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Una dopo l’altra, le tradizioni consumistiche create dagli inventori di eventi commerciali sono diventate ricorrenze mondiali. Negli Stati Uniti, la spettacolarizzazione dell’evento commerciale allo scopo di indurre ad aumentare i consumi ha una lunga storia. Si sono perfino cambiati i simboli e la natura stessa di importanti feste tradizionali, per esempio trasformando Babbo Natale in un testimonial della Coca-Cola, oppure facendo dell’antica celebrazione celtica di Halloween il momento clou dell’anno per i produttori di maschere horror e dolciumi. Ma il massimo lo si è raggiunto negli anni ’50 con l’invenzione del cosiddetto Black Friday, ricorrenza puramente commerciale: “cade” il giorno successivo alla Festa del Ringraziamento, quando gli statunitensi dovrebbero ricordare e ringraziare i nativi amerindi che salvarono i padri pellegrini da un inverno altrimenti destinato a cancellarli dal Nuovo Mondo, insegnando loro a coltivare mais e allevare tacchini. È un paradosso della storia, i salvatori non solo sono stati eliminati fisicamente, ma sono anche scomparsi dalla memoria collettiva: quasi nessuno sa che il giorno del Black Friday sarebbe anche il Native American Heritage Day.

Il Black Friday segna ufficialmente l’apertura delle vendite natalizie, con una logica rovesciata rispetto all’Europa: da noi i saldi si fanno alla fine della stagione, negli Stati Uniti all’inizio. Pare che l’aggettivo “nero” che colora questa giornata sia dovuto all’imbottigliamento del traffico che si produsse a Filadelfia in una delle sue prime edizioni. Oggi la sagra del consumo dura più di un fine settimana, si conclude infatti con il Cyber Monday, dedicato al mondo dell’informatica, e ha raggiunto confini globali. Non c’è nessuna particolare affinità culturale, sociale o politica che accomuni i consumatori dei vari Paesi che si lanciano alla ricerca di offerte nei negozi o su internet: è la sublimazione del consumo puro ed effimero, indotto e trasversale a ogni altra categoria.

Idealmente, il Black Friday è anche complementare alle strategie di “invecchiamento precoce” dei prodotti elettronici. Smartphone, computer, tablet sono progettati per non durare più di tanto e, soprattutto, in modo che non sia facile o conveniente ripararli. Se questi (e altri) beni non devono avere una vita lunga, ecco che il Black Friday e il Cyber Monday divengono acceleratori del ricambio. Solo molto recentemente si è cominciato a mettere in discussione la cosiddetta “obsolescenza programmata”, ma ancora senza intaccare un ciclo di consumi sempre più veloce, che non vuole fare i conti né con la limitatezza delle risorse naturali né con i problemi ambientali legati alla produzione e allo smaltimento delle merci. È una corsa antica che ormai ha superato ogni limite, per quanto la retorica aziendale faccia un uso indiscriminato dell’aggettivo “sostenibile”.

Per un weekend, il Black Friday riesce a cancellare i sensi di colpa anche dei consumatori minimamente consapevoli perché, alla fine, la tentazione di fare il classico “affarone” diventa irresistibile.

Per tutte queste ragioni, il Black Friday è la festa consumistica che meglio racconta i nostri tempi. Una volta si era più poveri e si consumava molto meno, ma non c’era solo un’austerità obbligata: c’era anche una scala di valori che rifiutava lo spreco, a partire da quello alimentare, e lo scarto di beni che potevano ancora essere utili. Gli oggetti vivevano a lungo, accompagnavano intere esistenze e spesso si tramandavano da una generazione all’altra. Quale nostro oggetto di consumo potrà essere utilizzato da un nostro figlio? Probabilmente nessuno. L’ex presidente dell’Uruguay José “Pepe” Mujica ha detto qualche anno fa: «Quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli». E il tempo di ciascuno di noi, quello che spesso dilapidiamo, è la misura della nostra libertà.

Una dopo l’altra, le tradizioni consumistiche create dagli inventori di eventi commerciali sono diventate ricorrenze mondiali. Negli Stati Uniti la spettacolarizzazione dell’evento commerciale allo scopo di indurre al consumo ha una lunga storia. Si è perfino cambiata la natura delle feste tradizionali, per esempio trasformando Babbo Natale in un testimonial della Coca Cola, oppure facendo dell’antica festa celtica di Halloween il momento clou dell’anno per i fabbricanti di maschere e di dolciumi. Ma il massimo lo si è raggiunto con il cosiddetto Black Friday, ricorrenza puramente commerciale che “cade” il giorno successivo alla Festa del Ringraziamento, quando gli statunitensi dovrebbero ricordare i nativi che salvarono i padri pellegrini da un inverno altrimenti destinato a cancellarli dal Nuovo Mondo, insegnando loro a coltivare mais e allevare tacchini. È un paradosso della storia: i salvatori non solo sono stati eliminati fisicamente, ma sono anche scomparsi dalla memoria collettiva.

Il Black Friday segna ufficialmente l’apertura delle vendite natalizie, con una logica rovesciata rispetto all’Europa: da noi i saldi si fanno alla fine della stagione, negli Stati Uniti all’inizio. Pare che il “nero” che colora questo venerdì sia dovuto all’imbottigliamento del traffico che si produsse a Filadelfia durante la prima edizione di questa grande svendita. Oggi i confini della sagra del consumo, che dura un fine settimana e si conclude con il Cyber Monday dedicato al mondo dell’informatica, sono globali. Non c’è nessun collegamento culturale, sociale o politico tra i consumatori dei vari Paesi che si lanciano alla ricerca di offerte nei negozi o su internet. È la sublimazione del consumo puro, indotto ed effimero.

Idealmente, il Black Friday è anche complementare alle strategie di invecchiamento anticipato dei prodotti elettronici. Smartphone, computer, tablet non devono durare più di tanto, e soprattutto non deve essere conveniente ripararli. E se questi (e altri) beni non devono avere una vita lunga, ecco le opportunità, come il Black Friday e il Cyber Monday, per accelerare il ricambio. Solo molto recentemente si è cominciato a mettere in discussione la cosiddetta “obsolescenza programmata”, ma ancora senza intaccare un ciclo di consumi sempre più veloce, che non vuole fare i conti né con la limitatezza delle risorse naturali né con i problemi ambientali legati alla produzione e allo smaltimento delle merci. A questo proposito la teoria della decrescita, ingiustamente bersagliata da sarcasmi e battute, racconta cose interessanti, soprattutto che si può essere felici e più sostenibili se diamo alle cose il loro giusto valore. Se ci ri-educhiamo al consumo, se scegliamo oggetti e strumenti di lavoro che durino nel tempo, se impariamo ad aggiustare le cose. Questo non significa essere più poveri, anzi, ma tornare a essere più ricchi di un bene prezioso che ormai ci sfugge di mano: il tempo per noi stessi e per gli altri.

In realtà una volta la vita funzionava così. E in quel caso sì, si era più poveri, ma non si trattava solo di austerità obbligata, c’era anche una scala di valori che rifiutava lo spreco alimentare e lo scarto di cose che potevano ancora essere utili. Gli oggetti ci accompagnavano a lungo e spesso si tramandavano da una generazione all’altra. Quale nostro oggetto di consumo potrà essere utilizzato da un nostro figlio? Probabilmente nessuno. L’ex presidente dell’Uruguay José Pepe Mujica ha detto, qualche anno fa: «Quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli». Il tempo di ciascuno di noi, e che spesso dilapidiamo, si chiama infatti libertà.