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Se sono preoccupanti i numeri della seconda ondata di pandemia, più fosche ancora sono le notizie sul suo costo economico. Le stime del Fondo Monetario Internazionale parlano di un “costo Covid”, soltanto per l’Unione Europea, di tremila miliardi di euro: un calo enorme del PIL comunitario. L’Europa a 27 è stata l’area del mondo che finora ha fatto di più per ammortizzare i colpi della crisi: sono 54 milioni i lavoratori che hanno ricevuto un sostegno diretto al reddito, e grazie a questa e altre misure simili si è avuto un aumento della disoccupazione di soli, si fa per dire, 2,9 punti percentuali. Per l’Eurozona, il calo del PIL previsto per quest’anno sarà in media dell’8,3%, ma senza le misure di sostegno all’economia sarebbe arrivato all’11% circa. Fuori dall’UE la situazione è eterogenea. Peggiorano le previsioni sull’Asia, dove solo la Cina spunta un risultato positivo, con una striminzita crescita dell’1,9%. L’India, ad esempio, perderà 10 punti di PIL e l’intera area calerà in media del 2,2%. Negli Stati Uniti si attende una perdita di 9 punti e in America Latina si perderanno quasi 6 punti.

Il mondo, insomma, si trova in piena recessione, avendo praticamente esaurito i fondi per sostenere l’economia e senza alcuna certezza sui tempi di uscita. Sotto la lente degli economisti ci sono anche i progressi dei diversi vaccini in sperimentazione, per capire se il rimbalzo pronosticato dal FMI per il 2021 diventerà reale o se si tratterà dell’ennesimo miraggio. Anche nell’ipotesi più ottimista, e cioè che entro la fine di questo inverno si riesca ad avere un vaccino efficiente, le operazioni di produzione, distribuzione e inoculazione all’intera comunità mondiale ci porterebbero nel 2022 inoltrato. Nel frattempo, non si sta elaborando alcun pensiero strategico sulla ripartenza. Non si pensa ai mezzi e alle modalità con cui mondo potrà rimettersi in marcia quando, in un modo o nell’altro, la pandemia sarà sotto controllo. Eppure alcuni dati sono ormai sicuri. Tutti i Paesi saranno fortemente indebitati e molti settori, come il turismo, avranno danni permanenti. La disoccupazione aumenterà, il lavoro da remoto resterà nel tempo, la sanità sarà potenziata e diventerà, insieme alla logistica e alle piattaforme di vendita online, un comparto trainante per l’economia.

Vedremo quindi realizzarsi in un breve periodo molte delle linee di sviluppo che erano state immaginate per l’economia del futuro, trasformazioni che si pensava si sarebbero diluite in tempi lunghi. E questo significa che non ci sarà il tempo necessario per assorbire con nuovi posti di lavoro quelli che andranno persi. Ci sarà per forza bisogno di un welfare continuativo, non legato direttamente al Covid bensì alla crisi, conseguenza dei cambiamenti imposti dalla pandemia al tessuto economico e sociale. Tutto ciò allargherà inevitabilmente la distanza tra Paesi centrali e periferici, ma anche tra chi è parte dei segmenti vincenti dell’economia e le masse di esclusi. Quando si uscirà dall’emergenza sanitaria ci ritroveremo in un mondo per certi versi nuovo, ma non per questo imprevedibile. Grandi imprese deterranno il quasi monopolio della distribuzione e quindi incideranno profondamente sia sulla produzione sia sul consumo, con la desertificazione del piccolo e medio commercio e dell’artigianato, sostituito da tipologie di lavoro non specializzato e sempre meno qualificato. A questo scenario complesso come non mai va a sommarsi un’altra emergenza, quella delle conseguenze del cambiamento climatico, già drammaticamente tangibili a livello globale.

Alla fine bisognerà approdare a una governance mondiale: ormai è chiaro che i problemi della globalizzazione sono impossibili da affrontare in ordine sparso. Ci vorranno tante cose, ma per ora non si vede chi riesca ad alzare la testa sopra l’emergenza, per provare a mettere in campo uno sguardo lungo quanto mai necessario e urgente.

 

Le regole che non si è voluto stabilire per gestire la globalizzazione degli anni ’90 non esistono neppure quando si tratta di far fronte a una pandemia. Ci sono dei protocolli, certo, e più o meno tutti, alla fine, faranno le stesse cose: ma in tempi diversi, senza sincronizzarsi, ripetendo i medesimi errori. Per affrontare un’emergenza come quella del Covid-19 tutti gli esperti più autorevoli dicono che, in mancanza di farmaci specifici, sono vitali il coordinamento e il tempismo. Quelli che ha messo in campo la Cina, dove tutto è iniziato, e dove un regime autoritario ha potuto applicare restrizioni draconiane a tempo di record senza che nessuno protestasse. O almeno, senza che giungesse notizia di proteste.

In Europa, in America Latina, negli Stati Uniti è guerra tra sindaci e governatori, tra governatori e governi centrali. Tutti in disaccordo sui tempi e sulla portata delle misure da intraprendere. Chi vorrebbe chiudere tutto da subito con i cittadini bloccati a casa, come i medici, e chi invece vorrebbe continuare a lavorare come se niente fosse o quasi, come gli industriali. Ma la litigiosità non si ferma agli organi di governo. Anche tra i cittadini scoppiano liti, virtuali o reali, circa i divieti di spostarsi. Un’opinione pubblica avvelenata dalle fake news circolanti in rete chiede di spingersi oltre rispetto a quanto i governi vogliono o possono fare. Il caso dei runners accusati di essere “untori”, in contrapposizione ai “passeggiatori di cani” che almeno per ora sono visti bene, la dice lunga su questa psicosi collettiva.

Umberto Eco diceva, poco prima di morire, che Internet aveva dato diritto di parola a legioni di imbecilli. In queste settimane, oltre agli imbecilli tout court, anche i complottisti, i dietrologi, i terroristi virtuali hanno una vasta platea. Si usano gli stessi copioni usati per l’AIDS negli anni ’90, per Ebola negli anni 2010, per la SARS poco tempo fa. Laboratori segreti dai quali sarebbero sfuggiti virus letali, potenze che attraverso la diffusione del Covid-19 vorrebbero conquistare il mondo, governi che nasconderebbero la verità. Come in un brutto film di James Bond, nel quale però non si sa se, alla fine, il criminale di turno che vuole conquistare il mondo sarà sconfitto dall’agente 007.

E purtroppo è normale che sia così, perché i seminatori di falsità e di panico sono attivi da sempre sulla rete. Se di solito sono seguiti da una minoranza di persone, nelle crisi la platea si allarga, e ciò succede anche perché chi dovrebbe essere un punto di riferimento ondeggia o si nasconde. Primi ministri che un giorno si dicono preoccupati e quello dopo minimizzano. Leader come Trump e Bolsonaro che addirittura ci scherzano sopra. Governatori che imputano l’epidemia all’abitudine di altri popoli di mangiare pipistrelli vivi. Ecco, se le istituzioni vacillano, allora perché non potrebbero avere ragione gli apocalittici della rete? La stessa politica è pesantemente influenzata dal dibattito online, dove tutte le opinioni valgono, idiozie comprese. Se questa crisi ci sta già lasciando un insegnamento è quello dell’urgenza di ripensare l’informazione fruibile oggi, che non sta più sui giornali ma in rete. Ma quali strumenti ci sono perché chiunque possa valutare cosa sta leggendo?

L’altro insegnamento è che solo istituzioni pubbliche efficienti e con tutte le risorse a disposizione possono arginare le derive autoritarie. Un servizio sanitario nazionale – quella geniale invenzione europea! – in grado di fare prevenzione e preparato all’emergenza è più rassicurante dell’esercito per strada. Infine, non va sottovalutato che sono i cittadini oggi a chiedere a gran voce che questi fenomeni siano governati dalle istituzioni politiche, anche a livello internazionale: è un ottimo viatico per rimettere finalmente mano al dossier abbandonato delle regole e delle pratiche comuni per il governo del mondo. Per quanto oggi tutti si stiano chiudendo entro i propri confini nazionali, è chiarissimo ormai che da soli non ci si salva.