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Il traffico di cocaina, si sa, è uno dei settori dell’economia illecita che più sono cresciuti negli ultimi 30 anni. Il mondo è stato ormai invaso dalla polverina bianca che vive una sua seconda giovinezza. “Seconda” perché la cocaina non è una droga nuova, come quelle di sintesi, ma ha una storia che risale al 1860, quando in un laboratorio tedesco venne isolato il principio attivo della foglia di coca. La cocaina – da non confondere con la foglia di coca, che contiene solo piccolissime quantità di questo alcaloide – si commercializzava in farmacia fino al 1920, quando l’ondata proibizionista la colpì insieme agli oppiacei. Le cronache a cavallo tra la fine dell’800 e i primi del ’900 sono ricche di particolari sulla diffusione della droga che garantiva un rendimento intellettuale e fisico sopra la norma, per poi sviluppare velocemente una tossicodipendenza.

Il divieto di commercializzarla non frenò certò la sua diffusione nei decenni successivi, ma fu a partire dagli anni ’70 che la cocaina divenne una droga veramente globale, grazie alla produzione e alla commercializzazione gestite da cartelli mafiosi.

A differenza del papavero da oppio, che cresce in tanti luoghi del pianeta, la foglia di coca ha una sua “preferenza geografica” proprio per le zone di cui è originaria, i contrafforti andini del Sudamerica. I tentativi di coltivazione fuori da Bolivia, Perù e Colombia non hanno mai dato risultati prosperi. Ed è quindi in questi tre Paesi che si è giocata la “lotta” al narcotraffico: una guerra che da ormai tre decenni è la priorità della politica statunitense per l’America Latina.

Una guerra spesso di facciata, che è servita a giustificare la presenza di militari e di agenti della DEA (Drug Enforcement Administration, l’organismo anti-droghe di Washington) in zone ad alta densità di lotte contadine e a ridosso della foresta amazzonica con le sue infinite risorse. Le tecniche usate sono state la repressione militare e la fumigazione con potenti e cancerogeni diserbanti. La strategia si è rivelata fallimentare: non solo non ha ridotto la coltivazione illegale di coca, ma ha addirittura rinforzato i cartelli criminali che hanno raggiunto, come in Colombia, lo status di “padroni” di intere regioni. E questo è avvenuto senza che i coltivatori di coca ne traessero alcun vantaggio: anzi, i contadini sono stati vittime sia dei narcos sia degli eserciti per un misero guadagno, anche perché sono falliti pure i piani di riconversione.

Mancanza di infrastrutture, distanza dalle città, variazioni dei prezzi di mercato hanno storicamente impedito che il mondo rurale della coca illegale potesse serenamente trovare alternative. Solo negli ultimi anni qualcosa è cambiato, e proprio nel Paese dove erano nati i primi cartelli della droga, la Bolivia. L’attuale governo di Evo Morales, ex sindacalista dei coltivatori della coca, sta raggiungendo risultati significativi. Senza sparare e senza fumigare le piante, ma grazie a investimenti che in questi anni hanno superato il miliardo di dollari per convincere i contadini a riconvertire le piante di coca “eccedenti”, cioè quelle la cui coltivazione non è giustificata dal fabbisogno del mercato legale.

La superficie coltivata a coca in Bolivia è così calata da 31.000 a 20.000 ettari in soli sei anni. Un’estensione che si avvicina di molto a quella ritenuta necessaria per soddisfare il solo consumo tradizionale della foglia, pari a 14.000 ettari. L’abbandono delle coltivazioni di coca è dovuto anche a politiche pubbliche che hanno offerto ai lavoratori concrete alternative, attraverso la costruzione di infrastrutture per il trasporto e la commercializzazione di prodotti agricoli, la formazione tecnica, le nuove industrie di trasformazione alimentare.

Nel frattempo in Colombia, dove da anni si è scelta la “linea dura”, i terreni coltivati a coca sono aumentati da 46.000 ettari a 96.000. E questo nel Paese nel quale gli Stati Uniti negli ultimi decenni hanno speso miliardi e miliardi di dollari per estirpare il problema.

Se l’assioma “dove c’è la mafia non c’è sviluppo” risponde al vero, è vero anche il contrario: dove c’è sviluppo le mafie perdono terreno. La Bolivia è ora impegnata nella depenalizzazione dell’uso della foglia di coca per alimenti e prodotti farmaceutici, come ulteriore passo verso la totale eliminazione delle coltivazioni illegali. La battaglia condotta da un Paese piccolo e povero si sta dunque dimostrando vincente: una lezione pratica per i sostenitori del proibizionismo repressivo, che finisce per foraggiare le mafie senza risolvere il problema.

Alfredo Somoza per #Esteri, Radio Popolare

 

Il dibattito sull’antiproibizionismo nel campo delle sostanze stupefacenti è sempre stato rifiutato dalla politica. Negli ultimi anni, in particolare, le liberalizzazioni sperimentali delle droghe sono state davvero poche, e sempre limitate a quelle cosiddette leggere. Solo partiti molto piccoli si sono battuti per la liberalizzazione, scontrandosi con un muro tanto solido da rifiutare anche il dialogo. Gli antiproibizionisti maggiormente attivi sono stati intellettuali, magistrati ed economisti, più che politici; personalità di tendenze neoliberali, come il noto Milton Friedman, più che veri progressisti.

Sulla guerra alla droga (e su quella per la droga) si sono costruiti momenti importanti della politica estera delle potenze occidentali. A metà dell’Ottocento la Gran Bretagna mosse due guerre d’aggressione alla Cina per riuscire a importarvi l’oppio che gli inglesi producevano nella colonia indiana: Hong Kong fu uno dei trofei di quelle guerre combattute per tutelare la libera circolazione della più antica droga pesante. Proprio dall’oppio, nel 1827, la scienza tedesca era già riuscita a sintetizzare la morfina, e nel 1899 ne avrebbe ricavato anche l’eroina. Ai chimici tedeschi si deve anche la terza droga pesante, la cocaina, sintetizzata nel 1860 dalla millenaria foglia di coca. I laboratori che si erano inventati queste droghe, Merck e Bayer, sarebbero diventati multinazionali di primissimo livello.

Il mondo a cavallo tra l’800 e il 900 ci rimanda una fotografia in negativo della realtà di oggi. Negli Stati Uniti tra il 1919 e il 1933 era vietato consumare alcool, ma le droghe che oggi chiamiamo pesanti si vendevano liberamente in farmacia. La criminalità organizzata si occupava di whisky, non di eroina. Il contrario di ciò che accade ai nostri giorni. Una regola basilare dell’economia di mercato veniva così confermata: un qualsiasi prodotto vietato per il quale c’è richiesta aumenta il suo prezzo e alimenta una rete illegale di fornitori. Quel fornitore illegale, nella Chicago di Al Capone, era la mafia. E fu soprattutto per questo che le autorità decisero di far tornare legale l’alcol.

Parallelamente le pressioni proibizioniste si spostarono sul fronte degli stupefacenti, che a partire dalla Convenzione internazionale del 1961 divennero tutti illegali. Negli anni ‘80 il proibizionismo sulle droghe divenne il cavallo di battaglia della politica estera statunitense nei confronti dell’America Latina e, a guerra fredda finita, fu l’alibi per mantenere una discreta ingerenza nei singoli Paesi del continente. Nel frattempo il mercato globale della droga cresceva a dismisura, arrivando a un giro d’affari stimato in 300 miliardi di dollari annui, metà dei quali prodotti negli USA.

Intere regioni e Paesi latinoamericani sono in guerra aperta contro i cartelli della droga, che però dispongono di risorse inesauribili. In Messico, Guatemala, Honduras si parla addirittura di guerra civile. In Europa, la ’ndrangheta gestisce il fiorente mercato della cocaina grazie ai suoi terminali in diversi Stati americani ed europei. In Oriente, le triadi cinesi curano il mercato dell’eroina dalla coltivazione del papavero da oppio allo smercio delle dosi, rifornendosi nell’Afghanistan in guerra e nella Birmania oppressa dai generali.

La droga disegna una geopolitica mondiale rovesciata: i Paesi produttori di un bene così prezioso sul mercato sono infatti vittime di conflitti, povertà e violenze quotidiane. Più una maledizione che una risorsa. Per questo il presidente del Guatemala, seguito da quelli di El Salvador, Bolivia e Colombia, ha voluto porre la questione della liberalizzazione all’ordine del giorno del fallimentare Vertice delle Americhe che si è tenuto il 14-15 aprile a Cartagena. Perché i governi non ce la fanno più a contrastare lo strapotere dei cartelli, e perché vorrebbero guadagnare qualcosa da questo business globale che esclude i produttori.

La risposta statunitense è stata ovviamente negativa, ma per la prima volta è stato dichiarato che si tratta di un tema sul quale almeno si può discutere. La notizia è dunque che, dopo decenni di chiusura, la politica è disposta a riaprire il dossier sul proibizionismo, che con tutta evidenza è stato uno dei grandi fallimenti del XX secolo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)