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La semplificazione delle relazioni internazionali messa in atto dalle potenze del passato, e in particolare dagli Stati Uniti, non regge alla prova dei fatti. Donald Trump, il massimo esponente di un’ideologia che pretende di fare ricorso alla sola leva economica per risolvere ogni conflitto, finora ha accumulato una lunga serie di fallimenti, sia sul piano della gestione delle guerre vere e proprie sia su quello delle contese commerciali. Credere che la Cina del 2025 potesse essere piegata dalla minaccia dei dazi fa capire come il personale della nuova amministrazione USA non abbia “letto” il mondo degli ultimi tre decenni. È evidente che gli uomini di Trump non sanno, o fanno finta di non sapere, nulla su quali siano state le conseguenze delle delocalizzazioni produttive degli anni ’90 e della crescita dei nuovi mercati: ignorano l’odierna interdipendenza globale in materia di rifornimenti di merci e servizi.  Eppure, dovrebbe essere ormai chiaro il ruolo assunto da Pechino al centro di un sistema alternativo di relazioni commerciali e politiche, quello che ha dato vita al gruppo dei BRICS, e che quel gruppo sta lavorando per una regia economica multilaterale non occidentale.

Lo stesso si può dire delle boutade sulla risoluzione del conflitto russo-ucraino in 24 ore, oppure della “brillante” idea di fare diventare Gaza la versione mediterranea del Qatar, senza palestinesi. Sono battute da bar, che nemmeno fanno ridere, su conflitti dalle radici antiche, tra i più complicati al mondo.

L’erraticità e la superficialità della politica estera di Washington si sono dimostrate appieno con la firma dell’accordo per lo sfruttamento minerario dell’Ucraina. Un accordo, cioè, con un Paese del quale si ignora se resterà territorialmente integro dopo il conflitto e, soprattutto, se manterrà la sovranità necessaria per rispettare gli accordi firmati in questa fase. Qui vengono al pettine i nodi del mondo che la potenza americana non sa più leggere: se è vero che l’Ucraina è così ricca di terre rare (ed è tutto da dimostrare), e se mai sarà possibile la loro estrazione, per separare i minerali e per farne uso industriale bisognerà ricorrere alla Cina, che a livello globale è l’unico Stato dotato impianti per la lavorazione delle terre rare.

Nell’universo semplificato della Casa Bianca, dove contano solo la potenza militare e il peso economico, non si è ancora capito che questo nostro mondo presenta livelli di complessità mai raggiunti prima. È un problema anche per Mosca, convinta anch’essa che la storia e il peso militare potessero bastare per piegare l’Ucraina. Invece Kiev è riuscita a tenere testa agli invasori, grazie alla NATO ma anche a nuovissime tecnologie militari come i droni, alla portata di medie potenze come Turchia o Iran.

Vecchie potenze con vecchie idee di politica estera, insomma. Quella americana è tornata ad avere mire imperialistiche ed è convinta che otterrà vantaggi minacciando ritorsioni economiche; quella russa è convinta che sia ancora possibile una politica imperialista armata, in barba a qualsiasi idea di diritto internazionale. In realtà si tratta di imperialismi senza impero, soprattutto per Mosca. Non è un caso che le zone del pianeta più colpite dai dazi di Trump, con qualche piccola eccezione, siano l’Europa comunitaria e la Cina. La prima perché è ancora nell’orbita geopolitica statunitense, la seconda per tentare, senza riuscirci, di colpire il vero antagonista. Africa, America Latina e buona parte dell’Asia sono state risparmiate non per bontà, ma perché ormai ruotano economicamente intorno a Pechino.

In questa caotica fase di transizione dal mondo bipolare al mondo multipolare le nuove certezze sono tutte da scrivere. I protagonisti della fase che verrà hanno diverse sensibilità, altre storie e culture. Ciò non vuol dire che l’ordine futuro sarà migliore, anzi, le avvisaglie sono preoccupanti, ma sicuramente non sarà lo stesso ereditato dalla Seconda guerra mondiale. 

L’inizio della seconda presidenza di Donald Trump, che coincide con la presidenza di turno brasiliana dei Paesi BRICS, potrebbe segnare un cambiamento nelle dinamiche internazionali rispetto agli ultimi anni. La prassi ormai datata dell’allineamento automatico tra Europa e Stati Uniti potrebbe saltare per divergenze su diversi punti, dalla questione della lotta al cambiamento climatico alle strategie per la risoluzione dei conflitti in corso, e bisogna mettere in conto anche una possibile guerra commerciale a colpo di dazi e un aumento delle tensioni circa il finanziamento della NATO. In questo scenario, gli Stati Uniti sceglieranno uno per uno i loro nuovi alleati strategici, non in virtù dell’appartenenza comune al “vecchio” Occidente ma sulla base dell’allineamento con il nuovo corso della Casa Bianca.

Simultaneamente, la presidenza brasiliana dei BRICS dovrebbe riportare il gruppo su posizioni meno antagonistiche nei confronti del blocco occidentale, caratterizzate dalla ricerca di alleanze trasversali per condurre alcune battaglie su scala globale. Brasile e India, per esempio, puntano a far progredire la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che invece è osteggiata da Cina e Russia, Stati che oggi godono entrambi di diritto di veto; sul clima, la Cina è disponibile a continuare gli sforzi per rispettare l’Accordo di Parigi del 2015 molto più di quanto non lo siano altri membri dei BRICS, e soprattutto intende lavorare per evitare il ritorno ai mercati nazionali chiusi. L’Europa, a meno di cambiamenti radicali nella guida politica dei maggiori Paesi, si troverà spesso più vicina a queste posizioni rispetto alle linee d’azione annunciate da Donald Trump. E lo schema di alleanze globali potrebbe quindi mutare.

Molto dipenderà della conclusione, ormai evidente, della fase militare dell’aggressione russa all’Ucraina che dovrebbe rendere più stabile lo scenario internazionale, almeno sul mercato dell’energia e della produzione agricola. Ma sono diversi i nodi e le contraddizioni che arriveranno al pettine nei prossimi mesi. Il Regno Unito, alleato “naturale” di Washington, con la mossa della Brexit ha assecondato l’aspirazione statunitense a rapportarsi con un’Europa divisa in Stati poco influenti, ma al momento è lontanissimo dall’amministrazione Trump. Tuttavia, nei nuovi equilibri Londra potrebbe essere chiamata a esercitare un ruolo importante su altre aree del mondo, in particolar mondo nel Pacifico. L’Italia, che pensa di ottenere vantaggi dalla vicinanza tra la presidente del Consiglio e il presidente degli Stati Uniti, difficilmente potrà concludere accordi al di fuori di quanto deciderà l’Unione Europea. L’UE, che nemmeno è considerata come interlocutore da Trump, potrebbe concludere invece un accordo globale con la Cina anche su temi sensibili come l’intelligenza artificiale.

Il resto del mondo si adeguerà in ordine sparso a questo nuovo ordine in costruzione. Sfruttando posizione di forza, come la Turchia, ormai Paese-chiave per la stabilizzazione in Medio Oriente, ma anche Israele e l’Arabia Saudita, che sono destinati a tornare a dialogare. Se il governo Trump confermerà o meno la discontinuità finora solo annunciata rispetto al passato è tutto da vedersi: ma sono bastati gli annunci per accelerare processi già in corso, come la maggiore dipendenza del Sudamerica dalla Cina, il progressivo abbandono delle velleità da potenza regionale dell’Iran, la calma cinese rispetto a Taiwan. La superpotenza americana ha votato e, come in tutte le elezioni, gli elettori hanno scelto in base alle priorità nazionali: ma le conseguenze dei cambiamenti di linea politica a Washington coinvolgono anche altri 7 miliardi e mezzo di persone, senza diritto di voto per la scelta dell’inquilino della Casa Bianca.