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Quando gli chiedevano come poteva sintetizzare la sua vita rispondeva con il titolo della canzone di Violeta Parra “Gracias a la Vida”. José Alberto Mujica Cardano, il Pepe, come nella canzone di Violeta Parra voleva ringraziare la vita che le aveva dato tanto. Da giovane ribelle che negli anni ’60 aveva scelto la lotta armata per cambiare il mondo con i Tupamaros, al prigioniero politico, torturato e usato come ostaggio dei militari per ben 12 anni. Da Mujica tornato libero che collabora alla svolta che porterà le sinistre per la prima volta al potere fino al senatore, a Ministro dell’Agricoltura e infine a Presidente dell’Uruguay. Un politico che non ha mai barattato i suoi principi, che è stato sempre un contadino prestato alla politica, un uomo che dell’austerità ha fatto un principio inderogabile. Perché il Pepe è stato uno degli ultimi esponenti di una cultura antica, quella del gaucho della Pampa. Gente di poche parole, di principi ferrei, di acuta intelligenza pragmatica, abituati alle avversità e alla solitudine. Come quella forzata inflitta dai militari a Mujica per 12 anni, tenendolo in isolamento fino a quasi farlo impazzire. Ed è stato in quelle drammatiche circostanze, per le quali non cercò mai vendetta, che Mujica imparò a vivere dell’essenziale, ma sul serio, e soprattutto a dare valore al tempo. Per Mujica il consumismo era una trappola soprattutto perché i soldi che usiamo per consumare cose superflue sono stati pagati con il nostro tempo. Tempo sottratto agli affetti, all’osservazione, alla discussione, alla socialità. Merci in cambio di tempo di vita, la nuova schiavitù dalla quale bisogna liberarsi. E come? Tornando a vivere con l’essenziale e sostenendo uno stato che sappia garantire educazione e salute per tutti. Welfare e socialità, una caratteristica dell’Uruguay di altri tempi, paese di tradizioni laiche e socialdemocratiche e forgiato dall’immigrazione italiana fin dai tempi di Garibaldi. La sua presidenza ha lasciato all’Uruguay un sistema di sanità pubblica territoriale che ha retto lo shock della pandemia anni dopo, la liberalizzazione della marihuana che ha sottratto risorse alle mafie, la depenalizzazione dell’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma soprattutto il livello più basso nella storia del paese di disoccupazione, povertà e disuguaglianza.  Sul piano personale, fece molto scalpore che si fosse assegnato come presidente uno stipendio di soli 900 dollari, da lui ritenuto più che sufficiente per vivere decentemente. Così come il suo rifiuto dell’auto di stato, perché voleva continuare a guidare il suo vecchio maggiolino.

Questa è stata l’eredità politica e personale di José Pepe Mujica, forse l’unico politico in decenni che è rimasto dal primo all’ultimo giorno della sua carriera fedele ai principi in cui credeva, aggiornandoli ma mai per tornaconto personale. Lui diceva che il politico viene costantemente osservato dai cittadini, per questo deve restare uno di loro perché se invece trae profitto personale, si arricchisce, cede alle tentazioni fa anzitutto un danno alla repubblica, all’idea stessa di democrazia. Pepe Mujica era un uomo di altri tempi, ma la sua vita e il suo pensiero sono stati incredibilmente moderni e attuali.  Oggi la politica latinoamericana lo rimpiange, ma perora, ancora non c’è nessuno che abbia imparato dal suo esempio.

La fase declinante delle sinistre sudamericane è ricca di spunti utili per trarre lezioni e ragionare sul futuro della politica nelle periferie dell’Occidente. Un dato è ormai certo, dal Venezuela all’Argentina passando per il Brasile: i politici che avevano saputo gestire la fase di espansione dell’economia mondiale, generando impiego e instaurando modalità interessanti di redistribuzione del reddito, non hanno trovato gli strumenti adatti per gestire la crisi. La narrazione dello Stato al centro dell’economia si è infranta quando i governi hanno cominciato a doversi districare tra inflazione, recessione e aumento della disoccupazione. Ed è qui che sono venute alla luce le mancanze degli anni precedenti, il grandissimo deficit di riforme su temi che erano stati ignorati, o addirittura cavalcati in modi non sempre limpidi.

Presidenti che si erano contraddistinti sul piano dei diritti civili, ma che non avevano affrontato una riforma in senso progressivo del fisco né tagliato di netto la commistione tra politica e affari. Governanti che avevano garantito una maggiore sicurezza sociale a milioni di persone, ma che non avevano mai affrontato seriamente il groviglio drammatico del narcotraffico, che genera corruzione e insicurezza collettiva. Leader che avevano ribadito il valore della proprietà pubblica rispetto ai bagordi degli anni delle privatizzazioni “a prescindere”, ma che poi si sono foraggiati con le prebende garantite dal controllo delle aziende. Insomma, una stagione di riforme a metà. Riforme che, sotto l’impatto della recessione globale, oggi rischiano di essere vanificate, e in parte lo sono già. I voti di protesta in Argentina, in Bolivia e in Venezuela, il tentativo di rovesciamento dai contorni inquietanti della presidente brasiliana Rousseff, il rischio tangibile del ritorno di un Fujimori al governo del Perù spiegano complessivamente la crisi di un modello.

Esaurita la spinta propulsiva delle sinistre, il resto del quadro politico rimane però quello conosciuto e fallito nei decenni precedenti. Ciò anche perché quelle sinistre erano state in grado di affermare una solida egemonia culturale, consolidando principi relativi ai diritti, ai beni comuni, alla lotta alla povertà: temi che negli anni ’80 e ’90 erano tabù. Le destre che ora stanno arrivando al potere, anch’esse con mille sfumature, per racimolare voti si trovano a ripetere alcuni degli slogan coniati dai governi precedenti. Come il neopresidente argentino che ha promesso “povertà zero” in campagna elettorale, o l’opposizione venezuelana che dichiara di non volere toccare il modello di welfare chavista.

Gli interessi dei cittadini, che a torto considerano ormai consolidate le conquiste sociali e civili degli ultimi anni, si sono spostati di netto sulle questioni della legalità e della trasparenza. Temi cari, almeno a parole, a quasi tutte le sinistre mondiali, ma che in Sudamerica fanno fatica a tramutarsi in fatti. Non è difficile prevedere che i futuri leader di quel blocco sociale che ancora aspetta di uscire dalla povertà dovranno certamente promettere di occuparsi delle diseguaglianze, ma nello stesso tempo garantendo che saranno capaci di prendere in mano una situazione negativa, potenziata dall’eredità di decenni di pessima politica.

Avrà successo chi mostrerà le capacità – e la fedina penale pulita – necessarie per promettere una stagione di riforme e la radicale eliminazione di ogni connivenza tra la politica e i poteri forti dell’economia legale e illegale.

Ma perché questo avvenga, è urgente anche un ricambio dei ceti dirigenti, così com’era avvenuto all’inizio della stagione precedente. In questo senso, l’atteggiamento alla “muoia Sansone con tutti i filistei” di alcuni leader in disgrazia non promette nulla di buono. Ma una certezza almeno c’è: il Sudamerica oggi è un continente nel quale la democrazia ha la forza di incoronare e anche di defenestrare il re. E questa è già una grande novità.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

23-05-08 Brasil- Cumbre en Brasilia.

23-05-08 Brasil- Cumbre en Brasilia.

In un lontano Paese in fondo al Sud America, sta andando in pensione uno dei politici più amati al mondo. Un uomo che ha governato solo quattro anni, ma che ha lasciato una traccia indelebile sullo scenario internazionale. José Pepe Mujica  ha una storia politica impeccabile, anche se ha riconosciuto di avere avuto la testa “troppo calda” quando militava nella guerriglia Tupamaro. Prigioniero politico di lungo corso nelle segrete della dittatura, è il simbolo della continuità tra le lotte degli anni ’70 e quelle del XXI secolo.

L’Uruguay è una piccola porzione della Pampa che fu per secoli un cuscinetto tra i due imperi che si spartivano il Sudamerica – quello spagnolo e quello portoghese – e successivamente passò sotto l’ala del Regno Unito, interessato a tutelare i suoi grandi interessi economici nella zona. L’eroe nazionale che lottò contro la Spagna, il generale José Artigas, non a caso venne battezzato “protettore dei popoli liberi”; e quando si verificò lo strappo con Buenos Aires, che portò all’indipendenza dall’Argentina, qui combatté e visse Giuseppe Garibaldi nella sua fase più libertaria. L’Uruguay, infatti, è uno Stato laico nel continente più segnato dal cattolicesimo spagnolo. Un Paese nel quale il divorzio esiste da decenni e dove oggi sono ammessi i matrimoni omosessuali. Un Paese che già nel 1917 sancì la separazione totale tra Stato e Chiesa, e nel quale la Pasqua si chiama “settimana del turismo”.

Soprattutto, l’Uruguay è storicamente un’isola di democrazia in un continente in tempesta, anche se questa nobile tradizione si interruppe drammaticamente mentre i “vicini di casa” si trovavano sotto lo stivale dei militari. In quegli anni bui per Montevideo, un guerrigliero fu tenuto in prigione per 15 anni. Quell’ex detenuto, che non ha mai rinnegato le proprie idee di giustizia sociale, sta concludendo il suo mandato di presidente della repubblica, a capo di una coalizione formata da socialisti, comunisti, cattolici progressisti ed ex Tupamaros. Un presidente amatissimo che ha continuato a vivere nella sua modesta casa di campagna, che ha tenuto per sé soltanto 800 euro di stipendio, ha girato con la sua auto di trent’anni fa e in tutti i forum internazionali è diventato un faro per chi si batte contro il modello dominante di sviluppo consumistico e contro la mancanza di etica nella politica.

Con Mujica la disoccupazione è calata, l’economia è cresciuta, è stato depenalizzato l’aborto e sanciti i matrimoni tra persone dello stesso sesso. In Uruguay si è anche realizzato il sogno dell’antiproibizionismo con la legalizzazione della marijuana, anticipando una decisione che – per forza di cose – prima o poi dovrà essere presa da tutti i Paesi dell’area per debellare le mafie, che non soltanto delinquono e inquinano la società, ma sono diventate veri contropoteri antagonisti della democrazia.

Come scrisse anni fa uno dei grandi scrittori di questo Paese, Eduardo Galeano, l’utopia serve a camminare senza perdere l’orientamento. Il piccolo Uruguay di Pepe Mujica, patria di tangueros, calciatori e romanzieri, si è permesso ancora una volta di ricordarci un’utopia, quella della politica che riprende l’originale vocazione di servizio e nella quale i cittadini si possono identificare.

 

Alfredo Somoza per esteri (Popolare Network)

 

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In un lontano Paese alla fine del mondo, il sogno dell’antiproibizionismo si sta realizzando. Il parlamento del piccolo Uruguay, infatti, ha approvato la legalizzazione della marijuana per togliere una fetta di guadagno alle mafie e strappare i consumatori dalla condizione di illegalità. Per il Paese del Río de la Plata, schiacciato tra Argentina e Brasile, non è una novità trovarsi all’avanguardia rispetto all’intero continente americano.

Questa porzione della Pampa fu per secoli un cuscinetto tra i due imperi che si spartivano il Sudamerica – quello spagnolo e quello portoghese – e successivamente passò sotto l’ala del Regno Unito, interessato a tutelare i suoi grandi interessi economici nella zona.

Eppure l’Uruguay è anche, da sempre, terra di libertà civili e politiche. L’eroe nazionale che lottò contro la Spagna, il generale Artigas, non a caso venne battezzato “protettore dei popoli liberi”; e quando si verificò lo strappo con Buenos Aires, che portò all’indipendenza dall’Argentina, qui combatté e visse Giuseppe Garibaldi nella sua fase più libertaria.

L’Uruguay, infatti, è uno Stato laico nel continente più segnato dal cattolicesimo spagnolo. Un Paese nel quale il divorzio esiste da decenni e dove oggi sono ammessi i matrimoni omosessuali. Un Paese che già nel 1917 sancì la separazione totale tra le istituzioni e la Chiesa, e nel quale la Pasqua si chiama “settimana del turismo”.

Soprattutto, l’Uruguay è storicamente un’isola di democrazia in un continente in tempesta, anche se questa nobile tradizione si interruppe drammaticamente mentre i “vicini di casa” si trovavano sotto lo stivale dei militari. In quegli anni bui per Montevideo, un guerrigliero fu tenuto in prigione per 15 anni. Quell’ex detenuto, che non ha mai rinnegato le proprie idee di giustizia sociale, oggi è presidente del Paese, a capo di una coalizione formata da socialisti, comunisti, cattolici progressisti ed ex Tupamaros. Un presidente amatissimo che continua a vivere nella sua modesta casa di campagna, che tiene per sé soltanto 800 euro di stipendio, gira con la sua auto di trent’anni fa e in tutti i forum internazionali è diventato un faro per chi si batte contro il modello dominante di sviluppo consumistico. E contro la mancanza di etica nella politica.

L’Uruguay che oggi legalizza la marijuana compie un passo da gigante nella storia americana, anticipando una decisione che – per forza di cose – prima o poi dovrà essere presa da tutti i Paesi dell’area per debellare le mafie, che non soltanto delinquono e inquinano la società, ma sono diventate veri contropoteri antagonisti della democrazia.

In Uruguay la marijuana di Stato costerà un dollaro al grammo e i proventi andranno a sostenere il welfare. Come scrisse anni fa uno dei grandi scrittori di questo Paese, Eduardo Galeano, l’utopia serve a camminare senza perdere l’orientamento. Il piccolo Uruguay, patria di tangueros, calciatori e romanzieri, si è permesso ancora una volta di raggiungere l’utopia, ricordando a tutti noi la direzione verso la quale camminare.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Uruguay boy