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Le rivelazioni del sito di giornalismo investigativo The Intercept sui messaggi che si erano scambiati via Telegram il giudice Sérgio Moro, oggi ministro della Giustizia del governo Bolsonaro in Brasile, e il pubblico ministero Deltan Dallagnol, che ha guidato il team investigativo dell’inchiesta “Lava Jato” sul conto dell’ex presidente Inácio da Silva Lula hanno dato sostanza ai sospetti che si addensavano sulla tormentata vicenda. I messaggi sarebbero la prova del fatto che in Brasile c’è stato qualcosa che ricorda i golpe degli anni ‘70. Quando si parla di golpe bisogna essere molto cauti, si tratta di un concetto che però oggi andrebbe aggiornato. Il colpo di stato è un’anomalia in paesi formalmente democratici nei quali, davanti alla rottura di equilibri di potere, intervengono i militari in rappresentanza degli interessi offesi per rimettere a posto le cose. Questo lo schema classico degli anni ‘70. Ma ciò che sta venendo alla luce in Brasile indica nuove modalità di ingerenza altrettanto efficaci. La condanna di Lula a 12 anni di reclusione per corruzione passiva e riciclaggio era stata criticata da giuristi di tutto il mondo. Questo perché non sono mai state trovate prove che confermassero l’ipotesi investigativa. L’unico elemento presso in considerazione per condannare Lula sono state le dichiarazioni di un pentito, Léo Pinheiro, che in cambio ha avuto un forte sconto di pena. Sulla base di questa dubbia “prova”, senza altri riscontri, in nessun Paese democratico sarebbe stata possibile una condanna al carcere. Ma in Brasile, dove più volte in questi anni si è praticamente uscito dalla legalità, tanto è bastato per la condanna in primo grado e per la conferma da parte della Suprema Corte.

Nei giorni scorsi papa Francesco, rivolgendosi ai giudici che partecipavano in Vaticano a un vertice panamericano sui diritti sociali, ha denunciato il cosiddetto lawfare, ossia l’uso illegittimo del diritto con l’intento di danneggiare un avversario, arma spesso usata per minare processi sociali e politici emergenti. Secondo il papa, queste pratiche derivano da una combinazione di attività giudiziarie improprie e operazioni multimediali parallele. Il suo discorso ha anticipato di poco l’uscita della notizia sulle irregolarità della giustizia brasiliana nel caso Lula. Ma il problema, ovviamente, non riguarda solo il Brasile. Il lawfare sarebbe la nuova frontiera del golpe, un mix di indebite ingerenze della Magistratura sostenute da un fitto fuoco mediatico.

Molto si è scritto in questi ultimi anni sui cambiamenti in corso nella politica da quando è divenuto possibile creare o distruggere il consenso attraverso l’uso spregiudicato (e spesso illegale) dei nuovi media, in particolare diffondendo notizie false. Poco, invece, si è ragionato sull’uso spericolato delle inchieste giudiziarie per abbattere o consacrare politici, anche con un tornaconto personale da parte dei giudici, come nel caso del brasiliano Moro. L’imparzialità e la terzietà della Giustizia sono un pilastro dei sistemi democratici, ma spesso restano tali solo sulla carta. Questo accade soprattutto in Paesi dove la democrazia è fragile e ostaggio dei poteri forti. Quel che è certo, nel caso brasiliano, è che se Lula non fosse stato vittima di atti illegittimi da parte degli inquirenti, coperti e aizzati dai grandi gruppi editoriali, la storia politica del Paese avrebbe potuto avere un segno diverso. Aldilà del nome che si voglia adoperare, il Brasile è stato vittima di un golpe in piena regola.

 

Le rivelazioni del sito di giornalismo investigativo The Intercept sui messaggi che si erano scambiati via Telegram il giudice Sérgio Moro, oggi ministro della Giustizia del governo Bolsonaro in Brasile, e il pubblico ministero Deltan Dallagnol, che ha guidato il team investigativo dell’inchiesta “Lava Jato” sul conto dell’ex presidente Inácio da Silva Lula hanno dato sostanza ai sospetti che si addensavano sulla tormentata vicenda. I messaggi sarebbero la prova del fatto che in Brasile c’è stato qualcosa che ricorda i golpe degli anni ‘70. Quando si parla di golpe bisogna essere molto cauti, si tratta di un concetto che però oggi andrebbe aggiornato. Il colpo di stato è un’anomalia in paesi formalmente democratici nei quali, davanti alla rottura di equilibri di potere, intervengono i militari in rappresentanza degli interessi offesi per rimettere a posto le cose. Questo lo schema classico degli anni ‘70. Ma ciò che sta venendo alla luce in Brasile indica nuove modalità di ingerenza altrettanto efficaci. La condanna di Lula a 12 anni di reclusione per corruzione passiva e riciclaggio era stata criticata da giuristi di tutto il mondo. Questo perché non sono mai state trovate prove che confermassero l’ipotesi investigativa. L’unico elemento presso in considerazione per condannare Lula sono state le dichiarazioni di un pentito, Léo Pinheiro, che in cambio ha avuto un forte sconto di pena. Sulla base di questa dubbia “prova”, senza altri riscontri, in nessun Paese democratico sarebbe stata possibile una condanna al carcere. Ma in Brasile, dove più volte in questi anni si è praticamente uscito dalla legalità, tanto è bastato per la condanna in primo grado e per la conferma da parte della Suprema Corte.

Nei giorni scorsi papa Francesco, rivolgendosi ai giudici che partecipavano in Vaticano a un vertice panamericano sui diritti sociali, ha denunciato il cosiddetto lawfare, ossia l’uso illegittimo del diritto con l’intento di danneggiare un avversario, arma spesso usata per minare processi sociali e politici emergenti. Secondo il papa, queste pratiche derivano da una combinazione di attività giudiziarie improprie e operazioni multimediali parallele. Il suo discorso ha anticipato di poco l’uscita della notizia sulle irregolarità della giustizia brasiliana nel caso Lula. Ma il problema, ovviamente, non riguarda solo il Brasile. Il lawfare sarebbe la nuova frontiera del golpe, un mix di indebite ingerenze della Magistratura sostenute da un fitto fuoco mediatico.

Molto si è scritto in questi ultimi anni sui cambiamenti in corso nella politica da quando è divenuto possibile creare o distruggere il consenso attraverso l’uso spregiudicato (e spesso illegale) dei nuovi media, in particolare diffondendo notizie false. Poco, invece, si è ragionato sull’uso spericolato delle inchieste giudiziarie per abbattere o consacrare politici, anche con un tornaconto personale da parte dei giudici, come nel caso del brasiliano Moro. L’imparzialità e la terzietà della Giustizia sono un pilastro dei sistemi democratici, ma spesso restano tali solo sulla carta. Questo accade soprattutto in Paesi dove la democrazia è fragile e ostaggio dei poteri forti. Quel che è certo, nel caso brasiliano, è che se Lula non fosse stato vittima di atti illegittimi da parte degli inquirenti, coperti e aizzati dai grandi gruppi editoriali, la storia politica del Paese avrebbe potuto avere un segno diverso.

Aldilà del nome che si voglia adoperare, il Brasile è stato vittima di un golpe in piena regola.

 

Ora che Lula è in prigione è tempo di bilanci e di prospettiva. Il dibattito sui limiti della magistratura quando fa supplenza della politica è sempre attuale. Ieri per l’Italia, oggi per il Brasile, il punto di partenza è sempre lo stesso: una classe politica logorata che si aggrappa al potere spartendosi il bottino e che non riesce a gestire l’economia di un paese in crisi. Aggiungiamo il crollo della fiducia dei cittadini, le campagne mediatiche che mettono in circolo notizie false e mirate, il protagonismo del magistrato d’assalto che non solo diventa famoso, ma che nei fatti decide le sorti del futuro politico del paese. In Italia Mani Pulite, politicamente parlando, partorì Berlusconi e Di Pietro, in Brasile Lava Jato per ora non ha partorito nulla, ma è in crescita nei sondaggi un ex-militare che propone la pena di morte e, se scendesse in campo, il giudice Sergio Moro sicuramente avrebbe un buon seguito. Tutto questo ovviamente al netto di fenomeni corruttivi reali che hanno macchiato ogni schieramento politico.

Troppo simile a Mani Pulite? Si e no. In Italia la seconda repubblica nata dalla maxi inchiesta è stata finora figlia della prima. Non si è registrata nessuna rottura reale né discontinuità. Le forze politiche predominanti, con eccezione del M5S, sono tutte figlie della stagione precedente. In Brasile la situazione è invece più complessa. E questo perché un grande paese federale ha delle complicate dinamiche locali. La grande figura carismatica che si candida a presidente della federazione fa la differenza, a prescindere spesso dalle forze che lo sostengono. Senza Lula il PT non sarebbe mai andato al potere. Quando nel 2002 l’ex sindacalista vinse la presidenza del Brasile, il PT raggiunse la percentuale più alta della sua storia, il 17,7%. Ed è in questo numero che sta il dramma brasiliano. Un paese che ha un sistema elettorale proporzionale per l’elezione dei parlamentari e maggioritario a doppio turno per quella del presidente. Non c’è quasi mai stato un presidente con maggioranza propria in parlamento. I voti per governare si devono conquistare, o comprare, da sempre. Questo spiega l’importanza di un partito fantasma, il PMDB, che vinse soltanto ai primi tempi del ritorno alla democrazia per poi diventare una federazione di cacichi locali che riesce ad avere sempre una consistente pattuglia in parlamento da mettere al servizio del vincitore di turno. Loro hanno governato con la destra di Fernando Enrique Cardoso e anche con la sinistra di Lula e Dilma, della quale il vicepresidente era proprio l’attuale presidente provvisorio, Michel Temer del PMDB.

Qual è stata la più grande colpa politica del Partito dei Lavoratori? Non avere mai nemmeno provato a riformare un sistema caratterizzato dala spartizione spesso corrotta.  Anche se bisogna dare atto che fu proprio Lula a fare approvare la legge “Scheda pulita” che dichiara ineleggibili le persone con condanne definitive per corruzione, crimini politici, razzismo e narcotraffico.  Ma ovviamente non è bastato, è oggi non è solo il PT, ma l’intero sistema dei partiti, soprattutto il centrodestra tradizionale, che è in crisi. Una crisi che colpisce il livello federale della politica brasiliana, cioè il governo con sede a Brasilia che ha il compito di garantire la coesione sociale ed economica di un paese grande come un continente. Un paese formato da almeno quattro mondi diversi e lontani, il ricco centro-sud industriale, il poverissimo nordest, l’isola amazzonica e i frammenti sparsi della sterminata provincia brasiliana. Il grottesco impeachment di Dilma Roussef, le denunce quotidiane di corruzione nei confronti del presidente provvisorio Temer, il carcere di Lula, le manifestazioni a suo favore e i fuochi di artificio nei quartieri ricchi di Sao Paolo per festeggiare la sua prigione sono sintomi di un paese che è sempre meno coeso. Alle ultime elezioni si era visto un Brasile spaccato in due dal voto, con le aree povere dove vinceva la sinistra e quelle più ricche dove prevaleva il centro destra. Lula era stato in grado di governare per entrambi, senza fratture, raccogliendo consensi ovunque. Lui è stato un grande riformista in campo sociale ed economico che ha governato per tutti, non per pochi. Oggi il Brasile che “conta” lo ha dimenticato e seppellito e vorrebbe tornare all’antico paese per pochi, quelli di sempre. Mancano però, a destra e a sinistra, figure con altrettanto carisma come ebbe Lula in grado di tenere insieme il paese, di fare tornare i tempi del Brasile potenza emergente. Questo diventa oggi il problema numero uno: chi è in grado di ridare fiducia ai cittadini, di affrontare con riforme profonde il nodo della corruzione, di continuare la lotta alla povertà, di uscire dalla crisi economica? Il gigante addormentato che si stava svegliando è di nuovo precipitato in un sonno profondo, che rischia presto di diventare incubo.