Ormai mancano pochi mesi alla fine della presenza di truppe straniere in Afghanistan. Il calendario annunciato del presidente Obama, ritiro entro la fine del 2014, se mai sarà rispettato, lo sarà anche per gli alleati ancora impegnati su quel fronte: Germania, Regno Unito, Italia. Il conflitto, iniziato nell’ottobre del 2001 con i resti delle Torri Gemelle ancora fumanti, aveva come obiettivo distruggere i campi di addestramento, dare la caccia ai massimi vertici di Al Qaida e spazzare via il regime dei talebani.

Obiettivi tutti mancati, nel senso che i leader della fantomatica rete del terrorismo islamico, quando sono stati raggiunti, erano quasi sempre nel vicino Pakistan. E i talebani, diventati nel frattempo la punta più acuminata della resistenza afghana alla presenza straniera, sono ora gli unici interlocutori politici con i quali gli USA stanno trattando la transizione verso un governo del quale sicuramente faranno parte. A distanza di 10 anni, sono stati spesi 440 miliardi di dollari soltanto da parte statunitense e sono morte oltre 35.000 persone. Osama Bin Laden, il casus belli la cui presenza in Afghanistan giustificò l’intervento, è stato catturato e ucciso in Pakistan. Fuori dallo scenario di guerra.

A Washington di solito la Storia è poco studiata. Dimenticano, al Pentagono, la fine dei soldati inglesi che nel gennaio del 1842, durante la prima guerra anglo-afghana, si ritirarono da Kabul in base alla parola data da Mohammed Akbar Khan: il leader dei ribelli afghani aveva promesso che non sarebbero stati toccati durante l’evacuazione verso l’India. Alla fine, ben pochi dei 16.000 soldati e familiari della guarnigione di Kabul arrivarono in India. In parte furono vittime del gelo, ma soprattutto caddero durante gli agguati tesi dalle varie tribù appostate lungo la strada. Di tanto in tanto Akbar si faceva vivo rassicurando il generale Elphinstone che stava facendo tutto il possibile per tenere sotto controllo le tribù locali: vi fu, però, chi riferì di aver udito il capo afghano esortare i suoi combattenti a risparmiare gli inglesi in persiano, lingua conosciuta da alcuni di questi ultimi, e a massacrarli in pashtun, lingua parlata solo dagli afghani. 

Durante la Guerra Fredda fu il turno dell’URSS, che occupò militarmente il Paese imponendo per 10 anni un governo fantoccio: istituzione che crollò dopo l’umiliante ritirata sovietica dovuta all’avanzata dei mujaheddin, foraggiati economicamente e politicamente dagli Stati Uniti. 

L’Afghanistan è questo. Un coacervo di etnie organizzate in modo tribale che dà vita a un Paese definito tale solo per convenzione geografica. Più che uno Stato, infatti, questo lembo d’Asia è il teatro di continue lotte per la supremazia tra i gruppi locali; lotte nelle quali, a intervalli regolari, si inseriscono potenze straniere che finiscono regolarmente sconfitte. Britannici, sovietici e ora statunitensi hanno imparato a spese proprie quanto l’Afghanistan sia imprendibile e soprattutto ingovernabile.

Il bilancio della politica estera armata dell’ultimo ventennio, e cioè da quando la fine della Guerra Fredda ha permesso di tornare a utilizzare le armi, è totalmente fallimentare. I Paesi nei quali si è registrato l’uso della forza da parte di potenze straniere, come l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, sono a brandelli, balcanizzati e in mano quasi sempre a forze integraliste. Dalla guerra evidentemente non nasce la democrazia, eppure la diplomazia internazionale ha smesso di esplorare le vie pacifiche per mettere alle strette i regimi totalitari e farli eventualmente crollare.

È difficile scommettere sul futuro dell’Afghanistan, ma poche volte come in questo caso si può dire che la storia si

ripete. Indipendentemente dalla natura politica e culturale dei talebani di turno, quando la politica tace e viene

dispiegata la pura forza militare si rischia sempre di fare flop. I generali, che si dilettano di numeri e statistiche sul

potere dei propri eserciti, dimenticano che un popolo invaso produce combattenti che valgono cinque invasori, che la

conoscenza del territorio e della cultura locale fornisce un vantaggio impossibile da compensare con il denaro. E che

un popolo bombardato anche mentre sta festeggiando un matrimonio diventa ancora più ostile contro l’invasore,

qualsiasi siano le intenzioni di quest’ultimo. Senza questi elementi non si può capire l’Afghanistan, un Paese povero

nel cuore dell’Asia centrale che non è mai stato piegato.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

afghan_jagdalak

commenti
  1. Anonimo ha detto:

    letto … m.r.

  2. web design ha detto:

    Articolo molto interessante… questi di sicuro non sono i soliti consigli triti e ritriti… grazie per lo spunto.

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