Se il panino non è più globale

Pubblicato: 21 giugno 2012 in Mondo
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In tempi di crisi economica globale, mentre molti Stati cominciano ad arroccarsi e a ricreare barriere protezionistiche, e molti migranti tornano nei Paesi di origine, anche per il panino globale pare sia suonato l’allarme. La catena di fast food McDonald’s, società-simbolo della globalizzazione alimentare, ha imboccato la strada della regionalizzazione dei suoi menu.

In Italia e in Francia si erano già percepite le avvisaglie di quella che ormai è diventata una politica aziendale: i panini con lo speck dell’Alto Adige o gli hamburger con il camembert  erano già stati introdotti nel menu da un paio d’anni per arricchire l’offerta, insieme alle verdure e alle insalate per rendere il pasto più sano. La spiegazione ufficiale di questi cambiamenti fa riferimento alla volontà di rispondere all’atteggiamento negativo di una fetta crescente di mercato, che rimprovera la multinazionale  di omogeneizzare i gusti e imporre i suoi hamburger in stile americano a spese delle tradizioni gastronomiche locali e della salute dei clienti. Ma questa versione non dice tutto.

La costruzione del brand McDonald’s, come quella di tanti altri marchi multinazionali, si è basata, più che sulla qualità del prodotto, sul messaggio che questo trasmetteva: mangia globale, diventa globale. Un concetto vincente soprattutto nel decennio dorato della globalizzazione, gli anni ’90, quando tutto il mondo era convinto che l’apertura dell’economia mondiale fosse la risposta alla povertà, all’oppressione, al provincialismo. Scarpe firmate, vestiti firmati, cibi firmati, uguali e riconoscibili in qualsiasi Paese del pianeta, che contenevano anche un messaggio di grande fede nell’avvenire.

Poi, piano piano, si è cominciato a capire che cosa c’era dietro la promessa delle multinazionali. Siamo già nel nuovo secolo e si comincia a parlare di delocalizzazione, precariato, sfruttamento minorile, distruzione ambientale. Oggi, a distanza di 4 anni dall’inizio di una crisi economica che sta mettendo in discussione la natura stessa del capitalismo, i marchi globali, i consumi globali, non sono più un must da esibire, ma stanno scivolando velocemente, nell’immaginario collettivo, verso la categoria della paccottiglia.

Così com’era liberatorio per i giovani di Mosca, Pechino o Milano mangiare un hamburger sotto gli archi dorati del re dei fast food, oggi lo diventa il ritorno ai tacos messicani, alla pizza o al kebab. Alimenti poveri che raccontano però storie nelle quali la gente può continuare a identificarsi. Cibo che è cultura e non solo nutrimento. Cultura perché il cibo è frutto di millenni di sperimentazioni, di incroci, di trasformazioni, di storie familiari e collettive. Un cibo senza cultura, o anzi, appartenente a una cultura ben precisa che però si è voluta vendere come universale, non poteva che essere effimero, legato a un determinato momento politico e a una moda.

Le catene di fast food questo lo sanno e oggi, in nome della regionalizzazione dell’offerta, fanno marcia indietro, proponendo ingredienti che renderanno il loro cibo molto meno globale e molto più locale. Un cibo con cultura appunto, la fine della fiaba che raccontava che l’hamburger era sinonimo di libertà, il ritorno alla valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti. Nel clima di negatività nel quale oggi siamo immersi, sicuramente una notizia positiva.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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