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Le due destre che oggi si candidano a esercitare il potere nel mondo hanno matrice e obiettivi diversi. Una, incarnata dagli oligarchi della West Coast statunitense, si abbevera nell’anarco-liberismo che considera lo Stato nemico dei cittadini in quanto entità regolamentatrice (e dunque controllore) dei rapporti sociali ed economici. La grande quota di economia globale controllata dai padroni dei social, della logistica, degli sviluppatori di software e dell’IA è cresciuta fuori da ogni normativa. Sono imprenditori che rivendicano diritti e chiedono allo Stato di essere tutelati attraverso la magistratura, e spesso anche mediante sovvenzioni, ma non accettano che lo Stato stabilisca delle regole per il loro business. Secondo la loro retorica, il loro lavoro non dovrebbe essere ostacolato da alcun provvedimento legale e men che meno dalla pressione fiscale, perché ha cambiato il mondo in meglio. Questa lettura unilaterale e narcisista della propria attività spiega la veloce conversione delle aziende di questi oligarchi dall’etica (o estetica) woke, e dall’accettazione dei limiti imposti ad esempio dall’Unione Europea, al sostegno a Trump: sperano che i loro diritti e i loro affari possano essere tutelati non dalle leggi, ma dalla potenza di ricatto del presidente degli USA.

L’altra destra ha radici più antiche, evidenti soprattutto nella personalità che meglio la rappresenta, l’uomo più ricco del mondo: Elon Musk. Cresciuto nella cultura dell’apartheid sudafricano, Musk non si fa problemi a sostenere forze apertamente legate all’eredità nazista o fascista e a proporre una nuova lettura razzista della società, fondandola sull’efficientismo. Le politiche inclusive avrebbero il difetto, secondo Musk, di offrire opportunità immeritate a soggetti appartenenti a minoranze etniche o sessuali che, invece, dovrebbero restare nella schiera dei subordinati, essendo (è questo il pregiudizio implicito) meno capaci per natura. Il futuro fa cortocircuito con il passato, i viaggi su Marte con le teorie della razza. Ciò che appare poco spiegabile, in quest’ottica, è il sostegno offerto a forze dichiaratamente fasciste, come l’AFD in Germania che, come tutti i partiti con la stessa matrice, è fortemente statalista, sostiene uno Stato regolamentatore e promuove una società chiusa, totalmente contraria alla globalizzazione. L’esatto contrario del mondo che ha consentito al loro supporter multimiliardario di arrivare in cima alle classifiche mondiali della ricchezza.

Ma a questa destra “bipolare” non appartiene solo il patron della Tesla. Anche l’anarco-liberista argentino Javier Milei professa un’ideologia libertaria estrema, ma poi considera alleate e amiche forze neofasciste che hanno una visione dello Stato diametralmente opposta alla sua.

Il punto è che questa strana alleanza tra soggetti molto distanti è diventata vincente in diversi scenari, a partire dagli Stati Uniti: una volta divenuta governo, ci si aspetta che non possa più nascondere le proprie contraddizioni interne. Ai dazi si risponde con dazi, e se Trump li applicasse sul serio, le ritorsioni andrebbero probabilmente a colpire proprio l’high-tech multinazionale, imponendo regole e obblighi fiscali che finora i grandi player globali hanno scampato. La logica MAGA di Trump si scontra frontalmente con la logica “open world” che ha fatto la storia della globalizzazione. Difficile dire quale tra queste anime prevarrà, ma forse ciò che è appena accaduto con l’imposizione dei dazi statunitensi, annunciati e poi in gran parte congelati, indica una pista diversa, che potrebbe sintetizzarsi così: chiedo il tuo voto per chiudere il Paese all’invasione dei migranti e delle merci straniere, ma intendo usare il mio potere per affermare il primato mondiale delle mie industrie, e per farlo devo agire per garantirmi le condizioni migliori.

Né mondo chiuso né mondo aperto, insomma, ma un mix tra le due cose: come è sempre stato, con i democratici e con i repubblicani. Cambiano solo la forma, l’eleganza e il metodo negoziale. In Europa, invece, gli sviluppi potrebbero essere drammaticamente diversi: qui non abbiamo grandi innovatori, ma i residuati delle ideologie totalitarie del ’900.

Tutti i populisti, anche se di segno politico diverso, presentano tratti in comune. Il primo, che da sempre spicca sugli altri, è l’attacco violento portato al rivale non solo sul piano politico ma anche, e soprattutto, su quello personale. Demolire l’avversario, accusarlo di essere corrotto o debole, anziano o poco avvenente, affermare che ha parentele o amicizie “pericolose”: fa tutto parte della retorica corrente dei populisti. Non importa, ovviamente, che le accuse di immoralità, di corruzione o di altri reati siano o meno fondate – anzi, spesso sono fake news di portata gigantesca – né che l’avversario mai si sognerebbe di compiere a sua volta attacchi che scendano sul piano dell’aspetto o della prestanza fisica. Invece Donald Trump può daredel “vecchio rimbambito” a Joe Biden, malgrado i suoi 77 anni abbondanti (e portati piuttosto male); Javier Milei seminare in pubblico sospetti sulla moglie del primo ministro spagnolo in base ad acclarate fake news; e Vladimir Putin affermare che le istituzioni ucraine sono in mano a una classe politica interamente nazista. Hitler, del resto, costruì la sua criminale ascesa politica “spiegando” che certi tratti somatici degli ebrei confermavano il loro essere colpevoli di tutti i mali della Germania. Venendo a noi, su un livello diverso e assai meno pericoloso, un certo comico italiano prestato alla politica iniziò il suo percorso dando del “nano pelato” o dello “psiconano” all’avversario.

Il populismo, infatti, non punta a vincere sul piano delle idee, come è normale in democrazia, ma si spinge ben oltre. Punta a demonizzare e demolire il pensiero avverso, ad attaccare fisicamente coloro i quali ostacolano un percorso che mira, in sostanza, a costruire un regime. Per questo l’offesa al rivale, l’attacco che ne prende di mira la fisicità o l’età, è tipico del fascismo. Che non cerca il confronto ma solo la prevaricazione, soprattutto con la forza, perché non considera il dissenso un diritto né tantomeno una voce da ascoltare per migliorare il proprio operato, ma lo interpreta come un atto d’insurrezione, una ribellione contro l’ordine che si vuole costruire. Chi è contrario, allora, è una zecca”, uno “scarafaggio”, un “ratto”. 

Quanto pesino problematiche di salute mentale nel comportamento di diversi populisti è difficile da stabilire: il terreno è scivoloso, e non vorremmo rischiare di scendere sullo stesso piano. Quello che è evidente è che in tempi e scenari politici, culturali e politici diversi, l’insulto e la disinformazione funzionano sempre. E non soltanto perché i talk show televisivi sono una scuola di formazione che orienta al turpiloquio politico, “pollai” dove nessun tema viene mai approfondito e nessuna posizione espressa in modo da essere ben compresa: anche prima della comunicazione di massa moderna, quello della manipolazione del dibattito politico era un meccanismo ben oliato. Perciò, per ridurre i rischi, tra le regole auree di una vera democrazia ci devono essere la libertà di stampa e il rispetto delle idee di tutti. Rispetto perché è fondamentale mantenere il dibattito entro i limiti della civiltà, con toni che permettano di esprimersi e di capire; libertà di stampa perché i giornalisti hanno, o dovrebbero avere, il dovere di verificare le notizie e fare informazione corretta.

Nel 2023 sono stati uccisi nel mondo 99 giornalisti: tentavano di raccontare l’economia dei narcos in Messico, le violazioni dei diritti umani nelle Filippine e soprattutto le conseguenze dell’intervento militare israeliano a Gaza. La buona notizia potrebbe essere che per la prima volta da tanti anni la Russia non compare in questo elenco, ma ciò accade perché non sono rimasti più giornalisti da eliminare, dopo le purghe degli anni scorsi e le fughe all’estero. Lo specchio da osservare per provare a immaginare un mondo governato dai populisti, senza più stampa libera, lo offre proprio la Russia di Putin, dove è vietato pronunciare la parola guerra e si rimodella il passato fino a renderlo mitologico, dove chi critica il potere e il capo è un essere “decadente e degenerato” al soldo dell’Occidente.

It will be very difficult months for the Argentinians. The economic shock announced by the new president, Javier Milei, aims to reduce public spending by an amount equivalent to 5% of GDP, but the long-term goal is to reach 18% of the Argentine GDP, a staggering 80 billion dollars. In Argentina, contrary to common beliefs, the total public spending equals 36% of GDP, compared to a European average of 51%. The issue lies elsewhere, namely that the tax base is very limited because a large mass of workers and activities operate in the informal sector, and above all, the country is burdened with a huge public debt, which reached 400 billion dollars in 2023, 90% of GDP. The radical adjustment of public spending, along with the privatization of loss-making state enterprises, is expected to bring the public budget to balance by 2024, according to Milei. This is to be achieved first by overcoming an inflation spike expected to reach 240% in 2024, compared to 180% in 2023. Liberalizing the dollar, ending the parallel market, uncontrolled consumer prices, and public services paid at the real cost without subsidies are the watchwords, but they will have to contend with an impoverished population. The outgoing administration of Alberto Fernandez received a country in 2019 with 35% of the population in poverty and hands it over with 40% in poverty, including the extremely poor, totaling 12 million Argentinians. This is one of the most spectacular failures of the Peronist movement, which, especially under the leadership of the Kirchner couple, had adopted a “progressive” rhetoric after having been corporatist, neo-fascist, and neoliberal in the past.

After the terrible default of 2001, a result of the long wave of monetary policies in the 90s with the Peronist Menem, Argentina experienced a period of vertiginous growth in the 2000s. It managed to solve the debt problem and genuinely helped those affected by the default. However, the eternal populist temptation, especially after the death of Nestor Kirchner in 2010, along with the glaring economic mistakes of his widow, Cristina Fernandez, succeeded in creating even more poor people while maintaining a hopeless welfare system, financed by public deficit and worthless money printing. Add to this the unlimited distribution of positions of power in the state and public enterprises, amid corruption allegations at the highest levels. The interval of the Macri government, between 2015 and 2019, only added a new gigantic debt to the IMF without changing either the economic orientation or the welfare machine that feeds on poverty. The terminal phase of the decline was the government of Alberto Fernandez, a Peronist lawyer who insulted Cristina Kirchner for years and then joined forces with her in the 2019 elections. A government that worsened the suicidal economic trends of Cristina Kirchner’s previous governments: exchange controls, parallel dollar, import restrictions, random dirigiste policies, and above all, uncontrolled public spending without brakes or controls. The vote in November 2023, which was the biggest defeat for Peronism, was only partially a victory for Javier Milei; it weighed more on the vote against the managers of the decline of the last 20 years. And Milei, being an outsider, managed to catalyze discontent, sidelining the historical center-right led by Patricia Bullrich, later included in his cabinet composition. President Milei has no political ideologies but only economic ones. In his government, there will be loyalists from the beginning, key figures from the third-placed center-right coalition, and sectors of anti-Kirchnerist Peronism, as well as representatives of the world of national and multinational big businesses. A right-wing but coalition government, united in wanting to close the Kirchnerist experience forever. The point is that Milei’s “animal instinct,” anti-establishment, and anarchic, known for being the crazy economist on television, could play a nasty trick on the coalition if he truly intends to keep his promises to the electorate. For now, moderation prevails, simply because Milei’s party has 7 out of 72 senators and 38 out of 257 deputies. Without the votes in parliament of Macri’s deputies and anti-Kirchnerist Peronists, governance is impossible.

For now, the measures announced by Milei closely resemble the experience of the Peronist Menem, who won the elections in 1989 amid hyperinflation. Thanks to the policy of parity between the dollar and the peso and the privatization of state enterprises, Menem provided the country with artificial stability that collapsed with the default in 2001. Many elements of Milei’s government come from that experience, but the world is no longer the one of the 90s, and much less Argentina. At that time, Argentina had a poverty rate in line with countries in the European Mediterranean and, above all, a large public heritage to sell or undersell. The trump cards of the new government could be the start of production of the gigantic natural gas field in Vaca Muerta in Patagonia and the exploitation of lithium in the far north, in addition to traditional exports of agricultural products. The question is whether it will be able to overcome the inevitable political and social upheavals of such a radical adjustment as announced. An adjustment, let it be clear, that any winning candidate would have had to face, even the Peronist Mazza. The issue is the timing and political sustainability. Two factors that cast serious doubts on Milei’s future, but if he manages to overcome the first year, successfully tackle inflation, and put the state’s finances in order without increasing poverty rates, he might have a political future beyond his current 4-year term.

In this analysis, I intentionally left out the topic of human rights and Memory, which this government will challenge, having even denialists among its ranks regarding what happened in the 1970s in Argentina. There will certainly be attempts to reclaim a so-called “shared memory,” highlighting the figure of innocent victims of attacks by leftist armed forces. However, these issues did not influence the pre-election debate and are not expected to be part of the agenda of the new government with particular measures regarding them. Everything will be played out on the relationship between the economy, the state, and society. And it is on that field that the success or failure of a figure who, in just 5 years, thanks to television and social media, managed to rise to lead a G20 country, will be measured.

“It’s the economy, stupid!” fu lo slogan vincente che Bill Clinton adottò contro Bush senior quando lo sbaragliò alle elezioni presidenziali del 1992: ed è vero che qualsiasi problema diventa secondario quando i conti di un Paese non tornano. È questa la chiave di lettura corretta per spiegare il “fenomeno Milei” in Argentina. I temi che hanno trovato più spazio sulla stampa internazionale – come i diritti umani, le questioni di genere e la difesa della memoria storica, valori che sicuramente non fanno parte della cultura di Milei – nel dibattito interno all’Argentina hanno avuto una rilevanza marginale. Le questioni importanti sono state altre. In primo luogo, la necessità di una soluzione per il problema dell’inflazione, che quest’anno sta toccando il 142% e che negli ultimi tre anni si è mangiata gran parte del reddito delle famiglie. Che la ricetta sia la dollarizzazione dell’economia, come suggerito da Milei, è opinabile: ma la sua è stata l’unica proposta concreta, contrapposta al silenzio del rivale Sergio Massa, ministro dell’Economia in carica e, quindi, tra i primi responsabili del ciclo inflazionistico. L’altra questione chiave è stata la cosiddetta “lotta alla casta”, certamente non originale ma di stretta attualità in un’Argentina che arriva da vent’anni di peronismo kirchnerista. Soprattutto nell’ultimo periodo, gli scandali di corruzione e la spartizione clientelare delle poltrone delle imprese gestite dallo Stato, affidate a persone senza competenze, sono apparsi eccessivi perfino per gli standard argentini: due decenni di potere e di impunità acquisita hanno portato a eccessi ingiustificabili. La situazione risulta aggravata dall’aumento esponenziale della violenza criminale, dai semplici borseggiatori fino ai narcos, favorito da un sistema giudiziario dalle maglie troppo larghe.

La sconfitta di Massa è stata anche una vittoria delle province. Il sistema federale argentino prevede alcune tasse locali, ma le imposte fiscali più importanti, equivalenti alle nostre IVA e IRPEF, sono raccolte dallo Stato centrale, che poi le ridistribuisce sul territorio. Dal 2014 i trasferimenti alle province non amministrate dai peronisti hanno subito costanti tagli a vantaggio dei territori “fedeli”, soprattutto i comuni della periferia di Buenos Aires, storico bastione peronista. Le sovvenzioni per energia e trasporti e gli aiuti sociali sono stati assorbiti quasi tutti dalla provincia di Buenos Aires, mentre le altre venivano emarginate. E così a Córdoba, Santa Fe e Mendoza, le province più importanti dopo quella della capitale, il voto per Milei ha toccato punte del 70%.

Alla base dei populismi di nuova generazione ci sono sempre motivi profondi, che spesso vengono trascurati perché si preferisce raccontarne gli aspetti folkloristici. In America Latina poi, in società ormai spaccate, non si ammettono mai le colpe che portano alla sconfitta, a destra come a sinistra. Il quotidiano “Pagina 12” di Buenos Aires, portavoce del peronismo progressista, il mattino dopo il voto presidenziale ha pubblicato un editoriale spiegando che “il popolo ha sbagliato”. Il problema non è il governo uscente, non è la disastrata economia: è l’elettorato che sbaglia. Un classico di chi, senza mai fare autocritica, prepara la propria parte politica a nuove sconfitte. Ieri Bolsonaro in Brasile, oggi Milei in Argentina, senza dimenticare i candidati “impresentabili” arrivati fino al ballottaggio in Colombia e in Cile: le destre storiche del continente sudamericano diventano marginali di fronte all’emergere dei nuovi tribuni del popolo, in genere ultraconservatori, che riescono a fiutare il malcontento popolare e a tradurlo in proposta politica, giusta o sbagliata che sia. È una capacità che 25 anni fa ebbero i Lula, i Chávez e i Morales, spesso scivolati nel populismo di segno opposto. Oggi occorrono abilità mediatica e la capacità di scuotere le persone perché vadano a votare. Viviamo una nuova era, a cui ancora ci dobbiamo abituare, nella quale chi fa politica deve saper interpretare gli umori, le sofferenze e le aspirazioni della gente non studiando sui trattati di sociologia, ma vivendo tra le persone. E nella quale alla “predica” deve seguire un comportamento personale coerente, perché la politica di oggi è fatta da fedeltà temporanee.  

Nelle elezioni presidenziali argentine del 2023 saranno tre candidati a contendersi la massima carica politica. Soltanto due passeranno al secondo turno, che viene dato quasi per certo. Il paradosso, in un Paese che di paradossi è particolarmente ricco, è che i tre candidati sono tutti ascrivibili al campo del populismo, sia pur con sfumature e intensità diverse. Sergio Massa è il candidato peronista, sostenuto cioè dal partito fondato da Juan Domingo Perón a metà del Novecento, considerato un caposaldo del populismo a livello internazionale. Massa però non arriva dal peronismo bensì dalla destra liberale, ed è attualmente il ministro dell’Economia di uno Stato che veleggia attorno al 130% di inflazione annua e con il 44% della popolazione in condizioni di povertà. In nessun Paese al mondo un ministro corresponsabile di questa situazione potrebbe pensare di candidarsi, ma in Argentina la logica spesso viene sovvertita. Le ricette del populismo peronista-massiano prevedono un welfare clientelare di sopravvivenza, che non viene erogato dallo Stato ma da intermediari ormai diventati soggetti politici informali, finanziato stampando moneta come se non ci fosse un domani. L’inflazione ormai cronica, infatti, non è dovuta a un surriscaldamento dell’economia ma all’incessante produzione di denaro. Del resto, il cambio con il dollaro USA è controllato dallo Stato, che dichiara ufficialmente un tasso fasullo, pari alla metà di quello praticato nella realtà dal fiorente mercato del cambio illegale. Il populismo erogatore di pesos svalutati, “mangiati” dall’inflazione nel giro di un mese, è la cifra degli ultimi anni di governo del presidente Alberto Ángel Fernández, così impopolare che nemmeno si ricandida.

L’altro fronte politico, quello dell’alleanza tra liberali e radicali che nel 2015 portò al potere Maurizio Macri, candida Patricia Bullrich, rampolla di una delle famiglie più importanti del Paese e vicina, da giovane, al gruppo armato dei Montoneros. Lei sì proviene dal peronismo, ma lo ha abbandonato da almeno 15 anni. È stata ministra della Sicurezza di Macri e il suo populismo non passa dall’economia bensì dalla promessa di una svolta securitaria. L’Argentina ha da tempo un serio problema di sicurezza, dovuto da un lato alle conseguenze di una povertà crescente e, dall’altro, al radicamento del narcotraffico nei quartieri più poveri. La ricetta proposta da Patricia Bullrich per combattere questa situazione non accenna minimamente agli aspetti sociali, al ruolo della scuola e alla prevenzione, ma ripete il modello che Nayib Bukele sta portando avanti nel Salvador. Costruire cioè un gigantesco carcere “smart” nel quale rinchiudere e isolare i detenuti. Una prigione moderna, dove non si prenda Internet e lavori personale ben pagato e incentivato. Il modello del Salvador è nel mirino degli organismi che si preoccupano del rispetto dei diritti umani, ma ha reso molto popolare il suo presidente. Il populismo della Bullrich si caratterizza quindi per la promessa di stroncare la delinquenza soltanto attraverso la repressione e il carcere, lasciando nell’ombra la proposta economica e sociale.

E poi c’è lui, il candidato a sorpresa che rischia di diventare presidente: l’economista Javier Milei, una versione estrema di Trump e Bolsonaro. Ripropone, radicalizzandole, le ricette elaborate dall’economista Domingo Cavallo e applicate da Carlos Menem negli anni ’90 del secolo scorso, che cambiarono per sempre (e non in meglio) lo Stato argentino. Milei ha promesso di chiudere la Banca Centrale, eliminare il peso adottando il dollaro, licenziare migliaia di dipendenti pubblici che sono stati nominati dalla “casta”, chiudere i ministeri “inutili” quali l’Ambiente o il Welfare, rompere le relazioni diplomatiche con qualsiasi Paese comunista, Cina inclusa, e cambiare la linea internazionale dell’Argentina schierandola sempre e solo con gli Stati Uniti. Il populismo di Milei è quello della “sparata”: promette ciò che sa benissimo che non potrà fare, soprattutto perché, anche vincendo, non avrebbe la maggioranza parlamentare. Ma crea aspettative, si scaglia contro i politici, anche se lui stesso lo è, e convince persone che non hanno gli strumenti per giudicare ciò che dice. Dopotutto, nasce come personaggio televisivo: ha una capacità di usare i media superiore a quella di tutti gli altri candidati.

Alle primarie obbligatorie del mese di agosto, i tre candidati si sono divisi l’elettorato in fette quasi uguali. Un terzo di voti a testa per ciascuna sfumatura di populismo. Forse, ancora una volta, l’Argentina anticipa i tempi rispetto al futuro che ci aspetta. Abbiamo già conosciuto gli Orbán, i Bolsonaro, i Trump, ma in contesti dove c’erano forze responsabili in grado di contrastarli. In Argentina non è così. L’intera offerta politica ha il marchio di fabbrica del populismo, che non è sinonimo di una politica “popolare”, non lavora per elevare la condizione economica e culturale della gente, ma usa il popolo per raggiungere i propri obiettivi, assecondando e amplificando gli umori della strada. In Argentina vincerà chi sarà in grado di lisciare il pelo degli elettori con le promesse, vere o false, che faranno più rumore, che sembrino più rivoluzionarie e facciano sognare, almeno per quei pochi giorni che passano tra l’insediamento di un presidente populista e la smentita delle promesse fatte in campagna elettorale.

Il voto al primo turno nelle elezioni presidenziali colombiane conferma l’esistenza di un’ondata punitiva nei confronti delle forze politiche che hanno governato durante la pandemia. Federico Gutiérrez, l’erede designato del presidente uscente Iván Duque, ha raccolto appena il 23% dei voti, risultato che per la prima volta esclude la destra colombiana dalla corsa per il potere. Qualcosa di simile era già successo in Perù, Paese “terremotato” dall’arrivo al potere di Pedro Castillo, l’insegnante marxista che è riuscito a battere la candidata delle destre Keiko Fujimori; e anche in Cile, dove i voti della destra tradizionale, che era al governo, non sono stati sufficienti a José Antonio Kast per battere al secondo turno la sorpresa progressista Gabriel Boric. Analoghi sconvolgimenti si preannunciano in Brasile a ottobre, con il probabile ritorno alla presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva che, stando ai sondaggi, dovrebbe battere il Trump tropicale Jair Bolsonaro. 

Molti si sono affrettati a parlare di un ritorno della sinistra al governo, ma questa lettura fotografa solo una parte della realtà. Senza dubbio le macroscopiche disfunzionalità della sanità pubblica, che negli anni è stata smantellata in quasi tutta l’America meridionale a favore dei privati, hanno fatto tornare attuale un’idea del ruolo dello Stato più affine a quella delle sinistre; ma dietro questi risultati elettorali c’è anche un grande rifiuto della politica complessivamente intesa, a prescindere dagli schieramenti. Questa pulsione, presente da sempre nel continente del “¡Que se vayan todos!”, è ulteriormente cresciuta durante la pandemia, quando i privilegi della politica sono stati messi a nudo risultando ancora più insopportabili. Basti pensare al caso del presidente argentino Alberto Fernández, che durante il lockdown partecipava a feste private nella residenza ufficiale. O allo stesso Bolsonaro che, mentre la gente moriva per strada, prendeva in giro chi usava la mascherina e incitava la folla ad assembrarsi. Non importa se questi leader fossero di destra o di sinistra: forse per la prima volta sono stati giudicati per la loro incapacità di governare e per la loro arroganza, quella che li ha portati a pensare di essere al di sopra delle leggi da loro stessi dettate.

I risultati delle ultime elezioni sono figli, insomma, sia della sete di giustizia sociale sia di un diffuso desiderio di vendetta contro il potere e i suoi privilegi. Inizia così una stagione che potrebbe incidere fortemente sulla realtà sudamericana, ma che paradossalmente potrebbe introdurre misure radicali anche di segno opposto rispetto a quelle auspicate dalle proteste popolari. È probabile, ad esempio, che ci sia un ripensamento delle politiche sanitarie e di welfare; ma esiste anche il rischio che cominci una repressione del dissenso e che le proposte politiche avanzate in nome dell’“anticasta” finiscano con il riprendere ideologie economiche restrittive già tristemente sperimentate.

È tempo di outsider, come il colombiano Rodolfo Hernández, l’argentino Javier Milei o i già citati Pedro Castillo e Gabriel Boric. Persone totalmente diverse per cultura politica e civica, accomunate dall’esser state portate al successo dalla pandemia, che ha spazzato via una classe dirigente per spalancare le porte a una nuova. Come accadde dopo la fine della Guerra Fredda, quando in America Latina tornò possibile per le sinistre salire democraticamente al potere, oggi la pandemia permette di trovarsi eletto a chiunque sappia cavalcare il malcontento o riesca a costruire una solida rete di base, come nel caso cileno. Magari senza esperienza, senza una forza politica in parlamento, senza i numeri. E questo diventa un grande rischio per una democrazia che, in questi anni, non ha trasformato le società latinoamericane se non per quanto riguarda i diritti civili individuali. La speranza è che alcuni dei politici agevolati dalle autostrade aperte dalla pandemia, come Boric e, probabilmente, Castillo e Lula, possano ripristinare una leadership progressista nel subcontinente che serva a rinforzare i legami reciproci e a ridare protagonismo a un continente da molto tempo ai margini della scena.