Se non fosse tragico sarebbe comico. Secondo l’ultimo report della Banca Mondiale, l’obiettivo delle Nazioni Unite di dimezzare la povertà entro il 2030 è ormai irraggiungibile. E chi lo avrebbe mai detto? Il libro dei sogni dell’ONU sul raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile si dimostra per quello che è sempre stato: un insieme di indicazioni ovvie e scontate che prescindono dalle politiche, dalle dinamiche globali, dagli effetti dei cambiamenti climatici e perfino dalla storia. Quando si scrive, ad esempio, che entro il 2030 si dovranno assicurare a tutte le persone uguali diritti all’accesso ai servizi di base e alle risorse economiche, senza spiegare come né con quali strumenti, si vende solo aria fritta. E infatti il report della Banca Mondiale ci dice che le cose stanno andando in modo ben diverso. In pratica, nella lotta alla povertà si è perso un decennio: anziché diminuire, l’indigenza è aumentata, soprattutto dopo la pandemia. Oggi circa 700 milioni di persone, l’8,5% dell’umanità, vivono con meno di 2,15 dollari al giorno, soglia di povertà estrema; più del 40% della popolazione globale è tecnicamente povero, avendo un reddito inferiore a 7 dollari al giorno. I 26 Paesi più poveri, che ospitano il 40% di tutti gli indigenti del mondo, sono anche tra gli Stati più indebitati. Secondo lo studio, per eliminare la povertà bisognerebbe garantire un reddito di almeno 25 dollari a persona al giorno, pari allo standard minimo di prosperità: significa quintuplicare il reddito medio mondiale. Nel report, come ulteriore fattore peggiorativo è stato valutato l’impatto dei cambiamenti climatici in termini di impoverimento del mondo agricolo e di aumento dei flussi migratori. Il panorama che ne esce non è sicuramente positivo. Una notizia parzialmente buona è invece la diminuzione, nell’ultimo decennio, dei Paesi con marcate disuguaglianze economiche, problema che però coinvolge ancora 1,7 miliardi di persone, soprattutto in America Latina e Africa subsahariana.

Nel complesso, i dati dimostrano dunque che non si è fatto nulla di concreto per raggiungere gli obiettivi stabiliti dall’Agenda 2030. La pandemia ha messo in luce l’estrema vulnerabilità dei poveri in Paesi dove il sistema sanitario pubblico è inesistente o troppo precario per farsi carico di un’emergenza. Lo stesso vale per l’impatto del cambiamento climatico, che ha esiti diversi sul reddito degli agricoltori dei Paesi che sovvenzionano la produzione, e coprono i danni, di quelli che lavorano dove gli Stati sono soltanto entità nominali. Discorso identico si può fare sui sistemi scolastici impoveriti e sull’accesso delle donne all’istruzione, ancora difficile in molti contesti. Sono troppe e troppo profonde le disparità economiche, che intersecano quelle di genere e ambientali, tra i diversi Stati della Terra. Proprio per questo le ricette generaliste sono parole al vento.

Nel report della Banca Mondiale c’è un capitolo dedicato a come porre rimedio al quadro fallimentare appena descritto. Qui, ancora una volta, si scrivono parole di buon senso che nessuno disapproverebbe, ad esempio “per ridurre la povertà è quindi necessaria una crescita economica sostenibile, a più basso impatto di gas serra. […] I Paesi più poveri dovrebbero investire nella creazione di posti di lavoro, nel capitale umano e nelle infrastrutture”. Tutto bello, ma allo stato dell’arte queste parole e questi consigli lasciano il tempo che trovano. Con le parole e le banalità non si sono mai cambiate le cose: purtroppo, gli enti multilaterali che dovrebbero guidare un cambiamento nel mondo sono prigionieri di ricette miracolose che funzionano soltanto nella letteratura fantasy.

In un’economia globalizzata, la ricerca della cosiddetta “ottimizzazione della ricchezza” porta spesso individui e aziende a frequentare un mondo poco noto ma molto influente: quello dei paradisi fiscali. Non sono solo isole esotiche ma anche Paesi europei, come Irlanda, Lussemburgo, Svizzera e Paesi Bassi, tutti citati nella Top 10 stilata dal Tax Justice Network nel suo report più recente. Ne fanno parte anche tre territori dipendenti dal Regno Unito: le Isole Vergini, le Cayman e le Bermuda. Un paradiso fiscale è caratterizzato in primo luogo da tasse basse o nulle, facilità di creazione di entità legali e di sistemi, soprattutto bancari e finanziari, difficili da penetrare per le autorità straniere. Funziona attraverso reti intricate di società di comodo, trust e conti offshore: tutto è tecnicamente legale, ma è progettato per sfruttare le lacune nella normativa fiscale internazionale.

La natura più segreta dei paradisi fiscali è stata portata alla ribalta globale da una serie di fughe di notizie iniziata con i Panama Papers del 2016: una raccolta di 11,5 milioni di documenti riservati che riguardavano politici, celebrità e magnati, protagonisti di schemi di evasione fiscale offshore. Nel 2017 una nuova fuga di notizie, quella dei Paradise Papers, ha rivelato il ricorso a paradisi fiscali offshore da parte di alcune delle più ricche multinazionali, tra cui Apple, Nike e Uber, oltre a figure pubbliche come la regina Elisabetta II. Più recentemente, i Pandora Papers del 2021 hanno evidenziato come le élite continuino a nascondere enormi quantità di ricchezza. Secondo stime attendibili, fino a 32 trilioni di dollari sarebbero “parcheggiati” in centri finanziari offshore, privando i governi di importanti entrate fiscali. Queste rivelazioni hanno riacceso il dibattito sul ruolo dei paradisi fiscali nelle diseguaglianze globali: mentre i ricchi e le grandi aziende ricorrono a giurisdizioni privilegiate per eludere i loro obblighi con il fisco, i contribuenti ordinari sono costretti a farsi carico delle voragini che si aprono nelle casse pubbliche.

Forse l’uso più sistematico dei paradisi fiscali è quello che ne fanno le maggiori multinazionali. Alcune delle più grandi e redditizie aziende al mondo, come la già citata Apple, Google, Amazon e Facebook, sono state accusate di aver creato strutture fiscali complesse proprio per spostare i profitti verso giurisdizioni a bassa tassazione, riducendo così in modo significativo le loro passività fiscali nei Paesi in cui effettivamente operano. Lo strumento più gettonato in Europa è il cosiddetto “Double Irish with a Dutch Sandwich”, una triangolazione che sposta i profitti tra sussidiarie irlandesi e olandesi prima di farli confluire verso paradisi fiscali caraibici. Per porre un limite a questo gioco sporco, l’OCSE ha promosso un accordo fiscale globale, sottoscritto dai Paesi del G7, che impone un’aliquota minima del 15% sui profitti. Tuttavia, i critici sostengono che questa misura, pur costituendo un passo nella giusta direzione, non è sufficiente per affrontare i problemi posti dai paradisi fiscali, soprattutto per i Paesi del Sud globale che sono colpiti in modo proporzionalmente più pesante dalla fuga di capitali verso giurisdizioni offshore. Secondo le Nazioni Unite, ogni anno i Paesi in via di sviluppo perdono circa 100 miliardi di dollari a causa dell’evasione o elusione fiscale delle multinazionali. Queste perdite per molti Stati poveri rappresentano una parte significativa del PIL e aggravano l’ineguaglianza, drenando risorse che potrebbero essere utilizzate per erogare servizi ai cittadini.

I paradisi fiscali sono così diventati un campo di battaglia nella lotta per la giustizia economica. Tuttavia, i sistemi finanziari dei paradisi fiscali sono profondamente radicati e molti Paesi hanno un interesse diretto a mantenere lo status quo. Inoltre, la complessità delle leggi fiscali internazionali fa sì che anche le riforme animate da buone intenzioni possano essere facilmente aggirate.

Il mondo diventa sempre più interconnesso, gli scambi finanziari e il dibattito sui paradisi fiscali continueranno a evolversi, ma la domanda rimane la stessa: l’economia mondiale, che ha prosperato su questi meccanismi, potrebbe sopravvivere all’equità fiscale? La risposta non è scontata, e potrebbe cambiare il futuro della globalizzazione.

La definizione “Sud globale” è sempre più utilizzata nel linguaggio comune, la stampa ne fa ampio uso quando si parla di politica o di economia, ma il suo significato e le sue implicazioni restano poco chiari. In senso lato, con “Sud globale” ci si riferisce a tutte le regioni del mondo che sono state storicamente relegate ai margini dei sistemi economici globali: dunque l’America Latina, l’Africa e gran parte dell’Asia. Moltissimi Stati, dunque, che condividono una storia di colonialismo, sottosviluppo economico e, in molti casi, instabilità politica. Il concetto di Sud globale non è dunque solo geografico ma anche e soprattutto socio-economico, e spesso comprende questioni di disuguaglianza, dinamiche di potere e governance. L’espressione, insieme a quella simmetrica di Nord globale, si è affermata nella seconda metà del XX secolo per descrivere sinteticamente la divisione tra Paesi ricchi e industrializzati (Nord) e Paesi più poveri e meno sviluppati (Sud), sostituendo definizioni ormai obsolete come “Terzo Mondo” o “Paesi in via di sviluppo”, viste come poco rispettose e troppo semplicistiche. Il limite di entrambe le definizioni – Nord e Sud globale – è che a un primo impatto suggeriscono una distinzione geografica, mentre fanno riferimento soprattutto alle condizioni socio-economiche e alle esperienze storiche delle regioni che vi rientrano. Per fare un esempio banale, Australia e Nuova Zelanda si trovano nell’emisfero meridionale ma sono generalmente considerate parte del Nord globale in virtù dei loro alti livelli di ricchezza e sviluppo; discorso contrario vale per diversi Stati dell’Africa centro-settentrionale e dell’America centrale, regione che fa geograficamente parte dell’emisfero settentrionale.

Le radici comuni dei Paesi del Sud globale sono dunque da cercare nella storia del colonialismo che ha fortemente segnato gran parte dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Le economie dei territori colonizzati venivano infatti organizzate allo scopo di favorire lo sviluppo degli Stati colonizzatori piuttosto che le popolazioni locali; perciò, dopo aver ottenuto l’indipendenza, molte di queste nazioni si sono ritrovate economicamente svantaggiate, con infrastrutture deboli, capacità industriale limitata e alti livelli di povertà. Di conseguenza, il Sud globale è rimasto caratterizzato dalla dipendenza dal Nord globale per quanto riguarda gli scambi commerciali, lo sviluppo tecnologico e gli investimenti.
Nel Sud globale rientrano Paesi tra loro inevitabilmente eterogenei, che tuttavia condividono alcune caratteristiche che li differenziano da quelli del Nord, ad esempio le elevate disparità economiche, gli alti tassi di povertà, l’instabilità economica e la dipendenza dalle esportazioni di materie prime e prodotti agricoli. Mentre nel Nord globale le economie sono spesso diversificate, quelle del Sud sono più vulnerabili alle fluttuazioni del mercato internazionale, agli shock dei prezzi delle materie prime e alle crisi del debito estero. Altro tratto comune sono le disuguaglianze sociali pronunciate, le disparità di reddito, di istruzione, di assistenza sanitaria e di accesso alle risorse. Importanti sono anche i problemi di governance, con istituzioni deboli, alti livelli di corruzione e talvolta regimi autoritari. A tutto ciò si aggiunge una maggiore vulnerabilità agli effetti del cambiamento climatico, nonostante questi Stati abbiano contribuito meno degli altri alle emissioni globali di gas serra. E molti di questi Paesi mancano delle risorse finanziarie e delle infrastrutture tecnologiche necessarie per adattarsi a queste sfide e mitigare le conseguenze del riscaldamento globale.

La globalizzazione ha avuto un impatto profondo sul Sud globale. Da un lato, ha offerto opportunità di crescita e sviluppo grazie all’accesso ai mercati internazionali, agli investimenti esteri e alla tecnologia. Molti Stati asiatici, ad esempio, grazie alla globalizzazione hanno vissuto una rapida industrializzazione e crescita economica. D’altro canto, la globalizzazione ha anche approfondito le disuguaglianze tra i Paesi e al loro interno: alcune regioni del Sud globale, in particolare nell’Africa subsahariana, sono state lasciate indietro, incapaci di competere nel mercato mondiale a causa di infrastrutture sottosviluppate, mancanza di tecnologia e cattiva governance. In campo internazionale, il Sud globale si trova spesso in una posizione di svantaggio: istituzioni come l’ONU, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono dominate dal Nord, e le loro politiche riflettono spesso gli interessi di quelle nazioni. Successivamente, la nascita della coalizione G77 e del gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) ha dato al Sud globale una voce più forte negli affari internazionali.

Sebbene rimanga utile per evidenziare le disuguaglianze a livello planetario, il concetto di Sud globale non è immune alle critiche. Alcuni sostengono che appiattisca e semplifichi eccessivamente le esperienze diverse dei Paesi che vi rientrano. Ad esempio, Cina e India sono importanti attori economici globali, mentre altri Stati, come quelli dell’Africa subsahariana, rimangono poverissimi. Inoltre, all’interno dei Paesi del Sud globale esistono significative differenze regionali, etniche e di classe che il termine non cattura.

In sintesi, il concetto di Sud globale è uno strumento utile per comprendere la disuguaglianza tra e nei Paesi del mondo ed evidenziare l’eredità del colonialismo, ma non è privo di limiti, perché riunisce sotto un’unica etichetta una gamma diversificata di Stati con esperienze differenti. Se però la si usa in modo consapevole, rimane l’espressione più efficace per evidenziare le sfide persistenti della povertà, della disuguaglianza e della marginalizzazione politica in un mondo in cui la distribuzione del potere e delle risorse rimane profondamente diseguale.

La cifra è difficile anche solo da immaginare, 312 trilioni di dollari, ossia 312mila miliardi, pari al 328% del PIL mondiale. A tanto ammonta il debito pubblico complessivo registrato dal Global Debt Monitor dell’IIF, l’Istituto della Finanza Internazionale di Washington: nella prima metà del 2024 è cresciuto ancora rispetto agli anni precedenti. Gli aumenti più significativi arrivano da Stati Uniti e Cina, ma anche da India e Russia. In controtendenza buona parte dell’Europa e il Giappone. Quello del debito è un tema scivoloso, spesso se ne parla limitatamente alla questione del debito estero associandolo ai Paesi del Sud globale, che hanno economie piuttosto modeste. Invece, il grosso del debito pubblico mondiale è stato accumulato dai Paesi di vecchia industrializzazione, basti pensare che i soli Stati Uniti hanno emesso un terzo di tutto il debito globale, il 15% si deve ai membri dell’UE e l’11% al Giappone. Un altro 15% è da attribuire alla Cina. Eppure, almeno secondo la stampa, i malati cronici di debito sarebbero Turchia, Argentina, Grecia, Egitto e Zimbabwe… che non pesano più del 2% sul totale del debito mondiale. Al di là di queste “stranezze” mediatiche, quali possono essere le conseguenze della corsa all’indebitamento? Anzitutto, la quota crescente di risorse che i governi dei Paesi più indebitati devono destinare al pagamento degli interessi, che significa tagli sempre più pesanti ai servizi erogati. All’orizzonte non si vede un cambio di tendenza, si continua a far pagare ai cittadini (tra l’altro sempre più tassati) il prezzo dei cattivi investimenti e del malfunzionamento degli Stati, e in diversi casi della corruzione.

Le regole di una sana contabilità, che tenga conto di quanto si incassa e quanto si spende, sono ormai estranee alla logica con la quale si emettono titoli di debito, che non sono altro che la certificazione dell’incompetenza accumulata negli anni nella gestione della cosa pubblica. Il ricorso al debito non è certo una prassi da condannare in sé, anzi, è uno strumento utilissimo se si tratta di fare investimenti produttivi, ad esempio per ammodernare infrastrutture o agevolare l’acquisto di beni immobili. Ma la logica alla base di ogni investimento è che, nel tempo, esso comporti un guadagno anche economico, che consenta di ripagare il debito. Questa logica elementare scompare quando entra in campo la politica, che spesso considera solo l’impatto che una misura avrà in termini di consenso elettorale. Opere faraoniche ma poco utili, welfare populista, pensioni senza una base impositiva adeguata, aspirazioni da potenza militare, favori a categorie produttive o a grandi imprese “amiche”, salvataggi onerosi al sistema bancario… Il gigantesco debito pubblico odierno nasce dall’insieme di tutti questi fattori, che trasformano un semplice strumento finanziario in un cappio al collo per le future generazioni. I giovani di oggi e di domani difficilmente avranno una pensione decente alla fine della loro carriera lavorativa, per giunta dovranno ricorrere in modo crescente a servizi privati per la salute e l’istruzione. Dovranno, insomma, pagare la cattiva amministrazione della cosa pubblica e gli eccessi dei loro nonni.

La percezione comune del problema del debito pubblico ha molti punti in comune con quella del cambiamento climatico. Esiste una diffusa consapevolezza del fatto che non è una cosa buona, che bisognerebbe fare qualcosa… Ma, in fin dei conti, si può aspettare ancora un altro po’: finché qualcuno comprerà quel debito, i cui interessi vengono pagati dai cittadini sulla propria pelle, spesso senza che se ne rendano conto, la ruota continuerà a girare. È una pia illusione, come è un’illusione che si possa rimandare un serio intervento contro il riscaldamento globale, ma ci permette di dormire la notte. Perché in fondo, anche se non è vero, il problema di tutti è il problema di nessuno, il debito di tutti è il debito di nessuno.

Quelle che dovevano essere garanzie per i consumatori sono diventate, per molti aspetti, realtà opinabili. Stiamo parlando delle certificazioni: quelle dei prodotti alimentari come quelle delle materie prime per la costruzione, dei prodotti delle estrazioni minerarie e dei contratti di lavoro. Tutte, ormai da tempo, prestano il fianco alle critiche e spesso hanno perso ogni credibilità. I motivi sono numerosi. Anzitutto il costo delle certificazioni stesse, che risulta alto per i piccoli produttori ma basso per le grandi multinazionali, che per giunta possono facilmente aggirare i parametri stabiliti dai certificatori e i relativi controlli. Nel settore dell’industria, ad esempio, l’aggiramento avviene grazie alla rete di subforniture, caso che si verifica tipicamente in Cina. Diverse lavorazioni vengono affidate a piccoli imprenditori che non rispettano i parametri ambientali o l’età minima dei lavoratori impegnati: queste realtà conferiscono poi i prodotti ad aziende più grandi e certificate che “dimenticano” la provenienza di alcune parti della filiera di lavorazione. Nel settore agricolo il tema si fa ancora più complesso. Il recente Regolamento europeo 2023/1115 contro la deforestazione, che entrerà in vigore a dicembre del 2024, prevede ad esempio che le importazioni nell’Unione europea di materie prime o semilavorati extra UE non siano frutto di deforestazioni avvenute dal 2020 in poi. In questo modo si attua una sanatoria per tutti gli scempi ambientali commessi prima di tale data, ossia i primi 30 anni di globalizzazione, e si rilascia una patente di sostenibilità a imprese che senza dubbio hanno deforestato negli anni precedenti, vuoi per creare piantagioni di olio di palma, pascolo per bovini o coltivazioni di soia, vuoi per lo sfruttamento diretto del legname. Va aggiunto che è oggettivamente difficile certificare che non ci siano state distruzioni di foresta negli ultimi quattro anni e dunque questa pregiudiziale, almeno in teoria, si può prestare a un uso strumentale, diventando un’arma di ritorsione contro l’export di alcuni Paesi.

Intanto, il Regolamento europeo sta già creando tensioni internazionali. Spicca il caso del Brasile, che vorrebbe proteggere la propria industria dell’auto elettrica dalla concorrenza europea e che minaccia di non certificare la propria produzione agroindustriale se non si raggiungerà un accordo anche sul versante dell’industria automobilistica: auto versus cibo, insomma, a dimostrazione che ciascuno utilizza le armi a disposizione per non perdere il proprio ruolo nella globalizzazione. A pagare, alla fine, sono sempre l’ambiente e le persone che vivono nelle aree interessate dalla deforestazione. Ma che cosa si produce maggiormente nelle zone considerate critiche, dall’Amazzonia brasiliana fino alle foreste indonesiane? Cibo e minerali indispensabili per alimentare il grande mercato globale, e soprattutto la tavola e l’industria dei Paesi più ricchi, affamati di carne e foraggio per il bestiame, ma anche terre rare, legname, litio e rame. Non bisogna poi dimenticare il ruolo della Cina, grande acquirente di queste stesse commodities, che di certo non si fa problemi di natura etica o ambientale.

La certificazione richiesta dall’Europa, a questo punto, diventa un’arma spuntata. Riassumendo, da un lato il nuovo regolamento cancella anni di distruzione ambientale, dall’altro lo si può aggirare facilmente e, al limite, chi deforesta si potrà rivolgere ad altri acquirenti; infine, diventa moneta di scambio nelle piccole e grandi guerre commerciali che imperversano nel mondo. L’ambiente, e le persone che vivono nelle foreste e di agricoltura, come sempre possono aspettare. Si gira all’infinito attorno al vero punto nodale che non solo non viene affrontato ma non può nemmeno essere nominato, ed è il nostro modello di consumo. Finché continueremo a divorare foreste per produrre sempre più cibo, spesso destinato agli animali da allevamento, biocombustibili e olio di palma per le creme spalmabili, e ad estrarre metalli per una transizione energetica che non fa realmente i conti con la Terra, non ci sarà certificazione che tenga. Continueremo come ora, con una minoranza di consumatori che si sente tutelata dal marchio di garanzia e una maggioranza che ritiene, a torto o a ragione, che lo sviluppo economico è un diritto, costi quel che costi. 

Non basta dire fame, ci sono molti modi per soffrirla: spesso la fame non è dovuta solo alla carenza di cibo ma anche alla scarsa qualità di ciò che si mangia. Secondo la FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, nel 2023 tra 720 e 750 milioni di persone hanno vissuto in condizioni di denutrizione. Il Covid-19 è stato un drammatico acceleratore: le persone a rischio fame nel mondo sono cresciute di oltre 150 milioni rispetto al periodo pre-pandemia. 750 milioni di persone sono il 9% circa dell’umanità, cioè un essere umano su undici, ma se si considera la sola Africa questo dato diventa una persona su cinque. La mappa di chi soffre la fame, infatti, riflette il quadro sociale generale delle diverse aree geografiche. Sono il 20,4% in Africa, l’8,1% in Asia, il 7% in Oceania e il 6,2% in America Latina. Tante, troppe persone per un mondo che non ha mancanza di terre da coltivare, ma che sta progressivamente erodendo la superficie agricola utile a sfamare l’umanità destinando terreni fertili alla produzione di biocombustibili o di primizie per i mercati ricchi. A questo si aggiunge il cambiamento climatico, che colpisce in modo particolare i piccoli e piccolissimi agricoltori, privi delle risorse necessarie per fronteggiarne le conseguenze. Altra concausa della fame in aumento sono i conflitti, da quelli di vasta portata e sotto i riflettori, come la guerra russo-ucraina che ha fatto diminuire la fornitura di cereali all’Africa, a quelli meno noti, ma che incidono su popolazioni che vivono di agricoltura di sussistenza e che, dovendosi spostare dalle loro terre, si trovano costrette a comprare cibo senza averne la possibilità economica. Sono infatti le popolazioni rurali, e le donne in particolare, i soggetti più presenti nella mappa della fame.

Più in generale, la FAO calcola che nei Paesi a basso reddito circa il 70% della popolazione non può permettersi un’alimentazione sana; la quota scende al 50% nei Paesi a reddito medio-basso, al 21% in quelli a reddito medio-alto e al 6% nei Paesi ricchi. La cattiva alimentazione sta causando una vera e propria epidemia di obesità tra i più poveri, con l’aumento esponenziale delle malattie cardiache, respiratorie e del diabete: statisticamente, muoiono più persone per via del cibo “spazzatura” che per la mancanza di cibo.

L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite ipotizzava la fine della fame e della malnutrizione entro il 2030: a sei anni dalla data prefissata è evidente che anche questo obiettivo è entrato a far parte del libro dei sogni della comunità internazionale, che indica date e scadenze per risolvere problemi gravissimi senza spiegare concretamente come raggiungere il traguardo e, soprattutto, senza fare nulla in concreto perché ciò possa accadere. I punti centrali di un’agenda credibile ma ancora non scritta sarebbero: sostegno all’agricoltura di sussistenza e controllo dell’espansione delle monoculture, del land grabbing e dell’industria delle primizie. Infatti a differenza del passato, quando le carestie erano causate quasi esclusivamente dall’impossibilità di produrre cibo per fenomeni climatici avversi o guerre, oggi la fame è dovuta in gran parte alla distribuzione squilibrata del cibo, all’evoluzione del sistema agricolo e alle mode alimentari, in poche parole al grande mercato globale del cibo e della terra. Il cibo-bene comune non esiste più – se è mai esistito – e la sicurezza alimentare è una variabile che sottostà alla domanda del mercato. Un mercato che punta sempre di più sulle nicchie e sulle produzioni ad alto valore, abbandonando progressivamente le coltivazioni “salva-vita” come i cereali. La fame odierna, dunque, non è più la mera mancanza di cibo, bensì la cartina di tornasole di un mondo nel quale i leader politici parlano sì di lotta alla povertà, ma quando si arriva al dunque il divario tra chi può permettersi di mangiare, magari in modo sano, e chi no resta incolmabile.   

Era già successo alla fine del‘l’800 con la Guerra del Pacifico, quando Bolivia e Perù si scontrarono con il Cile per il controllo di ricchissimi giacimenti di salnitro, fondamentale per la fabbricazione della polvere da sparo. Da sempre, le materie prime necessarie all’industria bellica sono focolai di tensioni o, appunto, di guerre. L’andamento odierno dei prezzi delle materie prime strategiche è un segno del capovolgimento delle priorità dell’industria globale ai tempi della moltiplicazione dei conflitti. Il prezzo del litio, metallo imprescindibile per la transizione energetica, è crollato dell’70% in meno di un anno a causa del rallentamento della produzione di batterie per le auto elettriche dovuto alla diminuzione della domanda da parte dei consumatori. Il cambiamento climatico è tornato ancora una volta ad essere eclissato da altre emergenze, questa volta di carattere militare. Lo si può dedurre dall’aumento del prezzo dell’antimonio e del rame, che entro il 2026 assorbirà il 15% dell’offerta globale di rame raffinato. Il cobalto e la grafite vengono invece usati nei motori dei caccia e nei missili di precisione e sono considerati i metalli più strategici, così come l’alluminio, presente in tutte le forniture militari. Anche il titanio è fondamentale per gli aerei da combattimento, e può costituire fino al 20% del loro peso. La questione del prezzo di queste materie prime diventa però secondari di fronte alla situazione geopolitica. Su tredici metalli strategici, otto sono praticamente monopolizzati dalla Cina, due da un suo paese satellite, la Repubblica Democratica del Congo, e uno da un suo alleato, il Brasile. Come per la transizione energetica, anche per lo sviluppo dell’industria bellica il ruolo di Pechino è centrale. È una situazione che mina alle fondamenta l’arma delle ritorsioni economiche oe delle sanzioni contro la Cina in caso di contrasti commerciali. I Paesi occidentali, sul fronte delle materie prime necessarie alle industrie più all’avanguardia, camminano sulle uova. Se Pechino scegliesse di adottare ritorsionie, non si preoccuperebbe della mancanza di vino, carne di maiale, gorgonzola o pinot nero: saremmo noi a non poter rinunciare a litio, cobalto, titanio e terre rare. I dirigenti cinesi sanno bene che Stati Uniti e Unione Europea non isono assolutamente in grado di fare fronte a un blocco delle importazioni dalla Cina e questo ha un peso nel momento in cui si decide di sostenere l’Ucraina, contrariamente alle volontà della Cina, che vuole sì un negoziato, ma che sia vantaggioso per il suo alleato-vassallo russo. Non era mai successo che potenze militari globali fossero così dipendenti da fornitori di materie prime strategiche non controllabili politicamente, come invece accadeva per le colonie dell’impero britannico. Questa situazione si è andata a creare negli anni nel totale disinteresse occidentale, mentre la Cina da una parte diventava potenza di riferimento per i Paesi poveri, ma ricchi di materie prime, dall’altra metteva in piedi un settore industriale capace di lavorarle e commercializzarle in tutto il mondo. A lungo termine, la strategia della tela del ragno attuata da Pechino si è dimostrata molto più lungimirante della politica delle cannoniere, che rischiano di restare senza colpi da sparare.

Da qualche anno la geopolitica si è presa la sua rivincita sull’economia. Il mercato globale aperto agli investimenti, alle delocalizzazioni e alla circolazione di capitali, che si ipotizzava avrebbe creato un nuovo ordine dopo la fine della Guerra Fredda, ha fallito. E, contro ogni previsione, la guerra è tornata a essere uno strumento per la risoluzione dei conflitti. Guerra guerreggiata come in Ucraina o a Gaza, oppure minacciata, come sta accadendo al largo di Taiwan e lungo la frontiera israeliana con il Libano. La corsa al riarmo ha raggiunto picchi che non si verificavano da decenni mentre la diplomazia gira a vuoto, con le potenze occidentali che lanciano appelli sempre meno ascoltati dal blocco di Paesi che si è aggregato politicamente attorno alla potenza cinese.

Anche la globalizzazione sta mutando velocemente, con una maggiore regionalizzazione degli scambi e il tentativo, da parte di molti Stati, di ripristinare il controllo su materie prime e lavorazioni strategiche. Alla fase “allegra” degli anni ’90, quando le multinazionali occidentali trasferivano tecnologie anche di punta in Oriente, è subentrata la fase del ritorno degli Stati come primi investitori nella competizione mondiale, nel tentativo di raggiungere la massima autonomia possibile nella fabbricazione di semiconduttori e batterie, e di reperire le materie prime strategiche per la transizione energetica. Sono tutti settori nei quali primeggia Pechino, a lungo lasciata indisturbata nella sua progressiva espansione politica ed economica nelle periferie del mondo, ignorate da tutti gli altri o quasi: e così la Cina oggi si ritrova monopolista in diversi settori chiave. Se un bilancio si può fare, è proprio che il gigante asiatico è la potenza che ha tratto i maggiori benefici dell’apertura mondiale dei mercati. Un’apertura che ha cambiato anche la società cinese, ma senza intaccare la struttura politica dello Stato, che rimane almeno sulla carta quella di una grande nazione comunista. L’Occidente, invece, per molti Paesi terzi è diventato un partner inaffidabile, che non riesce a tutelare i propri interessi né a proteggere i propri alleati. Ucraina, Gaza, Siria, Afghanistan, Myanmar, Africa saheliana: sono solo le ultime puntate della “guerra a pezzi” in corso ormai da tempo, che nessuna potenza occidentale riesce a fermare con l’azione politica e nemmeno con le armi, che siano usate in proprio o donate a una delle parti in causa.

Tuttavia, le lancette dell’orologio della globalizzazione non possono più essere riportate indietro: i neo-protezionisti non fanno i conti con un mondo che è diventato interdipendente sul serio. Dovrebbe essere questo il punto di partenza per una riflessione sul futuro che si vuole costruire, senza più spazio per i complessi di superiorità. All’orizzonte, il rischio è enorme. La Cina, che oggi è il principale sponsor del multilateralismo e propone una sorta di “cittadinanza globale” in nome del comune benessere economico, non nasconde affatto la sua intenzione di restare uno Stato autoritario, dove il dissenso e i diritti civili sono fuorilegge.

Per Pechino, lo scopo del nuovo ordine dovrebbe essere garantire l’armonia, intesa come assenza di conflitti, e un benessere spalmato su basi più eque tra i diversi Stati. L’alternativa è dunque tra caos e diritti o pace e regime? È questo il punto di frattura tra due mondi che stanno velocemente dando vita a un nuovo bipolarismo. La divisione non è più ideologica, piuttosto passa dall’interpretazione di ciò che il mercato ha prodotto in Paesi dove prima era insignificante. È uno scontro che si gioca tutto all’interno dell’economia di mercato, ipotesi che in passato nessuno aveva messo in conto. E, come dimostra la Cina stessa, la crescita economica e il mercato possono prescindere tranquillamente della democrazia. Pensare che fossero legati in modo indissolubile è stato solo un miraggio, svanito presto.

Il G7 pugliese e soprattutto la sua appendice svizzera, la Conferenza sulla Pace in Ucraina che si è tenuta presso Lucerna, offrono una fotografia degli attuali equilibri geopolitici mondiali: ciò che si ripropongono di fare i Grandi di una volta risulta sempre meno influente sui destini del pianeta. Cominciamo dal G7, un organismo in evidente crisi di rappresentanza al quale partecipano due Stati, Italia e Canada, che da tempo sono usciti dal plotone delle prime sette economie mondiali, nel quale oggi figurano al secondo posto la Cina e al quinto l’India, con il Brasile in ottava posizione e in rapida ascesa. Tre giganti che al G7 non prendono parte. Le conclusioni del summit italiano sono state modeste, per essere gentili: qualche avvertimento alla Cina riguardo il suo rapporto con la Russia e il comportamento nel commercio internazionale, qualche preoccupazione sui diritti LGBT e la salute procreativa, il lancio di un fumoso coordinamento tra i Paesi contro i traffici di migranti e l’auspicio che l’intelligenza artificiale sia “inclusiva”… Come se la tecnologia si potesse fare carico dell’inclusione senza che a deciderlo siano gli oligarchi della Silicon Valley, che hanno investito miliardi in questo nuovo settore e ne controllano lo sviluppo perseguendo interessi di ben altro genere.

Di concreto non c’è stato nulla. Ciò non soltanto a causa della calante rappresentatività del G7 in sé, ma anche perché questo è stato il Vertice cui hanno preso parte più leader politici bocciati alle ultime elezioni o in via di bocciatura. Tutta la loro ininfluenza si è vista anche nella Conferenza di pace sull’Ucraina organizzata in Svizzera, altro paradosso dei nostri tempi, in quanto una delle due parti antagoniste non è stata nemmeno invitata a partecipare. Il documento finale partorito dalla Conferenza non è stato sottoscritto dai Paesi Brics, dalla Cina all’India, dal Sudafrica al Brasile e anche all’Arabia Saudita. Questo limite priva la risoluzione di ogni possibilità di aprire un percorso che porti al cessate il fuoco tra le parti.

La crisi della governance globale, dunque, passa non soltanto dall’indebolimento dei grandi organismi multilaterali come l’ONU e il WTO, ma anche da quello dei “club ristretti”, recinti autogenerati da coloro che fino agli anni ’90 guidavano le danze a livello mondiale. I G7 del passato dettavano a tutti gli effetti l’agenda globale e si occupavano dei grandi nodi internazionali dell’economia e della politica. La versione odierna è solo un pallido riflesso dei summit di un passato che pure non è così lontano, ma in pochi decenni sono definitivamente mutati i rapporti di forza in termini sia di rilevanza economica e peso demografico sia di potenza militare.

In questo quadro il cosiddetto “Sud globale”, definizione che ha del ridicolo visto che comprende diverse potenze emerse ed emergenti del XXI secolo, non può più essere lasciato fuori dalla porta se davvero si vuole dare un ordine nuovo a questo caotico mondo multipolare. Si continua invece a ragionare con categorie superate: il G7 infatti aveva un senso durante la Guerra Fredda e nella fase successiva della prima ondata della globalizzazione, quella delocalizzatrice. Oggi è un club disomogeneo che comprende potenze ancora forti, come gli Stati Uniti, ex potenze coloniali in cerca di una nuova identità, come la Francia e il Regno Unito, Paesi che rimangono importanti soltanto sul piano economico, come la Germania e il Giappone, e medie potenze regionali come Italia e Canada. In comune, i 7 hanno fronti caldi aperti con la Cina: dipendenza delle materie prime strategiche, dipendenza industriale o dipendenza dagli investimenti in titoli di Stato effettuati da parte di Pechino. E in futuro anche l’India potrebbe assumere un ruolo, se non ugualmente importante, almeno paragonabile a quello della Cina. Escluderle significa fare i conti senza l’oste: non è solo sbagliato sul piano teorico ma rende fumosa ogni possibilità di governare in modo davvero serio la scena mondiale.

È sempre difficile riconoscere la propria decadenza, ma in questo caso perdere ulteriore tempo sarebbe un errore grave. Tornando alla conferenza di Lucerna, che piaccia o meno la pace si fa tra i due contendenti, così come lo scenario economico (e di conseguenza sociale) internazionale dovrebbe essere oggetto di discussione tra tutti coloro che ne sono i veri protagonisti. I club dove si rimembrano glorie passate servono solo per ambientare romanzi d’epoca: come ben sanno anche i loro soci, le decisioni vere si prendono altrove.

Esistono attualmente due mondi, quello caotico della politica e quello che va a gonfie vele dell’economia. Viviamo un periodo di transizione, nel quale è venuta meno la grande illusione che la globalizzazione dei mercati degli anni ’90 potesse creare un nuovo ordine mondiale, in sostituzione di quello prima garantito dalla Guerra Fredda. Molti analisti descrivono questa fase come caratterizzata dal caos geopolitico. Un’era in cui le due superpotenze mondiali, USA e Cina, non sono in grado di dare vita a un nuovo bipolarismo in quanto da un lato sono unite da interessi commerciali, dall’altro restano antagoniste sul piano geopolitico. Nel mezzo, diverse potenze regionali scalpitano per ritagliarsi uno spazio maggiore negli assetti futuri. Si spiega così l’attuale multipolarismo armato e confuso: Iran, Russia, Turchia, India sono impegnate a espandere i propri confini, in alcuni casi commerciali e politici, in altri casi, come quello russo, anche geografici. Le due potenze globali non sono in grado di imporre quasi nulla, o perché restie a impegnarsi direttamente in fronti di guerra, ed è il caso degli USA, o perché, alla fine, sono interessate a coltivare un multipolarismo nel quale esercitare un ruolo guida sul piano economico e tecnologico, ed è il caso della Cina.

La conflittualità armata sembra destinata ad aumentare, di fronte all’insipienza di una politica multilaterale ancora ingessata dal sistema dei veti risalente alla Guerra Fredda: il diritto internazionale può essere ignorato, quello umanitario sacrificato sull’altare della conquista o della difesa, il dialogo è scomparso.

Ma c’è un altro mondo che continua a prosperare oltre ogni previsione, ed è quello dell’economia. Le Borse mondiali, dopo un 2023 da record, nel primo trimestre del 2024 hanno distribuito agli azionisti dividendi per ben 339 miliardi di dollari e gli analisti stimano che a fine anno avranno versato 1700 miliardi di dollari ai possessori di azioni, cioè il 3,9% in più dell’anno scorso. I protagonisti di questa impennata dei titoli di Borsa sono stati ad esempio Meta e Alibaba, che per la prima volta hanno versato dividendi, ma anche le banche, comparto che pesa per un quarto dei dividendi pagati, e poi il settore dell’industria bellica. Secondo l’Istituto Internazionale di ricerche sulla Pace di Stoccolma, nel 2023 la spesa per le armi ha raggiunto 2400 miliardi di dollari nel mondo, il 6,8% in più dell’anno precedente, l’aumento più importante dal 2009. I picchi degli acquisti sono in Europa, Medio Oriente e Asia. È noto che in momenti di incertezza internazionale riparte la corsa agli armamenti, ma poche volte come in questi ultimi anni soprattutto perché si ha la sensazione che i conflitti in corso potrebbero allargarsi in qualsiasi momento coinvolgendo l’intera Europa, il Medio Oriente e l’Estremo Oriente, dove la vicenda di Taiwan resta sempre un punto interrogativo.

Sono questi i due mondi che oggi convivono, quello dell’impotenza della politica e quello dei buoni affari. L’ennesima dimostrazione di come fossero velleitarie le pretese di chi teorizzava che il mercato potesse costruire da solo un qualsiasi ordine. Nel frattempo, la politica che finora ha delegato all’economia tenta di riparare i guasti ricorrendo alla strategia, sempre fallimentare, della corsa agli armamenti, per offendere o difendersi. L’agenda delle riforme urgenti sul piano della governance mondiale, dalla costruzione di un nuovo multilateralismo alla lotta ai cambiamenti climatici, deve ancora aspettare. Il punto è che, finché non si troverà il tempo e la voglia di affrontare questa agenda, aumenterà il numero delle persone costrette a soffrire. E qualcuno continuerà ad arricchirsi.