Il funerale del multilateralismo si celebra in molti luoghi. Da Gaza all’Ucraina, da piazza Tienanmen a Caraibi. Ognuno celebra la propria forza militare: la Russia sul campo e nei cieli, la Cina in sfilate oceaniche, Israele in versione massacro, gli Stati Uniti con cannoniere contro il Venezuela. Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, mai riformato, non vengono nemmeno più criticati, essendo ormai stati cancellati dal dibattito internazionale. E questo perché nessuno crede più al potere della politica come modo pacifico per risolvere i conflitti: oggi si pensa che a pagare sia solo la forza. Poco importa poi che la guerra serva per annettere territori non propri, per far cadere un governo o metterlo in difficoltà. Il diritto di difesa “preventivo”, cioè agire militarmente perché si ritiene vi possa essere una minaccia futura, è ormai uno strumento sdoganato che viene usato da tutti. Il primo a invocarlo è stato George Bush junior con le guerre in Afghanistan e Iraq, ora a farlo sono Putin con l’invasione dell’Ucraina e Netanyahu con la distruzione e l’occupazione di Gaza. I negoziati per cercare di porre fine a questi conflitti si scontrano con una radicalità mai raggiunta prima. C’è chi combatte in nome di Dio e chi in nome della patria, ma anche più concretamente per tutelare i propri interessi commerciali. Le armi sono buone per tutte le occasioni e l’elenco dei conflitti che potrebbero aprirsi se questa logica non viene fermata è quasi infinito. Molti focolai sono stati soltanto nascosti o spenti provvisoriamente, ma le cause che li hanno generati, se la politica non agisce, possono riaccenderli in qualsiasi momento. Con l’aggiunta dell’impunità. Dopo la stagione che portò alla nascita, nel 2002, della Corte penale internazionale, quando si credeva che finalmente chi avesse commesso reati gravissimi non l’avrebbe fatta franca, oggi siamo passati al “vale tutto”. I leader dei principali Paesi in conflitto sono accusati di crimini per i quali difficilmente pagheranno. La situazione è troppo complicata per parlare di pace, ma è proprio il momento di ragionare sulla prevenzione dei conflitti, creando stanze di mediazione, istituzioni multilaterali riformate e credibili, e ponendo dei freni all’industria bellica. Non basta chiedere il cessate il fuoco, pur sempre preferibile ai combattimenti, bisogna esigere che la politica riformi, crei, immagini una nuova architettura mondiale. La risposta della UE sul conflitto ucraino, autorizzando l’aumento della spesa per la difesa senza impegnarsi in un vero sforzo per la sua risoluzione, la dice lunga sull’uso smodato della scorciatoia bellicista per nascondere le proprie inadempienze. Anche le piazze dovrebbero non soltanto denunciare, ma anche proporre: il vuoto delle idee va riempito con una spinta popolare, in quanto la pace dev’essere costruita prima dello scoppio di un conflitto. I tentennamenti davanti agli sbandamenti di Paesi fino a ieri alleati non solo indeboliscono l’Europa, ma rinforzano regimi e responsabili di genocidio. L’Europa deve aprirsi al mondo senza pregiudizi, portando in dote le proprie idee di democrazia e rispetto dei diritti. L’Occidente è ormai in declino: il punto, oggi, è se si vuole essere semplici spettatori della costruzione di un nuovo ordine mondiale oppure protagonisti.  

Con l’attacco all’Iran da parte degli Stati Uniti, Paese che con Teheran non aveva particolari vertenze, a differenza di Israele, sono scomparse anche quelle poche briciole del diritto internazionale che erano sopravvissute a diverse ondate di forzature, a partire dalla risposta di George W. Bush agli attentati dell’11 settembre del 2001. Era stato proprio Bush junior a teorizzare per la prima volta una formula poi molto gettonata, la cosiddetta “difesa preventiva”. Una strategia che non è prevista in nessun capitolo del diritto internazionale e che può essere applicata soltanto da chi ha, o pensa di avere, una netta superiorità militare sull’avversario. Ovviamente, la difesa preventiva fa il paio con il disconoscimento del vero diritto internazionale e degli organismi che lo incarnano, dalle Nazioni Unite alla Corte Penale Internazionale. È sufficiente essere nelle grazie di una delle 5 potenze che esercitano diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza per essere certi di poter infrangere impunemente anche le risoluzioni “vincolanti”. Basta non riconoscere la Corte Penale Internazionale – e non essere leader di Stati africani o balcanici – per essere sicuri di farla franca anche se si è colpevoli di crimini contro l’umanità.

La teoria della difesa preventiva è quella cui si è appellato anche Vladimir Putin invadendo la “minacciosa” Ucraina, ed è la strategia che ora Israele e Stati Uniti adottano per ostacolare il programma nucleare iraniano. Senza il timore di pagarne le conseguenze. Gli alleati, in questa logica, vengono gestiti quasi con disprezzo, nel migliore dei casi informandoli di ciò che si è già deciso di fare, senza mai chiedere un parere o discutere di alternative alle cannoniere. L’Europa sa bene come funziona, ora che tra i leader del Vecchio Continente è in corso la gara del “mi avevano avvertito”, per accreditarsi come favoriti di Washington e non apparire del tutto ignorati. Il primo della classe è l’inglese Keir Starmer, che ha garantito di essere stato “avvisato con congruo anticipo”. Una via di mezzo è il cancelliere tedesco Friedrich Merz, che dice di essere stato avvertito “a operazione in corso”. Altri, come Emmanuel Macron e Giorgia Meloni, non sono stati nemmeno raggiunti dal centralino della Casa Bianca.

È l’ennesima dimostrazione della fine del cosiddetto Occidente, inteso come blocco ideologico-economico-militare coeso. Oggi chi “fa” la politica internazionale senza il minimo rispetto del diritto internazionale si nasconde dietro la foglia di fico della difesa degli alti valori dell’Occidente, ma non considera nemmeno l’ipotesi di consultarsi con chi dell’Occidente fa parte, quelli che una volta erano gli “alleati storici”. I quali sono ridotti ad accontentarsi della telefonata di Washington per sentirsi ancora importanti. Come se l’essere stati “avvertiti” o no cambi qualcosa, rispetto alla loro nullaggine e al futuro del mondo. Se pensano che, come in una vecchia pubblicità, una telefonata gli possa allungare la vita, si sbagliano totalmente: ogni sgarbo che subiscono fa sfumare quel residuo di credibilità di cui ancora godono tra i cittadini.

Chiedere il dialogo e la pace oggi non rende: non perché le persone siano assetate di sangue, ma perché gli apparati di propaganda montati dai leader bellicisti fanno credere ai cittadini di essere tutti a rischio, e che non vi sia altra soluzione che muovere guerra (magari preventivamente) per risolvere qualsiasi problema. La politica internazionale ormai parla la lingua delle caserme ed è la sconfitta finale della politica, che rinnegando il suo compito lascia che siano militari e fabbricanti di armi a disegnare gli equilibri mondiali. Una storia ben nota, che abbiamo studiato a scuola e che abbiamo imparato a ricordare davanti ai monumenti ai caduti, ma che oggi è tornata maledettamente di attualità.

FILE – In this Oct. 23, 2020, photo, President Donald Trump talks on a phone during a call with the leaders of Sudan and Israel in the Oval Office of the White House, in Washington. White House call logs obtained so far by the House panel investigating the Jan. 6, 2021 insurrection at the Capitol do not list calls made by then-President Donald Trump as he watched the violence unfold on television. They also do not list calls made directly to the president, according to two people familiar with the probe. (AP Photo/Alex Brandon, File)

La moltiplicazione dei conflitti in corso, diversi tra loro per cause e per collocazione geografica, desta più meno preoccupazioni in base alla regione che ne è di volta in volta interessata. Il conflitto in Ucraina e quello in Medio Oriente trovano grande eco in Europa ma molto meno nel resto del mondo; quello in Sudan interessa soprattutto una parte dell’Africa, mentre in Sudamerica è più sentita la continua fuoriuscita di persone dal Venezuela. C’è però un elemento che accomuna tutti o quasi gli scenari di guerra, a prescindere dalla loro collocazione, ed è la scomparsa di ogni riflessione sul diritto internazionale. Un diritto che è stato faticosamente costruito soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, con la speranza che, coinvolgendo l’intera comunità internazionale, si potessero prevenire o arginare le tensioni tra gli Stati. Il diritto internazionale si fonda su alcuni pilastri consolidati: la sovranità degli Stati, il divieto di usare la forza per risolvere le contese, la tutela dei diritti umani e il rispetto del diritto umanitario durante i conflitti armati. Tuttavia, questi princìpi vengono regolarmente ignorati. Guerre d’aggressione, occupazioni illegali di territori, interferenze esterne nella vita di altri Stati e violazioni sistematiche dei diritti civili sono diventate elementi ricorrenti, che ciascun aggressore giustifica in nome della propria sicurezza nazionale.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia rappresenta in modo emblematico la fragilità degli strumenti giuridici internazionali. Nonostante le risoluzioni ONU, le sanzioni e le condanne emesse dalle corti internazionali, l’effettiva applicazione del diritto risulta ostacolata dalla mancanza di meccanismi coercitivi vincolanti. Lo stesso si può dire della politica armata di Israele nei confronti dei civili di Gaza: condanne dei tribunali internazionali e marce di protesta nulla possono per fermare la strage in corso. Questo ritorno alla politica di potenza – quella, cioè, dove conta soltanto la forza militare – è stato a lungo perseguito da Paesi che già da tempo si permettono di muoversi sistematicamente al di fuori dal diritto internazionale, facendo affidamento sul proprio status di potenze militari. Le vittime di queste azioni sono sempre Paesi più deboli e popolazioni non in grado di opporre resistenza, che fanno appello al diritto internazionale tanto regolarmente quanto inutilmente.

Tutto ciò accade anche perché l’organismo multilaterale per eccellenza, deputato a intervenire sui conflitti, è rimasto bloccato ai tempi della Guerra Fredda. Stiamo parlando del Consiglio di Sicurezza dell’ONU: se, davanti al rischio dell’olocausto nucleare, forse aveva senso che Washington e Mosca avessero diritto di veto, non si capisce perché debbano ancora continuare a esercitarlo, insieme a Cina, Regno Unito e Francia, in un mondo totalmente cambiato. Sono molte, e in alcuni casi intelligenti, le proposte avanzate per riformare il Consiglio di Sicurezza, ma difficilmente potranno avere successo contro il parere dei “magnifici cinque” che storicamente hanno fatto ricorso al diritto di veto per assecondare qualsiasi violazione del diritto internazionale vedesse coinvolti loro stessi o i loro alleati. È un vicolo cieco nel quale è finita anche la Corte penale internazionale, supportata soltanto quando perseguita dittatori africani o balcanici, ma impossibilitata a eseguire sentenze contro i leader delle potenze.

Per rilanciare il diritto internazionale occorrerebbe riformarlo sulla base di un nuovo patto globale tra giustizia, sovranità e responsabilità: nel mondo multipolare, un diritto internazionale credibile può fondarsi solo su principi realmente universali e su meccanismi di garanzia più equi ed efficaci. Solo così è possibile immaginare una governance globale che possa prevenire, regolare e risolvere i conflitti, mettendo al centro la dignità umana e la pace. L’alternativa, se il diritto viene ridotto a vuota retorica, è un ulteriore aumento della bellicosità, fino a ritrovarci nuovamente al punto di non ritorno della guerra nucleare.

Le manifestazioni di protesta esplose a Los Angeles contro la svolta repressiva del governo Trump nei confronti degli immigrati irregolari segnano un cambiamento epocale sul tema migratorio nel Paese che più di ogni altro ha costruito la sua identità a partire proprio dall’afflusso di persone da tutto il mondo. Simbolico anche che ciò accada a Nuestra Señora la Reina de los Ángeles, città fondata nel 1781 dagli spagnoli, appartenuta al Messico fino al 1847. Oggi la megalopoli di Los Angeles, considerando anche l’area metropolitana, conta circa 13 milioni di abitanti: quasi la metà sono latinos, cioè messicani e centro-americani che ne fanno una delle più grandi città al mondo di lingua spagnola. Ed è proprio a Los Angeles che si sta concentrando la politica di espulsione degli irregolari, creando inevitabili tensioni e disordini, soprattutto perché i bersagli dell’ICE, l’agenzia di sicurezza statunitense che controlla l’immigrazione, non sono gang criminali o spacciatori di droga, ma lavoratori perfettamente integrati nel tessuto sociale ed economico del Paese: proprio per questo sono facili da individuare, e gli arresti avvengono soprattutto nei posti di lavoro.

In Europa questa sarebbe un’anomalia, perché i clandestini vivono ai margini della società in condizioni di assoluta precarietà. Negli Stati Uniti, invece, esiste da tempo un patto tacito tra “clandestini” e Stato che consiste sostanzialmente nella tolleranza verso la presenza degli immigrati irregolari, che possono condurre una vita quasi normale – non solo lavorare, ma anche comprare auto e casa, mandare i figli a scuola, lavorare – restando però sempre ricattabili, in quanto “irregolari”. È uno status che per molti può durare decenni o non cambiare mai, malgrado ci siano state alcune sanatorie. Essere irregolare ovviamente blocca la possibilità di diventare cittadino statunitense, ma i figli di queste persone, se nati negli USA, ne sono cittadini dalla nascita. Si calcola che questo esercito di precari-integrati sia di circa 15 milioni di persone: la popolazione di un Paese medio europeo. Lavorano nella galassia dei servizi, dell’edilizia, dell’industria.

Donald Trump, con i rimpatri forzati, sta rompendo questo patto storico, finora rispettato da tutte le amministrazioni passate, anche perché strumentale all’economia di diversi Stati, soprattutto del Sudovest, che necessitano continuamente di manodopera a basso costo, meglio se ricattabile, in cambio della promessa, spesso utopica, di poter diventare “americani”. Con queste politiche, la nazione fondata sull’immigrazione si fa più “europea” e blinda i propri confini, espellendo anche chi, in passato, era riuscito a superarli con fatica. In questo senso gli USA diventano più simili al resto dell’Occidente, ma il punto è quanto tutto ciò – se Trump non cambierà linea – inciderà sull’economia di Stati come Texas o California, dove sono gli irregolari e gli immigrati in generale a tenere in piedi interi comparti, dai servizi all’agricoltura.

La guerriglia in corso a Los Angeles, costellata da bandiere messicane, racconta anche che se il sogno della cittadinanza USA sfuma, si rafforzano le radici culturali d’origine. Ed è proprio questo il punto critico: è davvero possibile creare una spaccatura tra “noi” e “loro” in quel terzo degli Stati Uniti che una volta era Messico, e che è figlio di una storia comune fatta sì di conflitti, ma poi anche di intrecci e valori condivisi? Poi, quando a portare avanti queste politiche è il nipote di un immigrato tedesco, che per giunta è sposato con un’immigrata che è stata pure irregolare, tutto diventa grottesco.

La semplificazione delle relazioni internazionali messa in atto dalle potenze del passato, e in particolare dagli Stati Uniti, non regge alla prova dei fatti. Donald Trump, il massimo esponente di un’ideologia che pretende di fare ricorso alla sola leva economica per risolvere ogni conflitto, finora ha accumulato una lunga serie di fallimenti, sia sul piano della gestione delle guerre vere e proprie sia su quello delle contese commerciali. Credere che la Cina del 2025 potesse essere piegata dalla minaccia dei dazi fa capire come il personale della nuova amministrazione USA non abbia “letto” il mondo degli ultimi tre decenni. È evidente che gli uomini di Trump non sanno, o fanno finta di non sapere, nulla su quali siano state le conseguenze delle delocalizzazioni produttive degli anni ’90 e della crescita dei nuovi mercati: ignorano l’odierna interdipendenza globale in materia di rifornimenti di merci e servizi.  Eppure, dovrebbe essere ormai chiaro il ruolo assunto da Pechino al centro di un sistema alternativo di relazioni commerciali e politiche, quello che ha dato vita al gruppo dei BRICS, e che quel gruppo sta lavorando per una regia economica multilaterale non occidentale.

Lo stesso si può dire delle boutade sulla risoluzione del conflitto russo-ucraino in 24 ore, oppure della “brillante” idea di fare diventare Gaza la versione mediterranea del Qatar, senza palestinesi. Sono battute da bar, che nemmeno fanno ridere, su conflitti dalle radici antiche, tra i più complicati al mondo.

L’erraticità e la superficialità della politica estera di Washington si sono dimostrate appieno con la firma dell’accordo per lo sfruttamento minerario dell’Ucraina. Un accordo, cioè, con un Paese del quale si ignora se resterà territorialmente integro dopo il conflitto e, soprattutto, se manterrà la sovranità necessaria per rispettare gli accordi firmati in questa fase. Qui vengono al pettine i nodi del mondo che la potenza americana non sa più leggere: se è vero che l’Ucraina è così ricca di terre rare (ed è tutto da dimostrare), e se mai sarà possibile la loro estrazione, per separare i minerali e per farne uso industriale bisognerà ricorrere alla Cina, che a livello globale è l’unico Stato dotato impianti per la lavorazione delle terre rare.

Nell’universo semplificato della Casa Bianca, dove contano solo la potenza militare e il peso economico, non si è ancora capito che questo nostro mondo presenta livelli di complessità mai raggiunti prima. È un problema anche per Mosca, convinta anch’essa che la storia e il peso militare potessero bastare per piegare l’Ucraina. Invece Kiev è riuscita a tenere testa agli invasori, grazie alla NATO ma anche a nuovissime tecnologie militari come i droni, alla portata di medie potenze come Turchia o Iran.

Vecchie potenze con vecchie idee di politica estera, insomma. Quella americana è tornata ad avere mire imperialistiche ed è convinta che otterrà vantaggi minacciando ritorsioni economiche; quella russa è convinta che sia ancora possibile una politica imperialista armata, in barba a qualsiasi idea di diritto internazionale. In realtà si tratta di imperialismi senza impero, soprattutto per Mosca. Non è un caso che le zone del pianeta più colpite dai dazi di Trump, con qualche piccola eccezione, siano l’Europa comunitaria e la Cina. La prima perché è ancora nell’orbita geopolitica statunitense, la seconda per tentare, senza riuscirci, di colpire il vero antagonista. Africa, America Latina e buona parte dell’Asia sono state risparmiate non per bontà, ma perché ormai ruotano economicamente intorno a Pechino.

In questa caotica fase di transizione dal mondo bipolare al mondo multipolare le nuove certezze sono tutte da scrivere. I protagonisti della fase che verrà hanno diverse sensibilità, altre storie e culture. Ciò non vuol dire che l’ordine futuro sarà migliore, anzi, le avvisaglie sono preoccupanti, ma sicuramente non sarà lo stesso ereditato dalla Seconda guerra mondiale. 

Il commercio equo e solidale rappresenta un modello consolidato di scambio che mira a promuovere condizioni di lavoro dignitose, prezzi giusti e sostenibilità ambientale, soprattutto (ma non solo) per i produttori dei Paesi in via di sviluppo. Sebbene in termini di fatturato rappresenti una fetta ridotta del mercato, questo tipo di commercio ha avuto un effetto “contaminante” sul mercato globale. Diverse grandi aziende, infatti, ne hanno adottato alcuni principi – in particolare quelli relativi alla sostenibilità ambientale e ai diritti dei lavoratori – lanciando proprie linee di prodotti, soprattutto nei settori agroalimentare e tessile.

Tuttavia, questo sistema deve confrontarsi con le politiche commerciali dei Paesi importatori, e dunque anche con i dazi doganali, tornati d’attualità dopo le misure varate da Donald Trump. Trattandosi di tasse sulle merci che attraversano i confini nazionali, nel caso del commercio equo e solidale i dazi possono rappresentare un ostacolo significativo, aumentando notevolmente il costo finale dei prodotti sul mercato. Per esempio, il caffè proveniente da cooperative di piccoli produttori in America Latina, che già ha prezzi più elevati rispetto a quelli dei prodotti “di massa”, può subire rincari tali da renderlo meno accessibile ai consumatori dei Paesi importatori, fino a spingerlo fuori mercato.

Le cooperative che mirano a garantire un prezzo giusto e sostenibile si troveranno dunque ad affrontare una riduzione della domanda che ne limiterà le opportunità di crescita o, addirittura, comprometterà la sostenibilità delle loro attività.

Inoltre, i dazi possono accentuare gli squilibri di mercato favorendo i prodotti provenienti da Paesi con costi di produzione più bassi, spesso ottenuti sacrificando l’ambiente e i diritti dei lavoratori. Ciò, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, vanifica gli sforzi delle organizzazioni del commercio equo, impegnate nella promozione di un modello di scambio etico e trasparente. A questo scenario si aggiungono i dazi consolidati nel tempo a tutela dell’agricoltura dei Paesi occidentali, che vengono rigidamente applicati su quei prodotti che potrebbero rappresentare concorrenza alla produzione interna, come carne, grano o zucchero.

Nel dibattito sull’attuale “guerra dei dazi”, la dimensione della sostenibilità è completamente assente. Si parla solo di bilancia commerciale e di impatto sull’economia, mentre i consumatori, che storicamente hanno sostenuto la crescita del commercio equo e solidale attraverso le loro scelte consapevoli, diventano soggetti passivi, costretti a farsi carico dell’aumento dei prezzi. Si rischia così di gettare al vento decenni di normative e battaglie per i diritti dei lavoratori e per la riduzione dell’impatto ambientale dell’agricoltura e dell’industria della trasformazione. Soprattutto, l’acquisto di questi prodotti, determinato da un orientamento etico, rischia di diventare una scelta dipendente dalla disponibilità economica individuale.

È l’ennesima dimostrazione di come politiche che si proclamano a tutela del popolo e dei più deboli finiscano, in realtà, per produrre l’effetto opposto. I dazi rappresentano infatti la tassa meno progressiva che esista: generano rincari uguali per tutti, ricchi e poveri, ma mentre per alcuni gli aumenti risultano ininfluenti, per molti altri significano impoverimento e, per i piccoli produttori, si traducono in un ritorno a condizioni di lavoro peggiori.

Quando gli chiedevano come poteva sintetizzare la sua vita rispondeva con il titolo della canzone di Violeta Parra “Gracias a la Vida”. José Alberto Mujica Cardano, il Pepe, come nella canzone di Violeta Parra voleva ringraziare la vita che le aveva dato tanto. Da giovane ribelle che negli anni ’60 aveva scelto la lotta armata per cambiare il mondo con i Tupamaros, al prigioniero politico, torturato e usato come ostaggio dei militari per ben 12 anni. Da Mujica tornato libero che collabora alla svolta che porterà le sinistre per la prima volta al potere fino al senatore, a Ministro dell’Agricoltura e infine a Presidente dell’Uruguay. Un politico che non ha mai barattato i suoi principi, che è stato sempre un contadino prestato alla politica, un uomo che dell’austerità ha fatto un principio inderogabile. Perché il Pepe è stato uno degli ultimi esponenti di una cultura antica, quella del gaucho della Pampa. Gente di poche parole, di principi ferrei, di acuta intelligenza pragmatica, abituati alle avversità e alla solitudine. Come quella forzata inflitta dai militari a Mujica per 12 anni, tenendolo in isolamento fino a quasi farlo impazzire. Ed è stato in quelle drammatiche circostanze, per le quali non cercò mai vendetta, che Mujica imparò a vivere dell’essenziale, ma sul serio, e soprattutto a dare valore al tempo. Per Mujica il consumismo era una trappola soprattutto perché i soldi che usiamo per consumare cose superflue sono stati pagati con il nostro tempo. Tempo sottratto agli affetti, all’osservazione, alla discussione, alla socialità. Merci in cambio di tempo di vita, la nuova schiavitù dalla quale bisogna liberarsi. E come? Tornando a vivere con l’essenziale e sostenendo uno stato che sappia garantire educazione e salute per tutti. Welfare e socialità, una caratteristica dell’Uruguay di altri tempi, paese di tradizioni laiche e socialdemocratiche e forgiato dall’immigrazione italiana fin dai tempi di Garibaldi. La sua presidenza ha lasciato all’Uruguay un sistema di sanità pubblica territoriale che ha retto lo shock della pandemia anni dopo, la liberalizzazione della marihuana che ha sottratto risorse alle mafie, la depenalizzazione dell’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma soprattutto il livello più basso nella storia del paese di disoccupazione, povertà e disuguaglianza.  Sul piano personale, fece molto scalpore che si fosse assegnato come presidente uno stipendio di soli 900 dollari, da lui ritenuto più che sufficiente per vivere decentemente. Così come il suo rifiuto dell’auto di stato, perché voleva continuare a guidare il suo vecchio maggiolino.

Questa è stata l’eredità politica e personale di José Pepe Mujica, forse l’unico politico in decenni che è rimasto dal primo all’ultimo giorno della sua carriera fedele ai principi in cui credeva, aggiornandoli ma mai per tornaconto personale. Lui diceva che il politico viene costantemente osservato dai cittadini, per questo deve restare uno di loro perché se invece trae profitto personale, si arricchisce, cede alle tentazioni fa anzitutto un danno alla repubblica, all’idea stessa di democrazia. Pepe Mujica era un uomo di altri tempi, ma la sua vita e il suo pensiero sono stati incredibilmente moderni e attuali.  Oggi la politica latinoamericana lo rimpiange, ma perora, ancora non c’è nessuno che abbia imparato dal suo esempio.

Il primo Papa agostiniano proviene da un settore della Chiesa spesso considerato minore e lontano dalle gerarchie, le missioni. Praticamente tutta la sua carriera ecclesiastica l’ha svolta in Perù, nella periferia di un paese periferico, proprio in quei luoghi di frontiera tanto amati e seguiti da Papa Francesco. Con il suo predecessore Leone XIV condivide l’attaccamento alla Dottrina Sociale della Chiesa, progressista nella visione della società e conservatrice nelle questioni dottrinali. Cardinale di fresca nomina, Prevost si è continuato ad occupare di America Latina e di evangelizzazione per il Vaticano. La sua idea di chiesa è molto simile a quella di Francesco, trova la sua forza nel lavoro con gli ultimi coniugando fede e diritti terreni. Ma è anche il primo Papa statunitense, un paese attraversato da divisioni tra i cattolici e dove le forme più estreme della conservazione trovano una sponda nel Vice Presidente J.D. Vance.

I temi della sua agenda saranno senza dubbio quelli portanti del papato di Bergoglio: lotta alle disuguaglianze, dialogo interreligioso e pace. Per chi aveva dubbi sulla traccia che avrebbe lasciato Francesco, l’elezione di questo nuovo Papa conferma che su questi temi la Chiesa non poteva, e si spera non voleva, tornare indietro.

Che cosa resta della grande ondata di sensibilità sui temi ambientali che ha investito buona parte del pianeta solo pochi anni fa? La prima risposta, d’istinto, sarebbe: poco o nulla. Articolando meglio, si potrebbe dire che, ancora una volta, l’agenda della politica mondiale ha relegato il cambiamento climatico tra le questioni non prioritarie.

La realtà, però, è più sfaccettata. Perché, se è vero che l’Accordo di Parigi non è stato finora seriamente applicato, è vero anche che in tanti Paesi la transizione energetica è già una realtà. E non solo nell’Europa comunitaria. L’elenco degli Stati che hanno compiuto sforzi significativi è lungo e abbraccia tutti i continenti: dal Regno Unito al Marocco, dal Cile alla Costa Rica, fino alle Filippine. Ma la grande rivoluzione sta avvenendo in Cina, Paese che attualmente è responsabile di circa un terzo delle emissioni mondiali di CO2 per via dell’uso consolidato del carbone come fonte energetica fondamentale. Negli ultimi anni, in Cina si è concentrato quasi il 40% di tutti gli investimenti mondiali sulle energie pulite e il gigante asiatico è diventato leader globale nella produzione di mezzi elettrici e colonnine di ricarica e di pannelli solari e fotovoltaici. Soprattutto, è monopolista nel trattamento delle terre rare, del cobalto e del litio utilizzati dall’industria green.

Oggi la crescita economica cinese è basata in buona parte proprio sulla produzione di tecnologie e prodotti sostenibili. Se manterrà questo ritmo, entro il 2035 la Cina dovrebbe ridurre le sue emissioni di anidride carbonica del 30% e aumentare la sua quota di produzione di energie da fonti rinnovabili fino al 40%, con un calo delle emissioni industriali del 25%. I numeri raccontano uno sforzo titanico da parte di Pechino, non solo per migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini ma anche per porsi alla guida di una rivoluzione mondiale in nome dell’ambiente e, al tempo stesso, del business. Proprio questa è la differenza rispetto agli altri Paesi che si stanno sforzando per rispettare gli Accordi di Parigi: per la Cina non si tratta soltanto di fare la cosa giusta, come per gli altri, ma di consolidare un ruolo di potenza economica proiettata verso il futuro.

L’antagonista per eccellenza, gli Stati Uniti di Donald Trump, sono invece proiettati verso il recupero di un passato che potremmo definire quasi remoto, fatto di petrolio e carbone, di dazi e frontiere chiuse. È un paradosso dei nostri tempi: quella che era considerata una delle realtà più tradizionaliste e conservatrici al mondo, la società cinese, si pone alla testa del cambiamento, mentre la società statunitense, che da sempre consideriamo la culla dell’innovazione, si chiude su se stessa e taglia i ponti con il resto del mondo.

Al netto delle differenze nel sistema politico che regge i due Paesi – e la democrazia non è un dettaglio – la classe dirigente cinese sta dimostrando di avere una visione di sé e del mondo che prefigura un nuovo ordine, percepito come ineluttabile, mentre quella statunitense non riesce a prendere atto del declino dell’ordine precedente, che le consentiva di prevalere senza ostacoli a livello globale. Il resto del mondo può solo osservare: qualcuno prova a inserirsi nella disputa, ma la partita è esclusivamente a due.

Jorge Mario Bergoglio è stato il Papa dei primati, il primo a essere nato nelle Americhe, il primo gesuita e il primo a scegliere il nome di Francesco, il santo più lontano dalla Chiesa diventata Stato. La sua carriera ecclesiastica era cominciata relativamente tardi, ma a 37 anni è stato il più giovane Superiore Provinciale dei Gesuiti del Rio de la Plata. Durante la Dittatura argentina non brillò per le critiche al regime, ma riuscì a salvare diversi perseguitati politici da morte sicura. Sarà lui da Vescovo di Buenos Aires a firmare il mea culpa della Chiesa per le connivenze con il regime di Videla. La sua visione politica, spesso mal interpretata, è stata quella dell’impegno sociale, ma senza cedere in materia di dottrina cattolica. Nella sua Enciclica Laudato Sii del 2015, per la prima volta la Chiesa affrontò il tema dell’ambiente, della terra, dei diritti dei migranti. Argomenti ulteriormente declinati nell’Enciclica Fratelli tutti del 2020. La Chiesa che lascia Bergoglio ha vissuto un grande rinnovamento nelle gerarchie, con la cooptazione di decine di sacerdoti impegnati nel sociale e nella lotta per la legalità. Nulla sarà uguale dopo Francesco, soprattutto nella scelta dei poveri, nella tutela del Creato e nella fede nel dialogo tra le persone e tra gli stati perché regni la pace. Bergoglio è stato un ponte tra le fedi e tra le diverse visioni politiche del mondo, sempre pronto ad offrire una sponda per la mediazione, ma senza dimenticare mai la limitatezza della condizione umana. “Chi sono io per giudicare” resta una sua frase celebre, ed è stata questa ammissione di fallibilità, lasciando spazio al dubbio, dove è risieduta la sua grandezza come Pontefice