40 minuti di dignità

Pubblicato: 16 novembre 2011 in Mondo
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40 minuti non sono molti, sono meno di un tempo di una partita di calcio. Ma nel mondo in tempesta che stiamo vivendo, 40 minuti potrebbero cambiare la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 30 anni. Dallo scorso 17 ottobre, 1300 operai cinesi dell’impianto di Shenzhen della multinazionale nipponica Citizen, la stessa azienda che da mesi riempie i giornali italiani spiegando come i suoi orologi siano ecologici, sono in sciopero.

Uno sciopero che formalmente non esiste, perché in Cina, da quando è entrata in vigore la costituzione del 1982, l’astensione dal lavoro per protesta non è più un diritto riconosciuto: se i lavoratori decidono di incrociare le braccia, c’è addirittura un regolamento interno del Partito comunista che sanziona i funzionari responsabili della giurisdizione. In realtà quando sono coinvolte aziende private si tende a chiudere un occhio, ed è per questo che negli ultimi anni si sono succeduti diversi scioperi che hanno coinvolto imprese straniere, spesso conclusisi con la vittoria degli operai.

La negazione del diritto allo sciopero è stata una delle misure grazie alle quali la Cina si è “aperta” con successo all’investimento straniero, mettendo sul piatto il basso costo della manodopera, le esenzioni fiscali e, appunto, una classe operaia “mansueta”. Un pacchetto di durata decennale, quindi ormai scaduto per le numerose multinazionali che hanno aperto i propri impianti nel periodo d’oro delle delocalizzazioni.

La Citizen, per esempio, era nel mirino dei suoi operai da anni, perché sospettata di non versare quanto dovuto al fondo pensionistico aziendale. A ciò si è aggiunta, fin dal 2005, la decurtazione dal salario dei dipendenti dell’equivalente di 40 minuti giornalieri per “compensare” le pause trascorse nei bagni. Questa logica, che in Cina non stupiva negli anni in cui l’obiettivo primario era attirare capitali, ora non può più essere tollerata: per gli operai, con la decurtazione dei 40 minuti si è passato il limite. Alla fine l’azienda degli eco-orologi che si caricano con la luce ha dovuto riconoscere il diritto al bisogno fisiologico, ma non è riuscita a riconquistare i suoi operai, che chiedono anche un aumento degli stipendi (vicini alla soglia della sopravvivenza).

Quella dell’impianto della Citizen a Shenzhen è soltanto l’ultima della lunga serie di proteste che quest’anno si sono scatenate nelle province più industrializzate del Paese, quelle del Sudest: motivi del malcontento, i bassi salari e le pesanti condizioni di lavoro. In questi mesi hanno dovuto fronteggiare gli scioperi anche imprese che lavorano per Honda, Kentucky Fried Chicken, Adidas e Apple.

L’atteggiamento tenuto dal governo oscilla generalmente tra il tentativo di trovare una composizione e “mantenere l’armonia”, una certa enfasi data alle proteste che coinvolgono società straniere, e l’adozione di misure repressive in altri casi. La causa scatenante della protesta è l’inflazione (attorno al 6%), che ha effetti pesanti su chi percepisce stipendi modesti. È interessante notare, però, che le rivendicazioni non mirano soltanto all’aumento della busta paga, ma mettono in discussione l’organizzazione e i ritmi di lavoro.

Una classe operaia cinese che diventa protagonista di una nuova stagione dei diritti sindacali non era stata messa nel copione della globalizzazione, e gli effetti potrebbero essere travolgenti. A lungo si è teorizzato che la globalizzazione avrebbe inesorabilmente spinto al ribasso i diritti di tutti: in ogni Paese sono stati modificate le condizione di lavoro, precarizzando e deregolamentando, per fare fronte ai famosi bassi costi della manodopera del gigante asiatico. Forse non è fantapolitica immaginare che alla guida della lotta contro la precarietà e per la dignità del lavoro presto ci saranno gli operai cinesi, quelli che oggi cominciano a dire basta. Se così sarà, la lotta dei dipendenti della Citizen sarà ricordata a lungo, per molto più di 40 minuti.  Alfredo Somoza

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