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L’accordo per l’istituzione della global minimum tax – l’imposta minima globale del 15% sui profitti delle multinazionali – è figlio di uno dei tentativi più ambiziosi compiuti negli ultimi decenni per riequilibrare la fiscalità internazionale. Nato nell’alveo dell’OCSE e sostenuto con forza dall’amministrazione statunitense, il progetto punta a contrastare l’elusione fiscale e la corsa al ribasso delle aliquote fiscali che da anni caratterizza la competizione tra Stati. Eppure, mentre gli occhi del mondo sono puntati sugli effetti attesi in termini di gettito e giustizia fiscale, in Europa cresce la preoccupazione che la global tax possa trasformarsi in un boomerang. A prima vista, il Vecchio Continente, e l’Unione Europea in particolare, sembrerebbero avere tutto da guadagnare: molti Paesi membri registrano da tempo perdite fiscali significative a causa del trasferimento artificiale dei profitti verso giurisdizioni più favorevoli, spesso interne alla stessa UE. L’armonizzazione minima, quindi, appare una risposta logica. Tuttavia, la dinamica competitiva tra i Paesi UE e il diverso peso delle economie nazionali rischiano di creare un quadro meno favorevole del previsto.

Il primo nodo critico riguarda gli Stati che negli anni hanno costruito parte della propria attrattività economica su un regime fiscale di vantaggio. Irlanda, Paesi Bassi e Lussemburgo hanno espresso più volte le loro riserve, temendo un indebolimento del proprio modello di sviluppo. Ma la vera incognita non è solo la resistenza politica: è l’effetto complessivo sull’ecosistema europeo. Se il vantaggio comparato di queste economie venisse meno, l’Europa non guadagnerebbe automaticamente maggiore competitività a livello globale. Anzi, rischierebbe di vedere investimenti importanti spostarsi verso regioni extraeuropee, dove l’innalzamento al 15% è percepito come trascurabile data la presenza di altre condizioni favorevoli, come il basso costo del lavoro o varie forme di deregulation.

Un secondo elemento di fragilità riguarda il ruolo degli Stati Uniti. Washington ha sostenuto l’accordo, ma l’iter di approvazione interna procede a fasi alterne, condizionato dalle tensioni tra Congresso e Casa Bianca. Il rischio è che l’UE applichi pienamente la global tax mentre altre grandi economie restano attardate, generando un’asimmetria normativa. Per le multinazionali con base americana o asiatica, l’Europa potrebbe così diventare un’area fiscalmente più onerosa, con la probabile conseguenza di scoraggiare nuovi insediamenti produttivi.

Sul fronte interno, l’UE si trova a fare i conti con la propria struttura decisionale. La fiscalità resta materia di competenza nazionale e vige il principio di unanimità: ciò ha portato a compromessi che rischiano di indebolire l’impatto della riforma. In alcuni casi, gli Stati membri stanno cercando di compensare l’aumento dell’aliquota minima attraverso altri strumenti di vantaggio, come incentivi settoriali o agevolazioni su ricerca e sviluppo. La conseguenza potrebbe essere una nuova forma di competizione interna, più opaca e meno controllabile.

Non va poi sottovalutato l’effetto sui colossi digitali, che rappresentano uno dei principali target della global tax. Molte big tech hanno costruito la loro presenza europea attraverso strutture che passano per Paesi a fiscalità più bassa. Con l’introduzione dell’aliquota minima globale, alcuni di questi gruppi potrebbero riconsiderare l’organizzazione delle proprie filiali o ridurre gli investimenti nei Paesi comunitari, privilegiando mercati più dinamici e con una popolazione più giovane.

Infine, c’è la questione del tempismo. In un momento segnato da forti tensioni geopolitiche, l’Europa sta attraversando una fase di rallentamento economico e aumento dei costi energetici, e ha difficoltà nel mantenere la propria competitività industriale. In questo contesto, qualsiasi intervento che possa essere percepito come un aggravio fiscale rischia di amplificare l’incertezza. Senza una strategia comune di attrazione degli investimenti, la global tax potrebbe accentuare le divisioni interne anziché ridurle.

L’obiettivo dichiarato della riforma resta condivisibile: garantire che le multinazionali contribuiscano in modo equo ai bilanci pubblici. Ma l’UE, pur essendo tra le regioni più impegnate nella lotta all’elusione, non può ignorare il rischio di diventare l’area dove il nuovo sistema produce gli effetti più rigidi. La sfida resta quella di trasformare la global tax in un’opportunità di riequilibrio, evitando che i principi di giustizia fiscale si traducano in un ulteriore freno alla competitività del continente.

Sono stati il G20 e poi l’OCSE a dare il via a una piccola rivoluzione dal grande significato: quella della Global Tax, proposta da Joe Biden. Un provvedimento che dovrebbe introdurre un principio di equità fiscale globale, chiudendo una parentesi durata tre decenni in cui le grandi multinazionali, soprattutto quelle del settore digitale, sono riuscite legalmente a non versare tasse sui loro profitti, grazie ad abili giochi di fantasia fiscale. Si tratta di un tema di equità che si è fatto urgente: non a caso la decisione è stata presa durante il G20 di Roma, in piena pandemia, da parte di Stati che si stavano indebitando per sostenere società alle prese con il lockdown mentre alcuni comparti industriali e del terziario, proprio grazie alla pandemia, crescevano come mai in passato.

Il percorso della Global Tax verso un’applicazione efficace appare però tortuoso. Il provvedimento introduce una tassazione minima al 15%, nettamente inferiore al 22% proposto dagli Stati Uniti all’inizio delle trattative. Dovrebbe interessare le multinazionali con un fatturato globale sopra i 750 milioni di euro che versano le tasse in Paesi con aliquote inferiori, chiamate ora a versare al fisco del Paese di residenza la “quota mancante” per raggiungere la soglia del 15%. Inoltre, la Global Tax istituisce per le imprese digitali l’obbligo di versare una parte delle tasse nei Paesi in cui vendono e producono il loro fatturato, anche se hanno sede altrove; in questo secondo caso, però, il fatturato deve superare i 20 miliardi con un margine di profitto superiore almeno del 10% rispetto ai ricavi.

Visti questi numeri, parliamo di una tassazione poco più che simbolica. Anzitutto perché il 15% di tasse sui profitti è una delle aliquote più basse al mondo, se si escludono i paradisi fiscali, e poi perché le aziende digitali non avranno difficoltà a mostrare a bilancio che i loro profitti non superano il 10% dei ricavi. Dunque l’aspetto più forte di questo provvedimento dovrebbe essere il suo valore politico e simbolico. Ma la tassa, che avrebbe dovuto entrare in vigore all’inizio del 2023, è già stata rimandata di un anno. E non è nemmeno detto che alla fine venga davvero applicata, perché nel fronte dei Paesi che dovrebbero “spingere” per l’introduzione della nuova tassa si sono evidenziate diverse spaccature. Nel Consiglio Ecofin dell’Unione Europea dello scorso aprile sono rientrate le resistenze di Svezia, Malta ed Estonia, ma non quelle della Polonia, che minaccia di porre il veto alla riunione di fine maggio. In realtà Varsavia non è interessata alla questione della Global Tax: sta semplicemente tentando di ricattare l’Unione Europea per via del blocco dei pagamenti del PNNR decretato da Bruxelles verso i Paesi responsabili di violazioni dello Stato di diritto.

Negli Stati Uniti le cose non vanno meglio, il Senato è spaccato e i repubblicani non vorrebbero l’aumento della tassa introdotta da Donald Trump sui profitti all’estero delle multinazionali statunitensi, oggi al 10%.

In conclusione, la Global Tax è appesa a un filo. Con ogni probabilità seguirà la scia di altre riforme globali, come quella sul protezionismo in agricoltura in discussione al WTO dal 2003, indirizzata verso l’insabbiamento.

I grandi gruppi che sarebbero stati chiamati a fare la loro parte, versando cioè una parte dei profitti agli Stati in cui operano, sono diventati così potenti da impaurire e condizionare la politica. Chi li attacca rischia di morire, politicamente parlando, per via della grande massa di informazioni e della grande capacità di manipolazione dell’opinione pubblica di cui queste società dispongono.

Nel frattempo gli Stati continuano a indebitarsi, prima per la pandemia e ora per la corsa al riarmo, mentre interi comparti produttivi (sanità, logistica, informatica, armi) ingrassano ulteriormente. L’osmosi tra Stato ed economia rischia così di diventare un abbraccio soffocante da parte di operatori economici sempre più grandi e meno numerosi, che usufruiscono dei servizi materiali e immateriali offerti dagli Stati ma si sottraggono sistematicamente alle loro responsabilità. Prima di parlare di Global Tax al G20, forse andava riscritto il patto di convivenza tra il grande capitale e gli Stati. Perché i grandi capitalisti sono convinti, a ragion veduta, che le loro iniziative non abbiano più limiti né comportino costi, mentre i secondi si ostinano a tentare lotte di retroguardia che non hanno più la capacità di portare a termine.

Pubblicato: 12 giugno 2021 in Mondo
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Governare la globalizzazione

Evento epocale o solo un primo passo? I giudizi sulla proposta di introdurre una global tax sui profitti aziendali che i ministri dell’Economia del G7 presenteranno al prossimo G20 e all’OCSE sono diversi. Andando per ordine, da un lato è vero che si introduce il concetto di “tassa mondiale” prendendo atto, in grande ritardo, che la globalizzazione non può essere governata da un singolo Stato ma deve essere gestita in modo multilaterale. E questo dato è senza dubbio epocale.

Dall’altro lato, i critici mettono in discussione l’aliquota al 15% della tassazione, considerata un compromesso al ribasso rispetto al 21% proposto da Joe Biden. In effetti, il 15% si avvicina molto al 12,5% applicato dall’Irlanda, che è uno dei Paesi con la tassazione corporate più bassa. Inoltre c’è da considerare che la proposta deve essere ancora approvata dal G20 e dall’OCSE, e poi bisognerà trovare una formula che permetta di varare in contemporanea la stessa legge almeno nei 38 Paesi dell’OCSE. Soprattutto, rimane aperta una questione tecnica di portata gigantesca che riguarda la soglia dell’area “no tax”. Nella sua formulazione attuale, infatti, la tassa si applicherebbe solo alle aziende con margini di profitto sopra il 10% rispetto al fatturato: una soglia che raramente le grandi multinazionali superano. Ad esempio Amazon nel 2020, il suo anno “straordinario”, ha registrato un margine di profitto pari al 6,2%: ad anni luce dalla soglia minima. E le pochissime imprese che oggi superano la soglia del 10% lavorerebbero con i consulenti fiscali per “limarla”, così da restare nell’area “no tax”.

Il problema vero, quindi, non è l’aliquota del 15%, ma il fatto che i grandi gruppi – quelli che si vorrebbe colpire – raramente ufficializzano percentuali di redditività tali da far entrare in gioco la global tax, almeno così com’è prevista. Un pronostico semplice è che alla fine, se dopo il lungo iter questa proposta sarà approvata, i soldi veri che entreranno nelle casse degli Stati dove le multinazionali producono reddito saranno molto pochi, quasi nulla. Eppure il segnale dato dal G7 è importante lo stesso, perché suona come una sorta di avvertimento ai grandi operatori economici. Soprattutto, è importante perché arriva dal Paese che fino a pochi mesi fa, con la presidenza Trump, sabotava tutti gli organismi multilaterali e qualsiasi tentativo di intesa tra Stati. Se gli Stati Uniti decidono che la globalizzazione va governata, ci sono buone chances che qualcosa succeda.

Simbolicamente si segna un precedente inedito, che oggi vale per il fisco e domani potrebbe valere per l’ambiente, l’altro grande fronte sul quale l’azione isolata dei singoli Stati non può portare ad alcun effetto. Anche sul cambiamento climatico poco si è fatto negli ultimi quattro anni perché gli USA “negazionisti” di Donald Trump hanno boicottato qualsiasi iniziativa multilaterale. Uno scossone unitario su questo tema potrebbe, almeno a livello simbolico, far capire che si vuole voltare pagina anche qui. Per non parlare di democrazia e diritti umani, ma ora scivoliamo nell’utopia.

Comunque sia, la proposta del G7 sulla global tax non è “epocale”, ma nemmeno “poca cosa”. È un segnale di un nuovo approccio alla globalizzazione, accelerato dalla pandemia. Gli Stati si sono indebitati, hanno finanziato la ricerca e acquistato apparecchiature mediche, hanno firmato contratti a scatola chiusa per miliardi di dosi di vaccini, si sono fatti carico dei lavoratori e delle aziende costrette alla chiusura: ora hanno bisogno di passare il conto. Per necessità, si arriva a imporre regole fiscali anche a chi finora ne era stato esentato. Qualcosa che doveva succedere da tempo, ma che la pandemia ha reso urgente, fornendo alla politica l’alibi per riprendersi qualcuno dei poteri che aveva man mano abbandonati negli anni, e anche per recuperare il suo ruolo redistributivo.