problema che però coinvolge ancora 1,7 miliardi di persone, soprattutto in America Latina e Africa subsahariana.

Nel complesso, i dati dimostrano dunque che non si è fatto nulla di concreto per raggiungere gli obiettivi stabiliti dall’Agenda 2030. La pandemia ha messo in luce l’estrema vulnerabilità dei poveri in Paesi dove il sistema sanitario pubblico è inesistente o troppo precario per farsi carico di un’emergenza. Lo stesso vale per l’impatto del cambiamento climatico, che ha esiti diversi sul reddito degli agricoltori dei Paesi che sovvenzionano la produzione, e coprono i danni, di quelli che lavorano dove gli Stati sono soltanto entità nominali. Discorso identico si può fare sui sistemi scolastici impoveriti e sull’accesso delle donne all’istruzione, ancora difficile in molti contesti. Sono troppe e troppo profonde le disparità economiche, che intersecano quelle di genere e ambientali, tra i diversi Stati della Terra. Proprio per questo le ricette generaliste sono parole al vento.

Nel report della Banca Mondiale c’è un capitolo dedicato a come porre rimedio al quadro fallimentare appena descritto. Qui, ancora una volta, si scrivono parole di buon senso che nessuno disapproverebbe, ad esempio “per ridurre la povertà è quindi necessaria una crescita economica sostenibile, a più basso impatto di gas serra. […] I Paesi più poveri dovrebbero investire nella creazione di posti di lavoro, nel capitale umano e nelle infrastrutture”. Tutto bello, ma allo stato dell’arte queste parole e questi consigli lasciano il tempo che trovano. Con le parole e le banalità non si sono mai cambiate le cose: purtroppo, gli enti multilaterali che dovrebbero guidare un cambiamento nel mondo sono prigionieri di ricette miracolose che funzionano soltanto nella letteratura fantasy.

In un’economia globalizzata, la ricerca della cosiddetta “ottimizzazione della ricchezza” porta spesso individui e aziende a frequentare un mondo poco noto ma molto influente: quello dei paradisi fiscali. Non sono solo isole esotiche ma anche Paesi europei, come Irlanda, Lussemburgo, Svizzera e Paesi Bassi, tutti citati nella Top 10 stilata dal Tax Justice Network nel suo report più recente. Ne fanno parte anche tre territori dipendenti dal Regno Unito: le Isole Vergini, le Cayman e le Bermuda. Un paradiso fiscale è caratterizzato in primo luogo da tasse basse o nulle, facilità di creazione di entità legali e di sistemi, soprattutto bancari e finanziari, difficili da penetrare per le autorità straniere. Funziona attraverso reti intricate di società di comodo, trust e conti offshore: tutto è tecnicamente legale, ma è progettato per sfruttare le lacune nella normativa fiscale internazionale.

La natura più segreta dei paradisi fiscali è stata portata alla ribalta globale da una serie di fughe di notizie iniziata con i Panama Papers del 2016: una raccolta di 11,5 milioni di documenti riservati che riguardavano politici, celebrità e magnati, protagonisti di schemi di evasione fiscale offshore. Nel 2017 una nuova fuga di notizie, quella dei Paradise Papers, ha rivelato il ricorso a paradisi fiscali offshore da parte di alcune delle più ricche multinazionali, tra cui Apple, Nike e Uber, oltre a figure pubbliche come la regina Elisabetta II. Più recentemente, i Pandora Papers del 2021 hanno evidenziato come le élite continuino a nascondere enormi quantità di ricchezza. Secondo stime attendibili, fino a 32 trilioni di dollari sarebbero “parcheggiati” in centri finanziari offshore, privando i governi di importanti entrate fiscali. Queste rivelazioni hanno riacceso il dibattito sul ruolo dei paradisi fiscali nelle diseguaglianze globali: mentre i ricchi e le grandi aziende ricorrono a giurisdizioni privilegiate per eludere i loro obblighi con il fisco, i contribuenti ordinari sono costretti a farsi carico delle voragini che si aprono nelle casse pubbliche.

Forse l’uso più sistematico dei paradisi fiscali è quello che ne fanno le maggiori multinazionali. Alcune delle più grandi e redditizie aziende al mondo, come la già citata Apple, Google, Amazon e Facebook, sono state accusate di aver creato strutture fiscali complesse proprio per spostare i profitti verso giurisdizioni a bassa tassazione, riducendo così in modo significativo le loro passività fiscali nei Paesi in cui effettivamente operano. Lo strumento più gettonato in Europa è il cosiddetto “Double Irish with a Dutch Sandwich”, una triangolazione che sposta i profitti tra sussidiarie irlandesi e olandesi prima di farli confluire verso paradisi fiscali caraibici. Per porre un limite a questo gioco sporco, l’OCSE ha promosso un accordo fiscale globale, sottoscritto dai Paesi del G7, che impone un’aliquota minima del 15% sui profitti. Tuttavia, i critici sostengono che questa misura, pur costituendo un passo nella giusta direzione, non è sufficiente per affrontare i problemi posti dai paradisi fiscali, soprattutto per i Paesi del Sud globale che sono colpiti in modo proporzionalmente più pesante dalla fuga di capitali verso giurisdizioni offshore. Secondo le Nazioni Unite, ogni anno i Paesi in via di sviluppo perdono circa 100 miliardi di dollari a causa dell’evasione o elusione fiscale delle multinazionali. Queste perdite per molti Stati poveri rappresentano una parte significativa del PIL e aggravano l’ineguaglianza, drenando risorse che potrebbero essere utilizzate per erogare servizi ai cittadini.

I paradisi fiscali sono così diventati un campo di battaglia nella lotta per la giustizia economica. Tuttavia, i sistemi finanziari dei paradisi fiscali sono profondamente radicati e molti Paesi hanno un interesse diretto a mantenere lo status quo. Inoltre, la complessità delle leggi fiscali internazionali fa sì che anche le riforme animate da buone intenzioni possano essere facilmente aggirate.

Il mondo diventa sempre più interconnesso, gli scambi finanziari e il dibattito sui paradisi fiscali continueranno a evolversi, ma la domanda rimane la stessa: l’economia mondiale, che ha prosperato su questi meccanismi, potrebbe sopravvivere all’equità fiscale? La risposta non è scontata, e potrebbe cambiare il futuro della globalizzazione.

La definizione “Sud globale” è sempre più utilizzata nel linguaggio comune, la stampa ne fa ampio uso quando si parla di politica o di economia, ma il suo significato e le sue implicazioni restano poco chiari. In senso lato, con “Sud globale” ci si riferisce a tutte le regioni del mondo che sono state storicamente relegate ai margini dei sistemi economici globali: dunque l’America Latina, l’Africa e gran parte dell’Asia. Moltissimi Stati, dunque, che condividono una storia di colonialismo, sottosviluppo economico e, in molti casi, instabilità politica. Il concetto di Sud globale non è dunque solo geografico ma anche e soprattutto socio-economico, e spesso comprende questioni di disuguaglianza, dinamiche di potere e governance. L’espressione, insieme a quella simmetrica di Nord globale, si è affermata nella seconda metà del XX secolo per descrivere sinteticamente la divisione tra Paesi ricchi e industrializzati (Nord) e Paesi più poveri e meno sviluppati (Sud), sostituendo definizioni ormai obsolete come “Terzo Mondo” o “Paesi in via di sviluppo”, viste come poco rispettose e troppo semplicistiche. Il limite di entrambe le definizioni – Nord e Sud globale – è che a un primo impatto suggeriscono una distinzione geografica, mentre fanno riferimento soprattutto alle condizioni socio-economiche e alle esperienze storiche delle regioni che vi rientrano. Per fare un esempio banale, Australia e Nuova Zelanda si trovano nell’emisfero meridionale ma sono generalmente considerate parte del Nord globale in virtù dei loro alti livelli di ricchezza e sviluppo; discorso contrario vale per diversi Stati dell’Africa centro-settentrionale e dell’America centrale, regione che fa geograficamente parte dell’emisfero settentrionale.

Le radici comuni dei Paesi del Sud globale sono dunque da cercare nella storia del colonialismo che ha fortemente segnato gran parte dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Le economie dei territori colonizzati venivano infatti organizzate allo scopo di favorire lo sviluppo degli Stati colonizzatori piuttosto che le popolazioni locali; perciò, dopo aver ottenuto l’indipendenza, molte di queste nazioni si sono ritrovate economicamente svantaggiate, con infrastrutture deboli, capacità industriale limitata e alti livelli di povertà. Di conseguenza, il Sud globale è rimasto caratterizzato dalla dipendenza dal Nord globale per quanto riguarda gli scambi commerciali, lo sviluppo tecnologico e gli investimenti.
Nel Sud globale rientrano Paesi tra loro inevitabilmente eterogenei, che tuttavia condividono alcune caratteristiche che li differenziano da quelli del Nord, ad esempio le elevate disparità economiche, gli alti tassi di povertà, l’instabilità economica e la dipendenza dalle esportazioni di materie prime e prodotti agricoli. Mentre nel Nord globale le economie sono spesso diversificate, quelle del Sud sono più vulnerabili alle fluttuazioni del mercato internazionale, agli shock dei prezzi delle materie prime e alle crisi del debito estero. Altro tratto comune sono le disuguaglianze sociali pronunciate, le disparità di reddito, di istruzione, di assistenza sanitaria e di accesso alle risorse. Importanti sono anche i problemi di governance, con istituzioni deboli, alti livelli di corruzione e talvolta regimi autoritari. A tutto ciò si aggiunge una maggiore vulnerabilità agli effetti del cambiamento climatico, nonostante questi Stati abbiano contribuito meno degli altri alle emissioni globali di gas serra. E molti di questi Paesi mancano delle risorse finanziarie e delle infrastrutture tecnologiche necessarie per adattarsi a queste sfide e mitigare le conseguenze del riscaldamento globale.

La globalizzazione ha avuto un impatto profondo sul Sud globale. Da un lato, ha offerto opportunità di crescita e sviluppo grazie all’accesso ai mercati internazionali, agli investimenti esteri e alla tecnologia. Molti Stati asiatici, ad esempio, grazie alla globalizzazione hanno vissuto una rapida industrializzazione e crescita economica. D’altro canto, la globalizzazione ha anche approfondito le disuguaglianze tra i Paesi e al loro interno: alcune regioni del Sud globale, in particolare nell’Africa subsahariana, sono state lasciate indietro, incapaci di competere nel mercato mondiale a causa di infrastrutture sottosviluppate, mancanza di tecnologia e cattiva governance. In campo internazionale, il Sud globale si trova spesso in una posizione di svantaggio: istituzioni come l’ONU, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono dominate dal Nord, e le loro politiche riflettono spesso gli interessi di quelle nazioni. Successivamente, la nascita della coalizione G77 e del gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) ha dato al Sud globale una voce più forte negli affari internazionali.

Sebbene rimanga utile per evidenziare le disuguaglianze a livello planetario, il concetto di Sud globale non è immune alle critiche. Alcuni sostengono che appiattisca e semplifichi eccessivamente le esperienze diverse dei Paesi che vi rientrano. Ad esempio, Cina e India sono importanti attori economici globali, mentre altri Stati, come quelli dell’Africa subsahariana, rimangono poverissimi. Inoltre, all’interno dei Paesi del Sud globale esistono significative differenze regionali, etniche e di classe che il termine non cattura.

In sintesi, il concetto di Sud globale è uno strumento utile per comprendere la disuguaglianza tra e nei Paesi del mondo ed evidenziare l’eredità del colonialismo, ma non è privo di limiti, perché riunisce sotto un’unica etichetta una gamma diversificata di Stati con esperienze differenti. Se però la si usa in modo consapevole, rimane l’espressione più efficace per evidenziare le sfide persistenti della povertà, della disuguaglianza e della marginalizzazione politica in un mondo in cui la distribuzione del potere e delle risorse rimane profondamente diseguale.